lunedì 25 ottobre 2010

Croce e l'amore per l'arte

Non mi piacciono le autocelebrazioni. Però una laurea è pur sempre una laurea, per diamine! E allora eccomi qui, a darvi un "antipasto" della mia tesi di laurea, incentrata sull'estetica di Benedetto Croce che non esito neanche un momento ad identificare come il mio ideale di filosofo (sebbene sia consapevole della velleità che c'è dietro alle idealizzazioni ed emulazioni: si finisce sempre per rincorrere qualcuno che, inevitabilmente, non si potrà mai raggiungere).

L'estratto che tra poco vi proporrò è tratto da un'opera del 1933, "La poesia", in cui Croce riesamina e puntualizza i concetti fondamentali della sua estetica (che troverete riepilogati sinteticamente nella mia tesi, ovviamente se ne avrete voglia). Croce prende in considerazione il famigerato luogo comune dell' "arte per l'arte", ovvero dell'amore disinteressato che ogni artista dovrebbe avere rispetto al proprio ufficio sacro: l'espressione. Tuttavia, ed è un'altra lezione che ho imparato da Croce, nulla di quello che gli uomini fanno è veramente disinteressato: laddove non c'è un minimo di guadagno personale, statene certi, chiunque gira al largo! Anche la solidarietà implica un'attrattiva individuale, quale può essere l'intima gratificazione per chi la fa...Infine, permettetemi di definire sublime il parallelo crociano fra l'amore e l'espressione artistica. E' forse uno degli aspetti che mi ha colpito di più della filosofia di Croce: le sue riflessioni, alla portata di tutti in quanto a linearità e semplicità, sono incastonate di piccole gemme poetiche arricchiscono la sua speculazione senza però appesantirla, anzi chiarendola ulteriormente. Ma è tempo di far parlare il "nostro" Croce:

- L'arte per l'arte -

"L'espressione poetica può trapassare ad oggetto d'amore e di culto d'amore ed essere trattata non più come espressione, ma come cosa che si ricerchi per sè, facendo, come si dice, l'arte per l'arte.
Come ogni amore, anche questo ha per fondamento la realtà di un bisogno, e, nel suo caso, dell'espressione poetica; ma come ogni amore si svolge oltre, e anche senza e contro, il soddisfacimento del bisogno originario. Così come si amano, e si amano sul serio, donne che non si ha nessuna volontà di possedere, sentendosi che nel possesso andrebbe perduto il meglio o il tutto dell'amore e quell'incantesimo si rompererebbe.

[...] Ma, soffermandoci all'amore per le espressioni poetiche, esso, al pari di ogni altro amore, ricerca la presenza e il contatto dell'oggetto amato, e perciò si fa culto ed esercizio di quelle espressioni, non solo senza aver nulla di proprio da trasfigurare in bellezza. Qualcosa di analogo si riscontra nella cerchia del pensiero, dove talvolta ci si trastulla col pensