giovedì 23 dicembre 2010

Gaber, Sartre: libertà e responsabilità



"L'uomo, essendo condannato a essere libero, porta il peso del mondo sulle spalle: egli è responsabile del mondo e di se-stesso in quanto modo d'essere. Prendiamo la parola "responsabilità" nel senso banale di "coscienza di essere l'autore incontestabile di un avvenimento o di un oggetto". In questo senso, la responsabilità del per-sè è molto grave, perché colui che si fa essere, qualunque sia la situazione in cui si trova, il per-sè deve assumere interamente la situazione con il suo coefficiente di avversità, fosse pure insostenibile [...].
E' quindi insensato pensare di rammaricarsi perchè nulla di estraneo ha deciso di ciò che proviamo, di ciò che viviamo o di ciò che siamo. Quello che mi accade, accade per opera mia e non potrei affliggermene nè rivoltarmi nè rassegnarmi. D'altra parte tutto ciò che mi accade è mio: con ciò bisogna intendere che sono sempre all'altezza di quello che mi accade, in quanto uomo, perchè ciò che accade agli uomini per opera di altri uomini e di se-stesso non potrebbe essere che umano. Non ci sono situazioni disumane; è solo per paura, fuga e ricorso a comportamenti magici che deciderò dell'inumano; ma questa decisione è umana e ne sopporterò tutta la responsabilità [...].
Non ci sono accidenti in una vita; un avvenimento sociale che scoppia improvvisamente e mi trascina non viene dall'esterno; se sono mobilitato in guerra, questa guerra è la mia. Non essendomi sottratto, l'ho scelta. Non c'è stata alcuna costrizione, poichè la costrizione non può avere alcuna presa su una libertà: non ho avuto scuse perchè la qualità propria della realtà-umana è di essere senza scuse [...].
Così, totalmente libero, devo essere senza rimorsi nè rimpianti come sono senza scuse, perchè dal momento del mio nascere all'essere, porto il peso del mondo da solo senza che nulla nè alcuno possano alleggerirlo".

Le due voci che vi ho proposto nell'ultimo intervento di quest'anno apparentemente sono in contrapposizione fra loro, ma, alla fine rappresentano due esemplari richiami alla responsabilità individuale che faremmo bene a non dimenticare mai. Da un lato, Gaber constata amaramente che la libertà di pensiero e parola di cui godiamo oggi è inconsistente poiché è schiacciata dall'isolamento, dall'emarginazione, dalle barriere erette fra quegli stessi uomini che dovrebbero, sulla carta, costituire una comunità.
Dall'altro, Sartre ci richiama alla strutturale condizione di dover decidere nella nostra esistenza di noi stessi. Condizione ineludibile, in quanto anche il rifiuto di decisione o la volontà di sottrarci col suicidio sono sempre delle possibilità rese tali dal nostro essere-nel-mondo.
E allora, come uscire da questo vicolo cieco? Come rendere, quantomeno, più accettabile questo mondo dove la fanno da padrone disparità ed ingiustizie?
Ce lo ha già ricordato Gaber.

mercoledì 15 dicembre 2010

Pasolini e i politicanti

Le vicende (o meglio le vicissitudini) politiche di questi ultimi giorni impongono una breve riflessione. Non si può restare indifferenti o inermi di fronte alla marea di palle che siamo costretti a sopportare quotidianamente. E non voglio qui ricreare il solito predicozzo che mentre la gente non arriva a fine mese questi pensano al loro tornaconto, a gridarsi insulti di ogni tipo nei beceri talk show (che noi, sadicamente, guardiamo intontiti e assuefatti), a vendersi l'un l'altro dopo "profonde riflessioni ideologiche e pensando al bene degli italiani". E' troppo facile fare un discorso del genere adesso: bisognerebbe farlo quando verranno a chiedere i nostri voti, a prometterti un lavoro, un futuro ecc ecc. Per quanto mi riguarda, pur di non dover pietire un posticino a qualcuno di questi figuri preferirei morire di fame. In ogni caso, vi lascio con una riflessione di Pier Paolo Pasolini, pensatore tanto fine quanto bistrattato ed ignorato dal suo Paese, oggi più che mai. Il brano propostovi è tratto da "Lettere luterane", raccolta di saggi che Pasolini scrisse nel 1975, suo ultimo anno di vita.

"[...] I potenti democristiani che in questi anni hanno detenuto il potere, dovrebbero andarsene, sparire, per non dire di peggio.
Invece non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poichè la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non la si può ascoltare. Bisogna tapparsi le orecchie.
Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni loro parola, di ribrezzo e di condanna. In altre parole, il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l'Italia.
Invece, quasi tutti gli intellettuali all'opposizione accettano sostanzialmente quello che accettano i potenti democristiani. Essi non sono affatto scandalizzati dalla mostruosità della lingua dei potenti democristiani".

giovedì 9 dicembre 2010

Sartre e l'amour

Ahhh l'amour! Fonte di gioie e dolori, in misura proporzionale alla nostra maggiore tendenza a gioire o soffrire... Tuttavia, anche nelle situazioni che mettono più a dura prova i nostri sentimenti, un rimedio, per quanto mi riguarda, c'è: rifletterci, pensarci su, cercare un senso a tutto ciò che ci succede. Per molti potrà essere una forma di masochismo, ma per me si tratta di una vera e propria decostruzione depotenziante di ciò che ci affligge e, perché no, il preludio ad una reazione-nuova azione (che non necessariamente può portare al meglio, ma questo è un altro discorso).

Al di là delle mie divagazioni, come avete capito stavolta affrontiamo l'amore interpretato nell'ottica ontologico-esistenziale di Jean-Paul Sartre. Il testo di riferimento è naturalmente Essere e nulla, pietra miliare della filosofia contemporanea. Una breve introduzione: dopo aver esaminato nelle sue principali dimensioni e manifestazioni l'uomo, unico protagonista della ricerca del famigerato essere, che potremmo grossolanamente definire come il senso della nostra esistenza e/o suo fondamento, Sartre esamina le dinamiche concrete con cui ci relazioniamo ai nostri simili . Ciò che accomuna tutti i nostri comportamenti, secondo Sartre, è la conflittualità, dato che non può trattarsi di "relazioni unilaterali con un oggetto in-sè, ma di rapporti reciproci e mobili. Mentre io tento di liberarmi dall'influenza d'altri, l'altro tenta di liberarsi dalla mia, mentre io tento di soggiogare l'altro, l'altro tenta di soggiogarmi".

La ragione di questa conflittualità connaturata a qualsiasi relazione è dovuta al fatto che "io sono posseduto dall'altro; lo sguardo d'altri forma il mio corpo nella sua nudità, lo fa nascere, lo vede come io non lo vedrò mai. L'altro possiede un segreto: il segreto di ciò che sono. Mi fa essere. L'altro è per me insieme ciò che mi ha rubato il mio essere e ciò che fa in modo che vi sia un essere che è il mio essere. Così rivendico l'essere che sono; voglio riprenderlo". Tuttavia, c'è un ostacolo insormontabile nella realizzazione di questo progetto: la libertà dell'altro e la conseguente impossibilità di assoggettarlo pienamente a me. Per cui, qualsiasi nostro progetto che implichi un altro, non può che basarsi sulla conflittualità, dato che ci pone in "legame diretto con la libertà d'altri. E' in questo senso che l'amore è conflitto. Il mio progetto di riprendere il mio essere non può realizzarsi se io non mi impadronisco di questa libertà e non la riduco a essere libertà sottomessa alla mia libertà".

"Perché l'amante vuole essere amato? Se l'amore fosse puro desiderio di possesso fisico, potrebbe essere, nella maggior parte dei casi, facilmente soddisfatto. Invece è della libertà d'altri in quanto tale che vogliamo impadronirci. Chi vuole essere amato non desidera di asservire l'essere amato. Non vuole possedere un automa. L'amante pretende un tipo speciale di appropriazione. Vuole possedere una libertà come libertà. L'amante vuole essere amato da una libertà e pretende però che questa libertà come libertà non sia più libera. Vuole che la libertà dell'altro si determini da sè ad essere amore e, insieme, che questa libertà si imprigioni da sé per volere la sua prigionia. E questa prigionia deve essere insieme rinuncia libera e incatenata nelle nostre mani. Per quanto lo riguarda, l'amante non pretende di essere la causa di questa modificazione radicale della libertà, ma di esserne l'occasione unica e privilegiata. Nell'amore l'amante vuole essere tutto il mondo per l'amata".

"[...] Se l'altro mi ama, io divento l'insuperabile, il che significa che devo essere il fine assoluto. L'oggetto che l'altro deve farmi essere, è un centro di riferimento assoluto intorno al quale si dispongono come puri mezzi tutte le cose-utensili del mondo. Se devo essere amato, sono l'oggetto per opera del quale il mondo esisterà per l'altro. Invece di essere un questo che si stacca dallo sfondo del mondo, sono l'oggetto-sfondo dal quale il mondo si stacca. [...] Mentre, prima di essere amati, eravamo inquieti per questa protuberanza ingiustificata, ingiustificabile che era la nostra esistenza, mentre ci sentivamo "di troppo", ora sentiamo che questa esistenza è ripresa e voluta nei minimi particolari da una libertà assoluta che essa condiziona nello stesso tempo e che proprio noi vogliamo con la nostra libertà. E' questo il fondo della gioia d'amore, quando c'è: sentirci giustificati di esistere".

Tuttavia, anche questa sopraelevazione ontica e spirituale allo stesso tempo è distruttibile in quanto "le relazioni amorose sono un sistema di rimandi all'infinito sotto il simbolo ideale del valore amore, cioè di una fusione delle coscienze in cui ciascuna di esse conserverebbe la sua alterità per fondare l'altro". C'è sempre un nulla impercettibile che separa i due amanti, anche negli attimi della fusione più totale che ci sia data, dato che anch'essa spesso si rivela sfuggente, misera, vacua in quanto inevitabilmente materiale e finita (ma su questo punto ritorneremo). "L'amore è dunque uno sforzo contraddittorio: il problema del mio essere-per-altri rimane senza soluzione, gli amanti rimangono ciascuno per sé in una soggettività totale; niente toglie loro la contingenza e li salva dalla fatticità. Inoltre il loro guadagno può essere continuamente compromesso: a ogni istante, ciascuna coscienza può liberarsi dalle sue catene e contemplare improvvisamente l'altro come oggetto. Allora la magia cessa, l'altro diventa mezzo tra altri mezzi; l'illusione, il gioco degli specchi che forma la realtà concreta dell'amore, cessa improvvisamente". Amara quanto cruda verità.

mercoledì 1 dicembre 2010

Tra Monicelli e Cioran

Il primo intervento di questo mese non poteva che essere ispirato dalla tragica scomparsa di un grande artista ed intellettuale italiano, Mario Monicelli. E cercheremo di farlo usando il linguaggio che ha caratterizzato tutti i suoi film: quello della sincerità, della schiettezza e della velata amarezza che ciascuno di noi sente non appena si ferma un attimo a riflettere su di sé e sul nostro Paese. La necessità di un simile ricordo è resa ancor più urgente soprattutto per il modo con cui Monicelli ha scelto di porre fine alla sua esistenza, diventato, purtroppo, oggetto delle becere discussioni dei nostri politicanti, che sono riusciti a fare anche di questo tragico lutto un campo di scontro per le loro vomitevoli ideologie. Ma adesso non è il caso di discutere sull'eutanasia: vogliamo prendere spunto dall'ultimo gesto compiuto dal maestro di Monicelli per riflettere su qualcosa che rappresenta un tabù per la nostra civiltà, ovvero il nostro strutturale tendere verso la morte; la stretta relazione fra vita e morte e su come basti un nonnulla per spegnere per sempre un'esistenza.

Il filosofo che voglio farvi ascoltare ha fatto di questo pensiero il cardine di tutta la sua riflessione. Si tratta di Emil Cioran che per lungo tempo si è concentrato sul senso di questo estremo quanto coraggioso gesto. Ma il suicidio non può e non deve essere considerato come la facile soluzione a tutti i nostri mali, né come una meta piacevole da prefiggersi, bensì come enigmatico atto-limite per la nostra già paradossale esistenza, in quanto ci rimanda ineludibilmente alla nostra finitezza, alla nostra debolezza, alla nostra impotenza strutturale che invece cerchiamo di dimenticare appresso a progetti, impegni, preoccupazioni ed ansie con cui ci affaccendiamo nella quotidianità. Cerchiamo allora di sospendere per un attimo questo tempo "pieno" e lasciamo parlare a noi Cioran, dedicando questi pensieri al Maestro Mario Monicelli.


- Incontri col suicidio -


Esiste in noi, più che una volontà, una tentazione di morire. Se infatti ci fosse concesso di volere la morte, chi, alla prima contrarietà, non ne approfitterebbe? Un altro impedimento entra nel gioco: l'idea di uccidersi appare incredibilmente nuova a chi ne è posseduto; costui dunque si figura di eseguire un atto senza precedenti: questa illusione lo occupa e lo lusinga, e gli fa perdere del tempo prezioso.


Quando ci afferra l'idea di farla finita, uno spazio si stende davanti a noi, una vasta possibilità fuori dal tempo e dall'eternità stessa, un'apertura vertiginosa, una speranza di morire al di là della morte.
Invero, uccidersi è rivaleggiare con la morte, dimostrare che si può fare meglio di lei, giocarle un brutto tiro e, successo non da poco, riabilitarsi ai propri occhi. Ci si rassicura, ci si persuade di così di non essere l'ultimo venuto, di meritare un poco di considerazione. Si pensa: fino ad oggi, incapace di prendere un'iniziativa, non avevo nessuna stima di me; ora tutto cambia: distruggendomi, distruggo a un tempo tutte le ragioni che avevo per disprezzarmi, ritrovo la fiducia, sono per sempre qualcuno...


Aspettare la morte è subirla, farla scadere al rango di processo, rassegnarsi a una conclusione di cui ignoriamo data, modalità e scenario. Si è ben lontani dall'atto assoluto. Non c'è niente in comune tra l'ossessione del suicidio e il sentimento della morte. [...] La morte non è necessariamente sentita come liberazione; il suicidio libera sempre: è culmine, è parossismo di salvezza.
Per decenza, dovremmo essere noi a scegliere il momento di scomparire. E' avvilente estinguersi come ci si estingue, è intollerabile essere esposti a una fine sulla quale non abbiamo alcun potere, che vi spia, vi atterra, vi precipita nell'innominabile.
[...] La millenaria cospirazione contro il suicidio è la causa dell'ingombro e della sclerosi nelle società. E' nostro diritto imparare a distruggerci al momento giusto, ad accorrere lietamente verso il nostro spettro. Finché non ci saremo risolti a questo, meriteremo tutte le nostre umiliazioni. Quando si è esaurita la propria ragione d'essere, ostinarsi è odioso. E invece ovunque si guardi, non si vede che l'indegnità della morte corporale.
Scrive Leopardi che quando dopo molti anni ritroviamo una persona conosciuta nell'infanzia, la prima impressione che ne ricaviamo è che sia stata colpita da qualche grande disgrazia. Durare è sminuirsi: l'esistenza è perdita d'essere. [...]


Non ci si uccide, come comunemente si pensa, in un accesso di demenza, ma in accesso di intollerabile lucidità, in un parossismo che, se vogliamo, può essere assimilato alla follia, se è vero che una chiaroveggenza eccessiva, spinta agli estremi e di cui ci si vorrebbe sbarazzare ad ogni costo, oltrepassa i limiti della ragione. Nonostante tutto, il momento culminante della decisione non testimonia un intenebramento: gli idioti non si uccidono praticamente mai, anche se ci si può uccidere per paura, o presentimento, dell'idiozia. L'atto si fonde allora con l'ultimo soprassalto dello spirito che riprende se stesso e che prima di annientarsi raccoglie tutte le sue forze, tutte le sue facoltà. Sulla soglia della disfatta estrema, prova a se stesso di non essere interamente perduto. E si perde- in piena, in istantanea padronanza di tutti i propri mezzi.


In quell'isoletta del Mediterraneo, assai prima dell'alba, sul sentiero che mi portava verso la parte più scoscesa della scogliera, facevo qualche riflessione da portinaio in vacanza: se quella villa fosse mia la dipingerei color ocra, farei mettere un altro steccato, ecc. Nonostante la mia idea, mi aggrappavo alle inezie: contemplavo le agavi, bighellonavo, eludevo con qualche digressione l'urgenza del mio proposito. Un cane si mise ad abbaiare, poi mi fece festa e mi seguì. Nessuno, che non l'abbia provato, può immaginare il conforto che vi dà un animale quando viene a tenervi compagnia, se gli dèi vi hanno voltato le spalle.


- Pensieri strangolati -


Perché non mi uccido? - Se conoscessi esattamente ciò che me lo impedisce, non avrei più domande da rivolgermi, avrei risposto a tutte.


Non abbiamo scrutato il fondo di una cosa, se non l'abbiamo considerata al lume dell'avvilimento.


"Niente merita d'essere preso a cuore" - si ripete colui che ce l'ha con se stesso ogni volta che soffre e che non perde l'occasione di soffrire.


Cercare un senso a qualcosa è non tanto da ingenuo quanto da masochista.


Bisognerebbe dirsi e ripetersi che tutto quanto ci allieta o affligge corrisponde a niente, che tutto è perfettamente derisorio e vano.
...Ebbene, ogni giorno me lo dico e me lo ripeto, eppure continuo ad allietarmi e ad affliggermi.

martedì 23 novembre 2010

Kubrick - Full Metal Jacket

Ieri notte ho beccato "Full Metal Jacket", uno dei più bei film tra tutti i capolavori kubrickiani. Definirlo un film sulla Guerra del Vietnam sarebbe riduttivo. Il Vietnam non vi appare che marginalmente: ciò che interessava maggiormente Kubrick era rappresentare la follia e la psicocità che contrassegnano qualsiasi tipo di potere e/o istituzione civile. Si tratta quindi di un film non su una guerra ma sulla guerra come prodotto dell'irrazionalità e della follia umana. Irrazionalità e follia che si nutrono, ovviamente della prevaricazione, dell'odio e dell'intolleranza per i nostri simili, ma che mostrano, nella pianificazione di un campo di sterminio o nella costruzione di bombe atomiche capaci di spazzare via intere regioni, una lucidità e una razionalità spaventose, quasi onnipotenti. Non si tratta di tematiche di poco conto: Nietzsche, in "Al di là del bene e del male" scriveva che "La pazzia è qualcosa di raro nei singoli - ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli e nelle epoche è la regola".

Per Heidegger, nella nostra epoca in cui si concretizza il totalitarismo della tecnica su tutto ciò che è, uomo in primis, la guerra rappresenta la massima espressione del nichilismo, della violenza e del pericolo che accompagnano da sempre l'essere umano. Gli eserciti non sono che delle fabbriche di "pezzi di riserva" funzionanti anche in tempo di pace, dato che bisogna essere preparati ad ogni evenienza per sostituire i soldati-pezzi "guasti o non più utilizzabili". L'uomo giunge alla piena cosificazione ed anche la morte a cui va incontro in un conflitto atomico non ha nulla di eroico, né di valoroso. Con ciò non ho voluto fare un excursus fine a sé stesso: si tratta di tematiche che traspaiono vividamente da "Full Metal Jacket".

Il film può essere suddiviso in due parti: nella prima il regista descrive magistralmente l'imprescindibile cosificazione ed omologazione degli individui che dovranno formare l'esercito americano. Le giovani reclute non potranno, né dovranno pensare individualmente, ma come un corpo solo. Perciò, l'unica cosa che sono tenuti a fare è obbedire agli ordini del capo-addestratore, il funambolico Generale Hartman, il cui compito è quello di formare "non dei robot, ma dei killer" e di stremare in qualsiasi maniera le reclute per scremare gli inetti. In quest'ottica, Palla di Lardo rappresenta il bersaglio più ovvio quanto più esemplificativo: l'umiliazione, la violenza psicologica a cui viene quotidianamente sottoposto dal Generale alla fine riuscirà a farlo diventare un vero soldato, anche se ciò avverrà a scapito del suo equilibrio psichico, da cui il tragico epilogo dell'ultima notte al campo. Paradossalmente, il Generale Hartman sarà una vittima dell'efficacia del suo metodo di addestramento basato su valori come l'odio, il disprezzo e la "volontà d'uccidere" come via maestra di ogni buon marines.

Nella seconda parte inizia ad emergere il protagonista della narrazione: Joker. Personaggio quantomai complesso ed ambiguo, decide di fare il cronista militare. Stufo della continua manipolazione e delle menzogne propagandistiche che il governo dava in pasto al popolo americano, dicendogli quello che voleva sentirsi dire, ovvero che la "missione di pace" sarebbe stata breve ed indolore per tutti e che il popolo vietnamita era infinitamente grato per la libertà "american-style" loro concessa a suon di bombardamenti e stragi di civili, Joker si fa mandare sul fronte dei combattimenti. Qui intervista soldati sanguinari, come quello sull'elicottero che alla domanda "Ma come fai a sparare su donne e ragazzini?", risponde: "E' facile! Vanno più lenti e miri da più vicino!", ritrova il suo compagno di plotone Cowboy, e combatte al suo fianco, anche se combattuto interiormente ed esteriormente per tutto quello che era stato costretto a vivere. Il tutto ci viene raccontato con l'inconfondibile satira kubrickiana che riesce sia a dissacrare lo schema cinematografico dei seriosi ed eroici film di guerra (ridicolizzando così la guerra in generale e mostrandone l'insulsaggine) sia, soprattutto, a fare riflettere amaramente anche lo spettatore più superficiale.

Giungiamo così al sorprendente finale: la squadra di Joker cade in un'imboscata di un cecchino implacabile. Dopo aver abbattuto quasi metà della squadra, i soldati si dividono tra chi vorrebbe ritirarsi e chi invece non può lasciare invendicata la morte dei propri compagni. Animal si scatena nella caccia del cecchino sanguinario, che alla fine risulterà essere una ragazza viet-cong. Ironia della sorte, il soldato che si ritroverà faccia a faccia con lei è proprio Joker, il soldato pacifista, forse il meno "valoroso" proprio perché non poteva far a meno di pensare alla natura ambigua e contraddittoria dell'uomo, diviso tra bene e male, irrazionalità e ragione. Alla fine Joker esaudisce il desiderio della ragazza agonizzante, finendola a sangue freddo. Ma nonostante le parole dei suoi compagni ("Ora sì che sei un duro Joker!"), ciò che traspare dal suo volto non è che smarrimento, quello stesso smarrimento che sorge in noi dopo aver assistito ad una scena così devastante. Ma in nessuno dei marines di "Full Metal Jacket" può esserci spazio per sentimentalismi e riflessioni: eccoli subito che marciano in mezzo al fuoco dell'inferno, di quell'inferno voluto dalla loro beneamata patria, pensando ancora ad "eiaculazioni notturne e a Jane fica-rotta", ma anche, e soprattutto, alla felicità di essere ancora vivi: "Certo - ci racconta Joker - vivo in un mondo di merda, ma sono vivo e non ho più paura" di essere mandato a morire per qualcosa di follemente razionale.

lunedì 15 novembre 2010

Schopenhauer, la volontà e la musica

Continuiamo ad addentrarci ne "Il mondo come volontà e rappresentazione", opera maxima di Schopenhauer. Nell'ultimo intervento abbiamo evidenziato gli snodi fondamentali della riflessione del filosofo: cercando egli di comprendere il senso del dolore e delle ineludibili sofferenze che caratterizzano la nostra esistenza, Schopenhauer approda alla definizione della vita come continua ricerca di appagamento dei nostri desideri, sintomi continuamente emergenti dalla volontà di vita che anima tutti gli esseri. L'uomo, essendo l'unico tra gli enti in grado di riflettere su tutto ciò, può cercare di sottrarsi a questa continua irrequietezza: attraverso l'ascesi (risultato massimamente arduo da raggiungere dato che presuppone un'abnegazione e uno sforzo continuo), oppure attraverso l'intuizione e la contemplazione artistico-estetica che, anche se per brevi quanto intensi momenti, riesce a farci dimenticare la nostra miseria esistenziale, schiudendoci la conoscenza essenziale di noi stessi e della realtà che ci circonda. Tra le varie forme d'espressione artistiche, Schopenhauer non esita a definire la musica come la più rivelatrice in assoluto. Vediamo perchè.


- La musica come arte a sè -

La musica è separata da tutte le altre arti. Noi non riconosciamo in lei la copia, la ripetizione di qualche idea degli esseri del mondo: tuttavia essa agisce con tale potenza sull'intimo dell'uomo, viene da lui così appieno e a fondo compresa, quasi lingua universale la cui evidenza supera quella dello stesso mondo intuitivo, che in lei certamente dobbiamo cercare ben più che un "oscuro esercizio aritmetico che l'animo fa non sapendo di numerare", come la definì Leibniz. Se essa altro non fosse, la soddisfazione che ci procura dovrebbe esser simile a quella che noi proviamo per l'esatta soluzione di un calcolo, e non potrebbe essere quell'intima gioia che nasce in noi al veder trasformata in linguaggio la più profonda sostanza del nostro essere.


- La musica è oggettivazione diretta e immagine della volontà -

[...] Adeguata oggettivazione della volontà sono le idee; suscitare la conoscenza di queste [possibile solo mediante un corrispondente cambiamento nel soggetto conoscitivo], attraverso la rappresentazione di singoli oggetti [le opere d'arte], è lo scopo di tutte le altre arti. Esse dunque oggettivano solo mediatamente la volontà, cioè per mezzo delle idee: e poichè il nostro mondo altro non è che fenomeno delle idee nella pluralità, così la musica, andando oltre le idee [ovvero, non imitando nulla di tutto ciò di materiale che ci circonda e che conosciamo con la ragione] è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico. La musica è oggettivazione e copia immediata di tutta la volontà, come lo è il mondo, anzi come lo sono le idee, il cui fenomeno multiplo costituisce il mondo delle cose particolari. La musica non è dunque l'immagine delle idee, ma l'immagine della stessa volontà. Perciò l'effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti, poichè quelle parlano d'ombre, essa invece esprime l'essenza.


- La funzione della melodia -

[...] Nella melodia che procede movendosi in libertà sbrigliata dal principio alla fine con la coerenza ininterrotta e densa di significati di un unico pensiero, io riconosco il grado supremo di oggettivazione della volontà, la vita e le attività coscienti dell'uomo. Come questo, essendo il solo dotato di ragione, guarda davanti e dietro a sè sul corso della sua realtà e delle innumerevoli possibilità, conducendo così una vita consapevole e coerente come un tutto organico, allo stesso modo la melodia ha dal principio alla fine una significativa, intenzionale coerenza. Essa ci racconta di conseguenza la storia della volontà che, illuminata dalla riflessione, si esprime nella realtà con la serie dei suoi atti; ma dice di più: narra di questa storia più segreta, ne dipinge ogni emozione, ogni slancio, ogni moto, tutto ciò che la ragione raccoglie sotto il vasto e negativo concetto di sentimento, nè può meglio raccogliere nelle proprie astrazioni.


- Analogia del movimento melodico con quello della volontà -

[...] Ora, come l'essenza dell'uomo consiste nell'aspirazione della volontà che viene appagata e torna ad aspirare perennemente, anzi la sua felicità, il suo benessere sta nella rapidità del passaggio dal desiderio all'appagamento e da questo ad un nuovo desiderio, poichè la mancanza dell'appagamento è dolore, la mancanza di un nuovo desiderio è vuota aspirazione, noia, così l'essenza della melodia è un continuo scostarsi, un errar lontano dal tono fondamentale, per molte vie non solo verso i gradi armonici, ma per ogni tono, sempre però infine con un ritorno al tono fondamentale. Per tutte queste vie la melodia esprime le diverse forme di aspirazione della volontà, ma da ultimo anche l'appagamento mediante il ritorno ad un grado armonico, o al grado fondamentale. Trovare la melodia, svelare in lei tutti i più profondi segreti del volere e del sentimento umano è l'opera del genio, la cui azione, qui più che altrove evidente, è lontana da ogni riflessione, e si può chiamare ispirazione. Qui il concetto, come sempre in arte, è sterile: il compositore rende palese l'intima essenza del mondo ed esprime la più profonda saggezza in una lingua che la sua ragione non intende.


- L'alto valore dell'arte -

Dunque, considerando che con l'arte noi disponiamo non soltanto dello "specchio" della volontà, ma anche della possibilità di liberarci (anche se momentaneamente) da ogni vincolo col volere, per Schopenhauer l'arte è il più consolante e il solo innocente aspetto della vita. [...] Il piacere per ogni cosa bella, la consolazione offerta dall'arte, l'entusiasmo che all'artista fa dimenticare le pene della vita ed è l'unico privilegio che ricompensa il genio del dolore cresciuto assieme alla chiarità della coscienza, e della squallida solitudine tra una razza estranea, tutto ciò deriva dal fatto che l'in-sè della vita, la volontà, l'esistenza stessa, è un costante soffrire, in parte miserando, in parte orrendo; lo stesso invece come semplice rappresentazione puramente intuita o riprodotta dall'arte, libera da ogni dolore, presenta un significativo spettacolo.

lunedì 8 novembre 2010

Schopenhauer, la volontà e l'arte

Pochi pensatori riescono ad arrivarti nel profondo, a farti sussultare, a darti la paradossale impressione di condividere con te esperienze, sofferenze e riflessioni come Arthur Schopenhauer. Perdonate la presentazione forse un pò troppo intimistica ma è questo quello che provo leggendo alcune sue opere. Cercherò di condividere con voi queste mie impressioni, proponendomi stavolta di riuscire ad approfondire maggiormente la riflessione, sperando, come sempre, di non annoiarvi. Lo scritto a cui faremo riferimento è il terzo libro de "Il mondo come volontà e rappresentazione". Questo intervento sarà focalizzato sull'ottima introduzione alla filosofia schopenahueriana di Rinaldo Manfredi (sulla quale mi sono permesso di fare qualche piccola modifica); nel prossimo entreremo invece nel vivo dell'opera discutendo su una forma d'arte particolarmente rivelatrice secondo Schopenhauer: la musica.

Schopenhauer ebbe fin dall’adolescenza una straordinaria sensibilità per l’aspetto doloroso della vita. Il suo pensiero doveva trovare una giustificazione di questa realtà e delle difficoltà che essa ci riserva. Punto di partenza della sua riflessione è la distinzione kantiana fra realtà fenomenica e cosa in sé o noumeno. Per Schopenhauer, Kant non poteva legittimare questa distinzione poiché il mondo è sempre e comunque oggetto per un soggetto. Tuttavia, l'uomo non può essere considerato soltanto come pura conoscenza: è qualcosa di ben più profondo. C'è infatti dell'altro oltre alle categorie attraverso le quali conosciamo la realtà: l'azione e la volontà. E' in essa che noi sentiamo di essere non solo soggetti di conoscenza, ma anche centri di attività, capaci di patire, di desiderare e tendere al volere.

Secondo Schopenhauer, questa volontà non è propria solo dell'uomo ma è in tutte le cose. Volontà è nel cristallo che si forma, nella pietra che cade, nel fiore che nasce e negli animali. La volontà è l’in-sé del mondo, che si presenta come un principio irrazionale sul quale si apre successivamente la conoscenza. La volontà è un tendere continuo, bisogno sempre rinascente. Essa genera però nell'uomo il dolore, dato che soltanto noi, essendo dotati di ragione, possiamo renderci conto di essa e del circolo vizioso in cui stringe inesorabilmente la nostra esistenza. La felicità per Schopenhauer
[che abbiamo già preso in considerazione qualche tempo fa], non può che essere sfuggente e momentanea, consistendo in quel rapido senso di soddisfazione di un desiderio prima che possano nascerne in noi degli altri. Se la volontà non riprende la sua via nasce la noia. Nessuno potrebbe durare a lungo nella descrizione di uno stato soddisfatto e felice senza riuscire noioso. La vita oscilla fra il dolore e la noia. Di qui il senso di oppressione e di fatica che ci accompagna nella vita. E’ sempre l’unica volontà che strazia se stessa. L’esistenza è un peccato che tutti dobbiamo scontare. Se tale è la natura del destino di ogni vivente, è necessario trovare la via che porti alla liberazione. Per questo la filosofia non dovrebbe mai formulare dei precetti astratti ma rivolgersi sempre alla realtà.

A nulla serve il suicidio. Esso libera forse l’individuo, ma lascia intatta la volontà, la quale anzi determina anche questo estremo gesto. La liberazione può essere raggiunta solo quando la volontà, divenuta consapevole di sé e del proprio destino, non vuol più essere volontà di vita o, meglio, vuole sottrarsi al suo dominio irrequieto. E’ precisamente nell’asceta, in cui il dolore universale ha parlato, che avviene il miracolo. Dunque la rinuncia, l’inazione, il nirvana è la suprema saggezza, che non solo redime l’individuo in cui si attua, ma l’intera volontà. L’ascesi è la più perfetta ma non la sola forma di liberazione: accanto ad essa abbiamo la giustizia e la compassione, nei quali si tende al superamento dell’egoismo, fonte di ogni dolore, e l’arte.

Questa è contemplazione dell’idea da parte di un soggetto che ha perduto ogni contatto col mondo. Non si tratta dunque tanto di superamento quanto di evasione, di oblio momentaneo del male. Nell'espressione così come nella contemplazione estetica dell'idea della bellezza il soggetto perde la sua individualità, si scioglie da ogni legame col mondo. Sebbene le idee siano il sostegno della vita, questa non ha più alcun effetto su di lui, perché ciò che egli contempla non è questa o quella manifestazione di vita, né egli è più un particolare individuo di fronte ad essa. L’artista non coglie l’idea in forma confusa, ma in limpida intuizione: questa, come ogni altra forma di intuizione, appartiene all’intelletto, ma si ha quando esso è superiore ai bisogni della volontà. Alla ragione come facoltà discorsiva appartiene solo il dominio dei concetti astratti; la ragione, basandosi sui dati dell’intuizione empirica dà la comune esperienza e in grado più eminente la scienza, mentre l’intuizione artistica penetra nel mondo della realtà essenziale.

lunedì 25 ottobre 2010

Croce e l'amore per l'arte

Non mi piacciono le autocelebrazioni. Però una laurea è pur sempre una laurea, per diamine! E allora eccomi qui, a darvi un "antipasto" della mia tesi di laurea, incentrata sull'estetica di Benedetto Croce che non esito neanche un momento ad identificare come il mio ideale di filosofo (sebbene sia consapevole della velleità che c'è dietro alle idealizzazioni ed emulazioni: si finisce sempre per rincorrere qualcuno che, inevitabilmente, non si potrà mai raggiungere).

L'estratto che tra poco vi proporrò è tratto da un'opera del 1933, "La poesia", in cui Croce riesamina e puntualizza i concetti fondamentali della sua estetica (che troverete riepilogati sinteticamente nella mia tesi, ovviamente se ne avrete voglia). Croce prende in considerazione il famigerato luogo comune dell' "arte per l'arte", ovvero dell'amore disinteressato che ogni artista dovrebbe avere rispetto al proprio ufficio sacro: l'espressione. Tuttavia, ed è un'altra lezione che ho imparato da Croce, nulla di quello che gli uomini fanno è veramente disinteressato: laddove non c'è un minimo di guadagno personale, statene certi, chiunque gira al largo! Anche la solidarietà implica un'attrattiva individuale, quale può essere l'intima gratificazione per chi la fa...Infine, permettetemi di definire sublime il parallelo crociano fra l'amore e l'espressione artistica. E' forse uno degli aspetti che mi ha colpito di più della filosofia di Croce: le sue riflessioni, alla portata di tutti in quanto a linearità e semplicità, sono incastonate di piccole gemme poetiche arricchiscono la sua speculazione senza però appesantirla, anzi chiarendola ulteriormente. Ma è tempo di far parlare il "nostro" Croce:

- L'arte per l'arte -

"L'espressione poetica può trapassare ad oggetto d'amore e di culto d'amore ed essere trattata non più come espressione, ma come cosa che si ricerchi per sè, facendo, come si dice, l'arte per l'arte.
Come ogni amore, anche questo ha per fondamento la realtà di un bisogno, e, nel suo caso, dell'espressione poetica; ma come ogni amore si svolge oltre, e anche senza e contro, il soddisfacimento del bisogno originario. Così come si amano, e si amano sul serio, donne che non si ha nessuna volontà di possedere, sentendosi che nel possesso andrebbe perduto il meglio o il tutto dell'amore e quell'incantesimo si rompererebbe.

[...] Ma, soffermandoci all'amore per le espressioni poetiche, esso, al pari di ogni altro amore, ricerca la presenza e il contatto dell'oggetto amato, e perciò si fa culto ed esercizio di quelle espressioni, non solo senza aver nulla di proprio da trasfigurare in bellezza. Qualcosa di analogo si riscontra nella cerchia del pensiero, dove talvolta ci si trastulla col pensiero per il pensiero, ossia con la logica per la logica, come nel caso delle acutezze o degli indovinelli, e in parte anche nell'altro delle sottigliezze che piace di moltiplicare, delle precise e lunghe argomentazioni superflue che piace svolgere in tutti i loro passaggi, godendo della propria bravura, laddove basterebbe accennare e tirar via.

Amare e cercare le espressioni poetiche come cose o (che qui è lo stesso) come persone, vuol dire cercare le immagini fuori del loro nesso, distaccate ed astratte, e ammirarle e carezzarle e fermarle nei suoni articolati, curando la perfezione di ciascuna d'esse. Che è quel che si vede nelle pagine dei virtuosi dell'arte per l'arte, così perfette in ogni particolare da muovere l'impazienza e il fastidio in uno spirito di poeta, il quale è pronto a gettarle via tutte per esprimersi "senza perfezione" (ossia con tutt'altra perfezione da quella). Perchè in tanto risalto di ciascuna immagine, manca in quella maniera d'arte il fondo che tutte le raccolga e le mitighi, il fondo che solo poteva generarle a vita poetica, e solo dar loro misura e proporzioni. E non solamente manca il fondo poetico, ma anche l'altro su cui la letteratura si forma e che è il vario contenuto extrapoetico [ovvero, le passioni, gli impulsi, gli interessi dell'artista in quanto uomo]. Stanno invece, quelle immagini singole, come idoli, che l'artista [o lo pseudo-artista, quello cultore della sola forma, destinato per questo a rinchiudersi nella più totale autorefenzialità] plasma e adora.

Per questa via s'intende anche in qual modo si venga determinando una sorta di teoria dell' "arte per l'arte" a uso di quei critici che pretendono di trovare e spiegare la bellezza di un verso, che è bellezza spirituale [ovvero nella vita, nella contingenza, nella concreta ed ineludibile necessità di esprimersi che l'artista sente quando è gravido di ispirazione], nei suoni per sè, negli accenti, nei ritmi, nella "musica", come la sogliono chiamare, dimostrando, in questo lor dire, scarsa stima, non tanto della poesia, quanto della musica stessa. [...] In questi casi difetta l'amore e, con l'amore, la capacità di dare alle proprie opere quella verità e quella bellezza che pur sono in grado di conseguire. L'arte per l'arte non è che un innamoramento tra gli altri innamoramenti, una servitù d'amore tra le altre servitù d'amore".

venerdì 15 ottobre 2010

Il processo di Socrate

Pur rendendomi conto che potrei tedìarvi con la mia piccola crociata per la giustizia, intesa non come un'astratta entità di cui riempirsi la bocca ma un vero e proprio modus vivendi, proseguo imperterrito lungo questa direzione. Ed una naturale tappa d'approdo per questa mia ricerca non poteva che essere la figura di Socrate: un uomo che ha accettato un'ingiusta morte per la sua fiducia nella giustizia terrena ed ultraterrena. Il testo a cui faremo riferimento sarà ovviamente l' "Apologia di Socrate" scritto da Platone, il più illustre e fedele seguace di Socrate.

Ma per comprendere fino in fondo la radicalità del comportamento di Socrate è necessario prima contestualizzare le vicende: siamo nel gennaio del 399 a.C. ad Atene. Socrate viene portato in tribunale da Melèto, Anito e Licòne, rispettivamente poeta, politico ed oratore che erano stati messi in ridicolo da Socrate per la loro vanità e per la dilagante corruzione dei loro costumi. Le ragioni degli accusanti erano del tutto generiche e pretestuose: Socrate veniva accusato di aver "indagato con animo empio le cose del cielo e della terra; di corrompere i giovani e di non credere negli dei ai quali credeva la città, ma in nuove divinità demoniache".

Ma le vere ragioni per cui Socrate venne accusato, e condannato, erano da rintracciare nella nascente democrazia ateniese (figlia di una classe dirigente già allora in preda alla corruzione e al malaffare), che aveva bisogno di sbarazzarsi di un individuo che per le sue capacità dialettiche ed oratorie e per il suo modello di vita improntato sulla giustizia, sulla povertà e sulla rettitudine rappresentava una minaccia, dato che poteva sommuovere l'opinione popolare ateniese. Ma, bando alle mie ciance, lasciamo che sia Socrate in persona a parlarci e ad insegnarci cos'è la giustizia, perchè egli ha accettato la sua condanna a morte e perchè un uomo giusto non deve temerla (come sempre, integrazioni e commenti sono posti tra parentesi quadre).

- La difesa di Socrate -

"Se qualcuno mi dicesse: - Ma non ti vergogni, o Socrate, d'esserti dato un'occupazione per la quale ora ti sei messo a rischio di morire? - io così risponderei a buon diritto: - Hai torto, amico, se stimi che un uomo di qualche valore debba tenere in conto la vita e la morte. Egli nelle sue azioni deve unicamente considerare se ciò che fa sia giusto o ingiusto e se si comporta da uomo onesto o da malvagio. Secondo il tuo ragionamento, sarebbero da stimare poco quei semidei e tutti gli altri che sono morti davanti a Troia. [...] Ed ora che Dio mi ha assegnato un posto di combattimento, così almeno io credo di dovere interpretare il suo volere, posto di combattimento che è quello di vivere filosofando [il "vivere filosofando" è il vivere secondo una disciplina che fa della filosofia non la ricerca di un sapere astratto, ma una pratica morale che è armonia di pensiero e di azione], esaminando me e gli altri, sarebbe veramente cosa grave se io, per paura della morte o d'altro, disertassi il campo [Socrate ha un senso profondamente religioso della vita, che gli faceva riguardare la personalità di ciascuno come inserita in fini etici superiori dell'umanità e la vita tutta come dovere, al quale non è lecito sottrarsi. Per questo non mirava a sovvertire le leggi o lo Stato, bensì a sollecitare i suoi concittadini a non prendersi cura delle ricchezze più che dell'anima e della virtù].

[...] Giacché, o Ateniesi, il temere la morte altro non è che essere sapienti senza esserlo, cioè a dire credere di sapere ciò che si ignora; poichè nessuno sa se la morte, che l'uomo teme come se conoscesse già che il maggiore di tutti i mali, non sia invece per essere il più gran bene. E non è la più vituperevole ignoranza quella che consiste nel credere di sapere ciò che non si sa? [...] Ma una cosa so di certo: che il fare ingiustizia e disobbedire a un nostro superiore, sia esso Dio o uomo, è cosa cattiva e vergognosa. Giammai dunque io temerò nè fuggirò quello che non so se sia un bene, ma piuttosto il male che so essere tale".

- Socrate è condannato a morte -

"Forse voi pensate, o Ateniesi, che sono stato condannato per mancanza di quei tali abili discorsi con i quali avrei potuto persuadervi se io avessi creduto che era necessario dire e far di tutto pur di scampare alla condanna. Niente affatto! Ciò che mi è venuto a mancare non sono stati gli argomenti, bensì l'audacia e l'impudenza e la volontà di non dire cose che vi sarebbero state gradevolissime a udire, piangendo e lamentandomi e facendo altre cose indegne di me, ma alle quali altri vi avevano abituati. Non mi pento di essermi difeso così; anzi preferisco assai più volentieri essermi così difeso, e morire, che difendermi in quell'altro modo, e vivere.

[...] Ma considerate bene, o Ateniesi, che il difficile non è evitare la morte quanto piuttosto evitare la malvagità, che ci viene incontro più veloce della morte [è più facile evitare la morte che la malvagità, poichè debole e vile è l'animo dell'uomo dinanzi agli istinti e le passioni terrene, fonte di conflitti e guerre]. Ed ora io, come tardo e vecchio, sono stato raggiunto da quella che è più tarda; i miei accusatori, invece, come più gagliardi e veloci, da quella che è più veloce, la malvagità. Ed ora io me ne vado da qui condannato da voi a morire; costoro invece condannati dalla verità ad essere malvagi e ingiusti [si dice che gli accusatori di Socrate siano morti di morte violenta. Era radicata nei Greci la convinzione che il male esige in questa vita una riparazione che può essere estesa anche alle discendenze di coloro che commisero la malvagità]. Io accetto la mia pena, questi la loro. Doveva essere così, e penso che così sia bene.

venerdì 8 ottobre 2010

Tema: la mia Città

Per liberareggio.org

Ieri sera, tornando a casa dopo essere stato a Piazza Duomo, mi è venuto in testa il ritornello della sopracitata canzone degli Afterhours che fa: "Chi salverà/ la mia città?". Ebbene, l'acceso dibattito che ieri s'è venuto a creare ad "Annozero" non poteva fotografare meglio l'aria che si respira a Reggio. Le persone oneste sono con l'acqua alla gola, sono stanche non soltanto di subire passivamente il potere della criminalità organizzata che ci tiene (questa sì) "sotto scopa" con l'atavica fame di lavoro che c'è in Calabria, ma sono stanche soprattutto di non essere ascoltate, di vedere che il resto dell'Italia non se ne fotte minimamente di loro. Politici in primis, gli stessi personaggi che periodicamente scendono dalle loro ricche corti per fare promesse su promesse e per chiedere i nostri voti (e qui mi riferisco indiscriminatamente a tutta la classe politica).

Ieri sera Daniela Santanchè, esponente del governo nazionale in qualità di sottosegretario di Stato al Dipartimento per l'attuazione del programma di governo, è caduta dalle nuvole: non sapeva delle recenti vicissitudini di Scopelliti; non sapeva che Angela Napoli aveva da tempo preso le distanze dal PDL; continuava a farfugliare che "questo è il governo che ha fatto di più ecc ecc" ed è riuscita a mandare in bestia anche de Magistris che, come sappiamo, ne ha subìte di tutti i colori però sempre mantenendo il suo contegno; non ha detto una parola di solidarietà per quei giornalisti vessati e minacciati di morte; non ha saputo, insomma, dire qualcosa per cercare di aiutare una città che implora aiuto.

Ma noi non possiamo più aspettare. Chi campa di speranza disperato muore, recita un proverbio comune. Se non riusciamo a ribellarci noi per primi ai perversi giochetti a cui, indistintamente politici e 'ndranghetisti, ci sottopongono c'è poco da fare. Ho accennato a de Magistris. A prescindere dalle sue scelte politiche che, ci mancherebbe altro, ciascuno di noi è libero di non condividere, anche la sua è una storia che avrebbe dovuto insegnarci molto su come funzionano le cose nel nostro Paese. Per questo vi lascio con alcune sue considerazioni tratte da "Assalto al PM. Storia di un cattivo magistrato".

"Nel corso degli anni mi sono reso conto di come la Calabria assomigli al Sudamerica di una volta: una regione governata da una vera e propria "classe". E' una classe di potere. Intrisa anche di mafiosità. E' composta da una parte importante e assolutamente trasversale della politica, che ha a cuore solo interessi di settore. Gruppi di potere che operano per puro interesse e con logiche biecamente clientari. Comprende una parte consistente dei principali imprenditori, diventati potenti, ricchi, noti e forti grazie al loro rapporto con la politica. Una situazione che potrebbe apparire simile a quella di altre parti del paese. Ma la vera anomalia, in Calabria, è che in questa classe compaiono, in modo non residuale, pezzi significativi delle istituzioni ed anche parti degli organi preposti ai controlli di legalità: impiegati e funzionari pubblici, forze dell'ordine, servizi di sicurezza. Quando il controllore diventa "organico" in un sistema cui partecipa anche il controllato, le garanzie di legalità e di trasparenza saltano, spazzate via da un conflitto di interessi permanente.

La classe dominante che ho descritto governa la Calabria da decenni tenendo in una situazione di voluta soggezione e sottomissione il resto della popolazione calabrese, che non ha la capacità di riscattarsi perchè non ha gli strumenti economici nè quelli politici e nemmeno istituzionali, dal momento che attraverso il controllo dell'economia e del lavoro la borghesia mafiosa controlla anche il voto. Ma soprattutto, almeno fino a un certo momento storico, la Calabria non ha avuto gli strumenti cognitivi per opporsi. Perchè?

Perchè la conoscenza di certi contesti avviene attraverso due canali: la magistratura e l'informazione. Le indagini giudiziarie consentono al cittadino di sapere se i propri governanti stanno rubando, stanno truffando, sono corrotti o infedeli e così via. Se la magistratura non funziona la gente non sa cosa di illecito accade nella vita pubblica. Poi c'è l'informazione. In questo settore la Calabria, fino a un certo punto, ha molto sofferto un controllo serrato, una "cappa mediatica" che non consentiva ai cittadini, dentro e fuori la regione, di sapere cosa accadeva. Con il tempo questa situazione è migliorata perchè sono nati nuovi organi di informazione e alcuni giornalisti seri e coraggiosi, spesso molto giovani, sono riusciti a raccontare i fatti. La consapevolezza e la partecipazione sociale sono mutate proprio quando questi cronisti, facendo bene il proprio mestiere, hanno cominciato a rendere una descrizione veritiera e non condizionata dalle azioni giudiziarie che venivano intraprese. La conoscenza dei fatti stimola il pensiero libero e critico e questo fa paura ai ceti dominanti affaristici e corrotti".

Insomma, chi salverà la mia città?

sabato 2 ottobre 2010

Vico, la Repubblica e la giustizia

Giustizia, solidarietà, pietà, verità: chi cerca di perseguire nel corso della sua esistenza questi valori non solo viene additato come giustizialista, perbenista, bigotto, moralista e quant'altro, ma viene letteralmente fatto fuori, messo ai margini da un sistema ben collaudato per non funzionare, o meglio, per funzionare in modo che solo a pochi (furbetti, intrallazzatori, criminali e quant'altro) sia permesso arricchirsi e godere di un'agiata e placida esistenza. Pur facendo pienamente, e orgogliosamente, parte della schiera dei cosiddetti "sfigati", ovvero di quelli che la loro vita devono e dovranno sudarsela ben bene, non mi piace arrendermi facilmente e crogiolarmi nel pessimismo e nella certezza che nulla cambierà in meglio. Per questo credo e perseguo quegli ideali; per questo non invidio i miei coetanei che hanno ed avranno tutto pronto quando desidereranno averlo; per questo non ritengo "fico" appartenere ad una cosca malavitosa, operando secondo quei canoni da "uomini d'onore" che, per me, non sono altro che delle leggi della giungla che degli animali cercano di dare a sè stessi per evitare di azzannarsi a vicenda nella loro irrefrenabile corsa alla ricchezza e al potere. Per questo, infine, vi propongo questi estratti dalla "Scienza nuova", opera maxima di Giambattista Vico, uno dei più importanti filosofi italiani per originalità e personalità che troppo spesso viene sottovalutato, se non addirittura non considerato affatto. Bando alle ciance, lasciamo parlare Vico. (Le mie domande e integrazioni sono poste tra parentesi quadre).

- Progresso sociale e giustizia -

Gli uomini per la loro corrotta natura sono tiranneggiati dall'amor proprio, per lo quale non sieguono principalmente che la propria utilità; onde eglino, volendo tutto l'utile per sè e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l'uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gli imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l'uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l'utilità propria. [A vostro giudizio, a quale tappa ci siamo fermati e/o siamo regrediti?]

- La nascita della repubblica -

Perchè gli uomini erano di menti particolarissime che non potevano intendere ben comune, per lo che eran avvezzi a non impicciarsi nemmeno delle cose particolari d'altrui, la provvedenza gli menò ad unirsi alle loro patrie, per conservarsi tanti grandi privati interessi quanto erano le loro monarchie famigliari; e sì, fuori d'ogni loro proposito, convennero in un bene universale civile, che si chiamava "repubblica". Questa sovrana civil persona si formò di mente e di corpo. La mente fu un ordine di sappienti, quali in quella somma rozzezza e semplicità esser per natura potevano; dall'altra parte il corpo, formato col capo ed altre minori membra. Onde alle repubbliche restonne quest'altra eterna proprietà: ch'altri vi debban esercitare la mente negl'impieghi della sapienza civile [in numero circoscritto aggiungerei, dato che una società di soli speculatori-teorici come sta diventando la nostra è destinata al fallimento], altri il corpo ne' mestieri e nell'arti che deon servire così alla pace come alla guerra; con questa eterna proprietà: che la mente sempre vi comandi e che 'l corpo v'abbia perpetuamente a servire.

- Corruzione delle repubbliche -

Corrompendosi gli Stati popolari, e quindi ancor le filosofie (le quali cadendo nello scetticismo, si diedero gli stolti dotti a calunniare la verità) [rappresentata, per Vico dalla divina Provvidenza] e nascendo quindi una falsa eloquenza, apparecchiata egualmente a sostener nelle cause entrambe le parti opposte - provenne che, mal usando l'eloquenza e non più contentandosi i cittadini delle ricchezze per farne ordine, ne vollero fare potenza; e commovendo civili guerre nelle loro repubbliche, le mandarono ad un totale disordine, e sì, da una perfetta libertà, le fecero cadere sotto una perfetta tirannide (la qual è peggiore di tutte) ch'è l'anarchia ovvero la sfrenata libertà de' popoli liberi.

- Rimedio -

Ma se i popoli marciscano in quell'ultimo civil malore allora la provvedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che - poichè tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare ch'alle particolari proprie utilità di ciascuno ed avevano dato nell'ultimo della dilicatezza, o per me' dire, dell'orgoglio, a guisa di fiere - per tutto ciò con ostinatissime fazioni e disperate guerre civili, vadano a fare selve delle città, e delle selve covili d'uomini, e 'n cotal guisa dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irrugginire le malnate sottigliezze degl'ingegni maliziosi, che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione. Perciò popoli di sì fatta riflessiva malizia, così storditi e stupiditi, non sentano più agi, dilicatezze, piaceri e fasto, ma solamente le necessarie utilità della vita; e, nel poco numero degli uomini alfin rimasti e nella copia delle cose necessarie alla vita, divengano naturalmente [razionalmente] comportevoli; e per la ritornata primiera semplicità del primo mondo de' popoli, sieno religiosi, veraci e fidi; e così ritorni tra essi la pietà, la fede, la verità, che sono i naturali fondamenti della giustizia e sono grazie e bellezze dell'ordine eterno di Dio.

- Degnità -

La filosofia per giovar al genere umano, dee sollevar e reggere l'uomo caduto e debole, non convellergli la natura, nè abbandonarlo nella sua corruzione.

La filosofia considera l'uomo quale dev'essere, e se non può fruttare ch'a pochi primi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo.

Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de' fanciulli di prendere cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive.

La natura de' popoli prima è cruda, di poi vera, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta.
[In quale di queste fasi collochereste l'attuale popolazione italiana?]

L'equità naturale della ragion umana tutta spiegata è una pratica della sapienza nelle faccende dell'utilità, poichè "sapienza", nell'ampiezza sua, altro non è che scienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura.

lunedì 20 settembre 2010

Kant e l'esistenza di Dio

Domanda da un milione di dollari: Dio esiste?
Ce lo chiediamo in tanti, soprattutto chi si rifiuta di farsi imporre cosa pensare-fare-credere da una qualsiasi istituzione ecclesiastica o dogma prestabilito. E se lo chiedeva anche Immanuel Kant che, suo malgrado, assieme ad Hegel, ha contribuito a terrorizzare generazioni intere di studenti, facendoli scappare a gambe levate dalla filosofia. Ma qui la colpa non è nè di Kant, nè di Hegel, nè degli studenti (chi fa con piacere una cosa a cui è obbligato?). Ma torniamo in tema: Kant riflette sull' esistenza di Dio nella sua celeberrima Critica della ragion pura, nella quale s'era appunto proposto di criticare e ricostruire la metafisica (ovvero "la naturale disposizione della umana ragione a procedere oltre i limiti dell'esperienza e del sensibile") su delle basi "scientifiche" che consentissero quantomeno di ridurre il caos in cui versava quest'infruttuosa disciplina del sapere umano.


Per fare ciò, Kant riteneva essenziale smascherare alcune pseudo-questioni che hanno occupato la metafisica su questioni impossibili da risolvere, a causa dei limiti evidenti dell'umana specie. E tra questi vi figura anche la teologia e le varie prove per dimostrare, razionalmente, l'esistenza di Dio. L'idea trascendentale di Dio è importantissima non solo all'interno della riflessione metafisica, ma proprio per tutta la nostra esistenza, dato che si tratta dell' "Essere primo perfettissimo che, sebbene non possa essere pensato nell'esperienza, pure è pensato in servizio dell'esperienza per poter concepire la connessione, l'ordine e l'unità di essa". Il problema sorge quando si cercano delle prove concrete dell'esistenza di Dio: allora, non avendo riscontro con la realtà fattuale, ci abbandoniamo all'immaginazione, staccandoci dalla stessa esperienza, per poi cercare di tornarvi in un non precisato modo pur di soddisfare il bisogno insopprimibile della nostra ragione di "ordine, sistematicità, compiutezza e unità sintetica". Tre sono state le dimostrazioni "oggettive" che avrebbero dovuto dimostrare l'esistenza di Dio:


La prova ontologica: essendo Dio l'Essere supremo e perfettissimo non può essere manchevole di qualcosa, specialmente dell'esistenza. Kant obietta però che non è possibile saltare così liberamente dal piano della possibilità logica a quella ontologica, dato che l'esistenza di qualcosa si può constatare solo per via empirica.

La prova cosmologica: si parte dal fatto che, dato che tutta la realtà procede secondo legami di causa-effetto, deve esistere un primo "anello" incausato, necessario. Ma, per Kant, anche questa prova si basa su un salto logico simile a quello della prova ontologica. Inoltre, anche la presunta oggettività del legame della causalità interno alla realtà è una congettura da dimostrare.

La prova fisico-teologica: dato che nella natura risplende l'ordine, la finalità e la bellezza si passa poi ad affermare che deve necessariamente esistere una "mente ordinatrice", il Dio creatore, perfetto ed infinito. Kant ritiene inaccettabile anche questa dimostrazione, dato che dà per scontato l'ordine del mondo, per poi riferirlo ad una causa trascendente (ammesso e non concesso che potrebbe trattarsi di un ordine immanente alla natura).


Quindi Kant era ateo? Guai a dirlo! Con tutto questo ambaradàn egli voleva dimostrare che la ragione umana non può dimostrare con assoluta certezza nè l'esistenza di Dio, nè la sua non-esistenza. Ma quindi, che senso o, se preferite, che "utilità" ha la metafisica secondo Kant? Lasciamo che sia lui a risponderci:
"Chi può starsene contento alla semplice conoscenza che ci dà l'esperienza in tutte le quistioni cosmologiche della durata e grandezza dell'universo, della libertà o della necessità naturale? [...] La metafisica, nei cimenti dialettici della ragione pura, ci porta ai limiti; e le idee trascendentali, appunto perchè da una parte non se ne può fare a meno, e dall'altra non si lascian mai realizzare, servono non solo a mostrarci realmente i limiti dell'uso puro della ragione, ma anche il modo di determinarli; e questo è lo scopo e l'utilità di questa disposizione naturale della nostra ragione, la quale ha generata, come sua figlia prediletta, la metafisica. La metafisica, nei suoi tratti fondamentali, è posta in noi dalla natura stessa forse più di qualunque altra scienza; e non può affatto essere considerata come il prodotto di una scelta fatta ad arbitrio, o di una fortuita estensione nel procedere delle esperienze".

lunedì 13 settembre 2010

La pittura di Friedrich - Arte e Filosofia

Il legame tra arte e filosofia mi affascina da sempre. Soprattutto quella scintilla che, quando si è di fronte ad un capolavoro, ci fa pensare: "Cosa significa? Cosa vuole dirci l'autore?". E' qualcosa di istintivo, di primordiale che induce sia noi a cercare il senso di un'opera d'arte, sia l'artista a cercare sfogo nell'espressione pittorico-formale (forma di comunicazione ancor più immediata e universale rispetto alla parola). Ma il bello dell'arte consiste proprio nell'essenziale decodificazione che lo spettatore deve fare dell'opera che ha dinnanzi: è in quel momento che scatta la magia dell'arte, la stessa che rende unica ed immortale ogni autentica opera d'arte.

Fra i tanti pensatori che si sono concentrati sul rapporto tra arte e filosofia Massimo Donà mi ha letteralmente entusiasmato. La sua opera "Arte e filosofia" non è un canonico trattato d'estetica: in ogni capitolo vengono esposti, con grandissima semplicità e discorsività, i serrati legami tra le principali evoluzioni del pensiero filosofico e le rivoluzioni espressive avvenute nella storia dell'arte. Rivoluzioni concettuali ed espressive spesso si anticipano o si influenzano le une con le altre, secondo intrecci davvero estasianti e inaspettati. L'opera di Donà ci mostra chiaramente che quando filosofia ed arte non vengono studiate come due compartimenti stagni si può dare vita a ottimi saggi filosofico-storici, ricchi di valore e significato; distanti anni luce da quell'approccio accademico e asettico che mortifica questi straordinari campi della conoscenza umana. Il testo che qui vi propongo è un estratto dell'opera sopracitata, accompagnato dalle immagini degli splendidi dipinti di Caspar David Friedrich (cliccatevi sopra per vederli per intero), artista da inscrivere a pieno titolo nel movimento culturale del Romanticismo europeo ottocentesco.

[...] Nei quadri di Friedrich appare spesso una piccola figura umana o un gruppo di figure; ma soprattutto queste donne o questi uomini sono visti quasi sempre di schiena. Simboli perfetti di quella vocazione a perdersi nella potenza incondizionata di una natura in cui, a manifestarsi, non può mai essere un semplice insieme di fenomeni. La Natura è per lui, piuttosto, la perfetta espressione di un incondizionato che può vederci protagonisti solo quali umili spettatori passivi della sua tendenziale o riflessa infinitudine; impotenti a determinare il corso del suo meccanico procedere. Si pensi al dipinto intitolato "Un uomo e una donna davanti alla luna"; dove due viandanti sono rivolti verso una luce che viene dal fondo e che li sovrasta, mettendo per ciò stesso in evidenza la loro pochezza, la loro fragile ed empirica contingenza o inessenzialità. Ma cosa contemplano tali figure? Nulla di preciso o di determinato; contemplano l'inabbracciabile e inconcepibile infinità che solo l'incondizionato trascendentale può in qualche modo illuminare.



[...] I contemplanti dipinti da Friedrich nascondono la propria frontalità; perchè il loro sguardo coincide con il nostro. Mai ci sarebbe consentito vederli di fronte; ossia rivolti a noi. Tutto in quelle tele, così come tutto in ogni determinazione della nostra esperienza, si volge all'impossibile; ovvero, al Nulla che si costituisce solo nella più perfetta distinzione rispetto all'Essere. Ovvero, all'Impossibile. Perciò, nell'abisso in cui si perde lo sguardo degli uomini e delle donne ospitati dalle sue tele, nulla si dà a vedere se non l'indeterminatezza di un'opposizione assoluta di cui il pittore può solo tracciare le deboli vestigia. Come quelle cui dà corpo il "Viandante sul mare di nebbia", che trasfigura il nulla (che vorrebbe poter affrontare frontalmente) nella virulenta ed inquieta dinamicità delle nubi, contrapponendola alla fissità del viandante o della roccia - dalla cui sommità il medesimo sembra intento a sfidare gli elementi naturali, invitandoli a mostrare il loro vero ma impossibile volto.



Tale traduzione viene operata da Friedrich anche in molte altre opere; si pensi alla "Donna al tramonto del sole" oppure al "Monaco sulla spiaggia". Qui la sproporzione tra l'infima consistenza del monaco e l'inoggettivabile potenza di cui la natura tutta si fa portatrice risalta nella sua massima evidenza. L'essere umano non ha più a che fare con oggetti determinati; ma con il senso ultimo della datità oggettuale; con la sua indominabile estraneità - che tanto intimamente ci riguarda e avvolge. Ed è destinato a non poterla mai risolvere nella propria inconfutabile finitudine. Perciò la contempla dilaniato da una irrisolvibile ambiguità; sente che lo riguarda, sente che quella forma può essere spiegata, ma nello stesso tempo sente che 'altro' rimarrà sempre di là dalla propria imperfetta infinitudine. Perchè nulla dovrebbe esserci di fronte al proprio sguardo incantato.





L'uomo sente che quella perfetta ma impossibile visione lo costituisce e lo reclama da sempre. Sente che quella è la sua impossibile origine. Ma sente appunto la vanità della propria pretesa. Sente d'esser destinato al naufragio - come appare in "Il mare di ghiaccio". Non è certo un caso se per errore quel quadro finì per essere intitolato "Il naufragio della speranza". La speranza del soggetto fichtiano è destinata a farsi inghiottire come il vascello friedrichiano dall'iceberg e dal mare ghiacciato da cui quello doveva in qualche modo esser emerso. Sul fondo della tela appare ciò che l'iceberg doveva esser stato prima dell'evento devastante; ma appare in una lontananza che lo rende sostanzialmente inarrivabile; e comunque non ancora raggiunto. Quello che è stato invece raggiunto, è crollato, mandando in mille pezzi la "navicula" con cui l'essere umano avrebbe preteso di svelare l'arcano e de-terminare l'infinito.

lunedì 6 settembre 2010

Eugenio Bennato - Italia minore

"Questione meridionale", "terroni": da sempre veniamo chiamati in causa con queste due paroline. Periodicamente alcuni soloni del mondo politico o della classe intellettuale (ovviamente settentrionale) si affannano a proporre le loro geniali trovate per risolvere questo "problema", come se gliene importasse davvero. Sono anni che parole come federalismo fiscale o cassa-banca (casciabancu sarebbe più appropriato) del Mezzogiorno sono sulla bocca di politici di qualsiasi colore e fazione. Il tutto viene poi infarcito da una dilagante ignoranza: ignoranza del fatto che la "questione meridionale" è nata proprio con l'unità d'Italia, circa 150 anni fa.

Ora, senza alimentare sterili polemiche filo-settentrionalisti o filo-meridonalisti che lasciano il tempo che trovano (perchè già siamo con le pezze al sedere con l'Italia attuale, figuriamoci se ci separiamo), quello che mi preme sottolineare da tutto ciò è che il Sud, l' "Italia minore" come qui viene definita da Eugenio Bennato, non è sempre e soltanto l'ultima ruota del carro; non è sempre e soltanto esportatrice di mafia-'ndrangheta e camorra.

Eravamo e siamo la culla della cultura italiana. Eravamo e siamo la sorgente della poesia e della musica più raffinate che siano mai state prodotte nel nostro Paese. Per questo vi propongo questo brano di Eugenio Bennato che, pur essendo una semplice canzone, riesce a sintetizzare magistralmente tutta la sofferenza e il dolore che da sempre noi, figli diversi del Sud, abbiamo imparato a sopportare: alcuni per la lontananza dalla loro terra; altri per la paura di essere discriminati o additati come mafiosi o terroni; altri ancora perchè in questa terra vogliono restarci per aiutarla a rialzarsi ma che, spesso sono costretti ad arrendersi. Lasciamoci cullare per un attimo dalla nostra musica popolare: autentica e preziosa come può esserlo solo ciò che abbiamo di più caro.

(Mi scuso sin da adesso per eventuali errori nel testo e per non aver messo le parti cantate in dialetto: ho dovuto fare la trascrizione di mio pugno ed ho preferito evitare di mettere cose a muzzo).



Grande poeta di povera gente
figlio diverso del sud dell'Italia
la tua canzone è un mendicante
che è passato dalla notte sull'aia.

La tua canzone, la povertà
è la canzone più bella che c'è.

Tu che ci parli di una fontana,
di una cometa e di un aquilone,
il tuo dialetto è una musica strana
perchè appartiene a un' Italia minore.

Ma la canzone della povertà
è la ricchezza che porti con te.

Grande poeta di povera gente,
figlio diverso del sud dell'Italia,
la tua canzone è un emigrante
che va a cercare fortuna in Germania.

La tua canzone, la povertà
è la canzone più bella che c'è.

Secoli e secoli di lontananza
da ogni potere, da ogni padrone.
Musica anonima senza importanza
per chi appartiene a un' Italia minore.

Ma la canzone della povertà
è la ricchezza che porti con te.

E' l'Italia che tu canti,
è l'Italia che tu suoni,
la canzone dei briganti,
la canzone dei terroni.

Le finestre degli amanti
e la luna eccezionale
di chi dorme sotto i ponti
della musica popolare.

In questa Italia distratta ed assente
rincoglionita di televisione,
c'è un'altra Italia controcorrente
e ognuno sceglie la propria canzone.

La tua canzone, la povertà
è la canzone più bella che c'è.

La tua poesia è una nave pirata
e io che mi sento pirata nel cuore,
io voglio perdermi nella tua strada,
fiero di essere Italia minore.

Ma la canzone della povertà
è la ricchezza che porti con te.

E' l'Italia che tu canti
è l'Italia che tu suoni,
la ricchezza che nascondi
nelle povere canzoni.

La tua arte che i mercanti
non potranno mai comprare
i rubini e i diamanti della musica popolare.

E' l'Italia che tu canti,
è l'Italia che tu suoni,
la canzone dei briganti,
la canzone dei terroni.

Le finestre degli amanti
e la luna eccezionale
di chi dorme sotto i ponti
della musica popolare.

sabato 21 agosto 2010

Comune di Reggio: che sta succedendo?

Per Liberareggio.org

Lo spettacolo che i nostri rappresentanti comunali stanno offrendo a noi e a tutta l’Italia non è qualcosa di cui andare fieri. Non credo nemmeno che si possa definire come una “normale dialettica politica” (usando le parole di Raffa), anche se l’esempio del governo nazionale forse è anche peggiore in quanto a cialtroneria e confusione. La ragione di questo mio intervento non è quella di ricostruire nel dettaglio lo sviluppo delle vicende: non ne uscirei vivo.

Tuttavia qualche considerazione generale deve essere fatta. Quantomeno per sensibilizzare il dibattito sulle vicende comunali ed evitare che continui ad avere le attuali caratteristiche della rissa da bar o del pettegolezzo. L’unico risultato del fiume di polemiche, documenti firmati in calce, comunicati stampa, interviste e smentite a cui stiamo assistendo da settimane è stato l’oscuramento dei gravi problemi della comunità (su tutti l’entità del debito delle casse comunali). Attività in cui i nostri rappresentanti eccellono, forti del loro “politichese” e della compiacenza, o del comprensibile timore, dei giornalisti locali.

L’impressione che ho avuto fin dall’inizio delle polemiche è stata quella del “quando il gatto non c’è, i topi ballano”: ovvero che si trattasse di una squallida lotta tra gli assessori per mantenere il proprio status o, se possibile, ritagliarsi ancor più spazio e privilegio prima che l’impero scopellitiano (alias “modello Reggio”) crollasse. Evidentemente una possibile reazione di Raffa non doveva spaventare gli assessori che, anzi, sentendosi più forti di lui, di fronte alle sue prime decisioni sfavorevoli, hanno reagito col famoso documento firmato dai 30 “compagneros della rivolucìon”. Da allora le cose sono precipitate, Raffa annuncia le dimissioni, poi le fa rientrare a patto di poter azzerare la giunta comunale e propone un nuovo team di assessori tra cui figura Irene Pivetti, della quale, con tutto il rispetto, non ho capito cosa centri con Reggio e di cosa dovrebbe occuparsi.

A più riprese ho sentito definire ciò che stava accadendo come “commedia”, “farsa” o “tragedia”: ma tutti, compreso il sottoscritto, eravamo convinti che la querelle sarebbe in qualche modo rientrata pur di scongiurare l’ombra del commissariamento. Ma stamattina, a rendere ancor più torbida e complessa la vicenda è arrivata allo stesso sindaco Raffa un’intimidazione, una busta con delle munizioni. Ovvero, un esplicito invito a rivedere le sue convinzioni e posizioni. Cosa ha generato la reazione della malavita reggina? Quali interessi sono stati toccati? Col gesto di stamattina si voleva forse convincere “con le cattive” Raffa a ritornare sui suoi passi, pur di scongiurare il commissariamento?

Ma siamo qui sconfinati nel campo delle ipotesi e delle congetture. Per questo è meglio aspettare che la magistratura riesca a fare un po’ di luce nel buio più totale che attanaglia Palazzo San Giorgio. Questo non vuol dire però fregarsene e aspettare che la questione si risolva: per quanto ci è possibile rientra nei nostri interessi informarci seriamente e vigilare su quanto sta succedendo nella nostra città. Il mare e l’ombrellone possono anche aspettare: troviamo un modo per manifestare la nostra preoccupazione e per invocare chiarezza ai protagonisti di questa squallida vicenda. "La Polis, propriamente, non è la città stato in quanto entità fisica ma una forma di organizzazione nella quale ogni membro partecipa all'azione e al discorso comunitari, la cui collocazione più autentica è fra persone che vivono insieme a tale scopo" scriveva Hannah Arendt: dimostriamo che Reggio non dorme e che, soprattutto, non si merita quanto si sta verificando.

martedì 17 agosto 2010

Pink Floyd - High Hopes (video)



Non mi sembra di esagerare se considero i testi dei Pink Floyd come dei veri e propri saggi filosofici. Alcune loro canzoni, come questa che vi propongo, sono vere e proprie gemme condensate di dubbi, questioni e riflessioni esistenziali. La ragione per cui vi propongo "High Hopes" e non altri brani più famosi è racchiusa nell'enigmaticità di questo video che, se accompagnato da un'analisi del testo, diventa più chiaro ed esplicativo. Qui di seguito il testo tradotto (i miei commenti/riferimenti/integrazioni sono nelle parentesi quadre):

- Grandi Speranze -

Oltre l’orizzonte del luogo
in cui abbiamo vissuto da giovani,
in un mondo di magneti e miracoli,
i nostri pensieri vagavano costantemente e senza confini

[al min. 1:19 compaiono degli uomini che corrono lungo un orizzonte che, presumibilmente, è quello della loro vita, lasciandosi dietro una lunga scia (di sogni? di speranze? di illusioni?)]

il suono della campana della discordia era iniziato
[potrebbe trattarsi dell'altra faccia della medaglia del progresso della civiltà, ovvero la discordia, l'egoismo, le reciproche violenze e le sopraffazioni quotidiane]

per la lunga strada e giù dalla strada rialzata
s'incontreranno ancora lì, vicino al taglio?

c’era una banda discontinua che seguiva i nostri passi
correndo prima che il tempo portasse via i nostri sogni
lasciando la miriade di piccole creature
a cercare di incatenarci al suolo
ad una vita consumata da un lento decadimento.

[min 1.44: le piccole creature, ovvero gli uomini sui trampoli e con le 24ore, si credono ed appaiono alti, immortali, onnipotenti, mentre invece sono destinati all'inesorabile deterioramento fisico ed intellettuale imposto dalla nostra natura e ancor più accentuato ritmo imposto dalla civiltà, con tutto il suo carico di obblighi, doveri e privazioni]

l'erba era più verde,
la luce era più brillante,
eravamo circondati di amici
la notte era un prodigio

cercando oltre le braci di ponti lucenti dietro di noi
fino ad uno sguardo di come fosse verde sull’altra sponda
passi fatti in avanti ma camminando nel sonno di nuovo indietro
trascinati dalla forza di una marea interiore.

[min. 2.26: degli uomini, sonnambuli, camminano all'indietro fino a toccarsi e abbracciarsi. I passi fatti in avanti potrebbero alludere ai progressi della civiltà che però spesso ci fa regredire, obnubilandoci con le sue promesse e facendoci dimenticare la nostra essenza di esseri finiti, miserandi e bisognosi di aiutarci a vicenda]

ad una maggiore altezza con bandiere spiegate
abbiamo raggiunto le gelide cime di quel mondo sognato

[min 2.40: degli uomini spiegano delle bandiere al vento: potrebbe essere un'allusione ai disastri e alle stragi compiute in nome della "patria", come le guerre sante, o le guerre "civilizzatrici", oppure ancora le odierne "missioni di pace". Non a caso, dopo poco le bandiere scompaiono e ne rimane soltanto una, grande e nera]

per sempre oppressi da desiderio e ambizione
c'e' una fame non ancora soddisfatta
i nostri occhi stanchi ancora vagano all'orizzonte
sebbene abbiamo percorso questa strada così tante volte

[min 3.40: compaiono degli uomini al tramonto, carichi di pesi come dei muli. Da una scena del genere non può che trasparire insofferenza e oppressione. La stessa insofferenza e oppressione che proviamo quando ci accorgiamo di vivere la maggior parte del nostro tempo come degli schiavi, inconsapevoli di esserlo perchè accecati dal desiderio di avere sempre di più. Tuttavia, anche se riuscissimo a possedere tutto, qualcosa continuerà a mancarci. Cosa abbiamo perduto per strada e non riusciamo più trovare?]

l'erba era più verde,
la luce era più brillante,
eravamo circondati di amici
la notte era un prodigio
eravamo circondati di amici
l'alba si vaporizzava incandescente
l’acqua scorreva
nel fiume senza fine
per sempre e sempre

[min. 4.00: ecco cosa abbiamo perso, la semplicità, l'innocenza dei primi anni della nostra esistenza. Non a caso si vedono scene di bambini che lasciano volare dei palloni per aria, un peluche gettato dalla finestra, un uomo asservito da una ruota per farla girare all'infinito, l'uomo dell'inizio del video che libera da un'automobile quegli stessi palloni abbandonati che si riversano lungo strade, ponti, portici di chiese, carceri: tutti prodotti e simboli del progresso, della spiritualità e delle autoprivazioni a cui l'uomo si è dovuto sottomettere per diventare quello che è adesso. Ma ne è davvero valsa la pena? O forse non è stata tutta un'illusione, come lo è quella provocataci da quegli uomini che, alla fine del video, sembrano trasportare una statua pesantissima e che invece si rivela insulsa e vuota, ma non per questo meno pesante, così come lo può essere la consapevolezza di un fallimento o del fardello portato sulle spalle dagli uomini-schiavi mentre tramonta il sole della loro civiltà?]

martedì 10 agosto 2010

Ceronetti, l'automobile e la carne

Agosto. Tempo di file interminabili su strade e autostrade. Milioni di persone si spostano come una massa abnorme verso le località turistiche, ansiose di trascorrere le loro misere vacanze stressandosi forse ancora di più rispetto alla loro grigia vita di tutti i giorni. Sono stati questi i primi pensieri che mi sono venuti in mente leggendo la riflessione di Guido Ceronetti che qui vi propongo.


"La sofferenza è morale, anche se l'aggressione è fisica, per il senso di avvilimento, di degradazione, di confusione, d'ingiustizia patita e di solitudine: questo provo quando faccio, nella mia nudità schernita di uomo a piedi un bagno di traffico automobilistico, ma per un'autentica coscienza dolorosa di uomo a piedi bisogna sapersi vedere e sentire un essere umano, cioè il punto più debole della natura, lampadina di tirassegno da frantumare, candela da soffiare, pudenti scoperti, cibus vermium". Per comprendere ciò vi consiglio di provare a camminare per le variegate salite di Reggio Calabria, magari a mezzogiorno: strade affollate da lamiere contorte sfreccianti e parcheggiate ovunque. Una vera e propria esperienza mistica.


Continua Ceronetti: "la carne teme l'assedio dei metalli; non può tollerarli, non può conoscerli. E una grande concentrazione di automobili è prima di tutto un 'infernale concentrazione di metalli, acciaio, alluminio, piombo, cromo, ecc. Ma l'uomo non è che carne. Ecco perchè la carne (l'uomo a piedi) è smarrita e disfatta nel ribollimento metallico del traffico automobilistico. Non vi accorgete che le automobili vi prendono a sprangate, anche se non vi toccano? Vi trapanano la testa, vi coprono dei loro escrementi gassosi, vi abbagliano, vi braccano come volpi rincoglionite, vi strinano le arterie, vi regolano il passo, vi strangolano a poco a poco. Vi fanno dimenticare di non essere che carne.


"[...] Doveva essere un privilegio di pochi come la carrozza e la portantina. L'imbecillità democratica ha voluto il motore per tutti, l'automobile ai polsi di tutti. I danni sono incalcolabili. [...] Un rigido feudalismo automobilistico ci avrebbe salvati. Ministri, attori del cinema, qualche chirurgo, pochi delinquenti di eccezionale bravura, sarebbe stato un materiale di studio per gli studiosi del fasto umano... Ma gli altri a piedi, come sempre; i più affannati in tram, in bicicletta... E' stato infame mettere in circolazione tanto denaro da permettere alla classe media le più lussuose berline; adescare con l'odore della potenza e del prestigio sociale tutti i tarati delle città e delle campagne, tutta la schiuma della Terra. Tutta questa infezione si è rovesciata dentro i metalli da strada, smaniosa di abolirsi come carne e pretendendo, per speranza di felicità, di essere cosa. Difficile attuare un così grande sogno!"


"[...] Tutti quelli che portano in sè un seme di odio per il Bello l'automobile li fa sfogare, distrugge per loro paesaggi, arte e forme di vita, li fa sentire, giustamente, soggetti attivi della Storia. L'economia rateale riesce a collocare il demente al suo posto di lotta prima che abbia messo da parte il denaro per conquistarselo. Pagando una sola rata, qualunque tristissimo prodotto uterino entra legalmente in possesso di un involucro omicida che può lanciare dove vuole, contro chi capita; adoperare come feritoia o catapulta, spavento di deboli, deposito di droga o di fucili, letto di stupro. Perciò l'automobile-per-tutti, culmine penosamente statico della farsa economica (e adesso che l'avrete raggiunto? dovranno tutti averne due, poi tre, e poi?), è anche l'occasione del crimine data a tutti, in combinazioni illimitate". Tanto di cappello, mr. Guido Ceronetti.

martedì 27 luglio 2010

Sgalambro, la consolazione

Preoccupato per l'incerto futuro assicuratomi dalla mia (prossima) laurea in filosofia ho cercato rifugio nella sopracitata opera sgalambriana consigliatami da un amico, anch'egli miserando-laureando in filosofia.

Cos'è la consolazione? Perchè ne abbiamo continuamente bisogno? Per Sgalambro è un fenomeno straordinario e misterioso allo stesso tempo. Straordinario in quanto rivela 'la sconfinata pietà per tutti gli esseri viventi' che è in noi e che ci porta a rispondere ad un appello d'aiuto. "Se ci chiediamo come sia possibile la presenza della pietà in questo mondo, noi non sappiamo rispondere. Ma questo dà un indizio, ci dice almeno che essa non nasce nè da questo nè da nessun altro mondo. Essa c'è perchè c'è, invece. Perchè è l'estraneo che ti trascina per i capelli alla pietà. Qui è il miracolo. Allo stesso modo la consolazione. Ci sentiamo come strappati a noi stessi, condotti con violenza a quell'altro e, con nostra stessa meraviglia, gli diamo tutto quello che possediamo".
Attenzione qui a non disperderci nella melassa della filosofia morale tradizionale: per Sgalambro l'uomo e soprattutto il filosofo, sono impotenti, cioè non possono fare nulla di concreto per cancellare dolori e preoccupazioni. "La consolazione è la pietà che non si estrinseca con atti ma con parole. E questo perchè l'agire non è più possibile. L'agire è ormai impotente. La coscienza morale potrà solamente consolare. Insomma, la consolazione sostituisce la compassione. Derisoria cosa, si! Ma il fato ci trascina".

Perchè non si può più agire? Perchè se ci fosse ancora speranza nell'azione il consolato non sarebbe più tale, dato che non sarebbe disperato e non avrebbe bisogno di consolazione. Quindi, continua Sgalambro, "la consolazione è la fonte di quel che solamente ci è possibile: parole, ahimè. Ma perchè 'ahimè'? Lo abbiamo detto: beatitudine estrema oppure, in quel che ci è dato, unica cosa possibile. Si scelga". Sgalambro è consapevole della possibile insoddisfazione di questo aut-aut: o la morte, come unico rimedio alle sofferenze, o un breve quanto illusorio paradiso fatto di parole. Ed infatti lo rivela quando evidenzia il limite della consolazione, cioè "la rabbia di non potere altro. E' il limite insito nella parola. Tu ti protendi con tutto te stesso verso un altro, eppure non puoi che schiacciarlo". Ma non è cosa di poco conto riuscire, se pur per breve tempo fare breccia nella preoccupazione, nel dolore e nella sofferenza umana. Come riuscire in ciò? Bisogna saper "aspirare il consolato con la forza del discorso ma, soprattutto, con la risposta al suo appello. Bisogna anzitutto che il discorso lo scuota, introduca un turbamento nella sua compatta disperazione. Un fremito, ed è fatta. Ammesso che il consolatore ignori tutto di lui, al discorso consolatorio non occorrono particolari. 'Tu vivi? Allora so tutto di te' dice il consolatore".

Il mistero della consolazione consiste invece nel fatto che essa agisce segretamente nel consolato e nello stesso consolatore, uniti dalle stesse miserie. Citando Seneca, la consolazione sublime per Sgalambro è sapere di "essere coinvolto nella distruzione universale. Cioè sapere che tutti saremo distrutti e inghiottiti in un abisso senza fine". Perchè questa consapevolezza, in tutta la sua catastroficità, riesce a consolarci? Perchè - continua Sgalambro - "essa non ci consola della nostra fine miseranda, ma ci consola proprio con la nostra fine miseranda. Una consolazione siffatta è come se si consolasse un malato in balia di sofferenze mortali dicendogli: 'Ne hai per poco, tra poco crepi'. Eppure è vero: se a un malato in preda alle sofferenze dell'agonia si riuscisse a fare capire che tra poco tutto sarà finito, ebbene, quale consolazione migliore di questa egli può attendersi? [...] Perchè ne sei consolato? Il desiderio di essere disperato esprime il rapporto con la verità perchè la verità ti è contro. Tu hai una certezza, la certezza che la verità ti è contro. Nello stesso tempo questo ti consola, ti consola perchè è una certezza. Nello stesso tempo tu sei in pace. Sei disperato ma in pace".

E' il volto terribile della verità: essa ci spaventa, siamo certi di essere destinati ad essa così come a miserie e dolori indicibili, anzi l'unico modo per giungere ad essa sono proprio gli stessi dolori e miserie. Ma è questa la nostra unica certezza: "la verità ci è contro, incute spavento, ma sono certo che è questa la verità. Perchè oggi non si ha nessuna certezza o, per andare più a fondo, perchè non si ha più nessuna verità? Perchè la verità è che la verità ci è contro. Perchè la certezza matematica è che la verità ti è contro e che per te è finita".

domenica 18 luglio 2010

Watzlawick, istruzioni per rendersi infelici

Perchè mai dovreste ricercare l'infelicità? Perchè l'uomo è infelice quando non sa di essere felice. Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente nello stesso istante... (F.M. Dostoevskij)
Perchè dovreste leggere questo mio intervento? Perchè l'eudaimonia, ovvero la ricerca della felicità che ci viene propinata quotidianamente da tv,manuali di psicologia, persino temi della maturità scolastica è una menzogna bell'e buona. E Paul Watzlawick, così come Dostoevskij, questo lo sa: 'E' giunta l'ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui la felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita. Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità. Al nostro mondo, che rischia di essere sommerso da una marea di istruzioni per essere felici, non si può rifiutare più a lungo un salvagente'.

La felicità intesa come una meta salda e definitiva della nostra esistenza, a cui poter giungere un giorno e sentirci assolutamente soddisfatti e paghi, non esiste e non può esistere. Fa parte della nostro modo di vivere, incontentabile, insaziabile ed in continua trasformazione. Ma soprattutto, ciò che ci avvince della felicità come meta non è il fatto di poterla un giorno raggiungere, ma proprio la sua lontananza, la speranza di poterci arrivare. Watzlawick affronta questo concetto cruciale quando parla dell' attenzione all'arrivare. Citando George Bernard Shaw, egli scrive: 'Nella vita esistono due tragedie. La prima è la mancata realizzazione di un intimo desiderio, l'altra è la sua realizzazione'. Questo perchè 'la strada del successo è faticosa, sia perchè è necessario applicarsi molto, sia perchè anche sforzandosi intensamente si può fallire'. Allora che fare? O accontentarsi, optando per un successo 'a piccoli passi', o scegliersi una meta straordinariamente elevata, consapevoli dell'alto rischio di fallimento ma anche della possibile, immensa, soddisfazione.

Ma per Watzlawick essenziale è, prima di ogni cosa, evitare di illudersi. Per questo egli ci fornisce una serie di consigli, non richiesti dai più, per raggiungere l'infelicità: essere fedeli a se stessi, ovvero non arretrare mai di fronte ai propri principi anche quando tutto il mondo va dalla direzione opposta; esaltare il proprio passato come luogo di felicità e spensieratezza; crearsi accorgimenti per non affrontare o, quantomeno, rimandare il confronto con i propri problemi; credere negli oroscopi e nelle profezie fatalistiche; sprofondarsi nelle contraddizioni delle relazioni amorose (esilarante è a tal proposito l'illusione delle alternative: se il proprio partner fa A, avrebbe dovuto fare B, e se fa B, avrebbe dovuto fare A); innamorarsi di persone per noi inarrivabili; vivere la vita come un gioco la cui prima regola è: non conoscere le regole del gioco.

'Il principio fondamentale secondo cui il gioco non è un gioco ma una cosa molto seria fa della vita un gioco senza fine, che solo la morte conclude. E qui - come se ciò non fosse già abbastanza paradossale - c'è la seconda assurdità: l'unica regola che può far terminare questo gioco molto serio non è di per sè una delle sue regole'. La nostra esistenza, la sua paradossalità.

martedì 6 luglio 2010

Nietzsche, pregiudizi filosofici

'Posto che la verità sia una donna -, E perchè no? Non ha forse fondamento il sospetto che tutti i filosofi, in quanto dogmatici si intendessero poco di donne? E' certo che essa non si è lasciata conquistare: - e oggi ogni specie di dogmatica se ne sta lì, in atteggiamento abbacchiato e disfatto.
[...] C'è da sperare che la filosofia dei dogmatici sia stata soltanto una promessa per millenni di là da venire. Ora che essa è stata superata, che l'Europa riprende fiato da questo incubo e può almeno godere di un più salutare sonno, siamo noi - cui spetta per compito proprio l'esser desti - gli eredi di tutta quella forza che la lotta contro quest'errore ha fatto crescere rigogliosa'.

Benvenuti nella mente di Friedrich W. Nietzsche. Quella sopracitata è soltanto la prefazione di "Al di là del bene e del male", una delle ultime opere del filosofo contraddistinta soprattutto per la vis polemica contro la morale e il cristianesimo, considerati come gli aguzzini attraverso cui l'uomo è arrivato a porsi contro la vita stessa. Tuttavia, preferisco soffermarmi su un altro aspetto presente in "Al di là..." e non si tratta di qualcosa di marginale. Leggendo il primo capitolo di quest'opera ho avvertito infatti il grande debito che ogni intellettuale ha nei confronti di Nietzsche quando egli afferma: 'La volontà che ha per mira il vero: di quali domande ci ha già fatti consci questa volontà! Ma chi c'è qui propriamente a porci domande? Noi ci siamo interrogati rispetto al valore di questa volontà. Posto che noi vogliamo la verità: perchè non dovremmo desiderare piuttosto la controverità? E la controcertezza? Ed addirittura la controsapienza? [...] Assumere la controverità come modus vivendi: questo significa davvero proporsi un'opposizione di pericolosa natura ai sentimenti abituali con cui la gente soppesa i valori; ed una filosofia, che a tal punto si spinge, per questo sol motivo ben si spinge al di là del bene e del male'.

E' questa forza eversiva, contraria a qualsiasi ovvietà che rende immortale il pensiero di Nietzsche. Non vi sono certezze, nè tranquillizzanti possessi concettuali: la filosofia, ben lungi dall'essere quel regno armonico d'amore per la saggezza, è qualcosa di contorto, di complesso ma di incredibilmente necessario per l'oltreuomo nietzscheano e per la sua irrefrenabile volontà di vivere, sempre in conflitto con pulsioni a lei contrapposte. 'I filosofi - scrive Nietzsche - hanno il vezzo di discorrere della volontà come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo. Tuttavia mi sembra che il volere sia qualcosa di complicato, qualcosa che trova la sua unità soltanto nella parola con cui lo si designa. [...] In ogni atto di volontà c'è un pensiero che comanda; - e non si deve affatto credere di poter separare questo pensiero dal 'volere', come se, dopo aver fatto ciò, restasse ancora una volontà! La volontà non è soltanto un complesso di sensazioni e pensieri, ma è anche e soprattutto una passione: ed è quella passione del comando a tutti ben nota. Quella che viene definita libera volontà è in sostanza una forte emozione, provocata dalla sensazione di avere il completo dominio di colui che deve obbedire. [...] Il nostro corpo non è che una strutturazione di anime conviventi'.

Il filosofo, conscio di tutto ciò 'ha in fin dei conti un diritto al cattivo carattere, in quanto è l'essere che sulla terra è stato beffato al massimo grado, - egli oggi ha il dovere della diffidenza, di sbirciare occhiate maligne fuor d'ogni abisso di sospetto. [...] Perchè mai il mondo non dovrebbe essere una finzione? Non è niente di più che un pregiudizio morale il fatto che la verità abbia più valore dell'apparenza. [...] In quale singolare attitudine al semplicismo, tra quante falsificazioni vive l'uomo! [...] Attenti a voi, filosofi e amici della conoscenza: siete pienamente consapevoli di come non possa avere nessuna importanza il fatto che proprio voi abbiate ragione, e del fatto che fino ad ora nessun filosofo ha mai avuto ragione. Il martirio del filosofo, il suo sacrificio votivo alla verità, costringe a venire alla luce quei caratteri dell'arruffapopolo e del commediante che si annidavano in lui'.

Ma chi è il vero filosofo per Nietzsche? 'Un uomo che costantemente vive, vede, ascolta, sospetta spera, sogna cose fuori dell'ordinario; qualcuno che i suoi stessi pensieri colgono di sorpresa, come venissero da fuori, dall'alto, dal basso, allo stesso modo in cui lo colgono gli eventi e i colpi di fulmine che gli sono peculiari; e forse egli stesso è una tempesta che s'avanza gravida di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale c'è sempre qualcosa che borbotta, rimbomba, precipita e s'avventa con sinistro, perturbante accadere. Un filosofo: vale a dire, ahimè, un essere che spesso sfugge a se stesso, spesso ha timore di sè - tuttavia è troppo curioso per non 'tornare' sempre di nuovo a sè...'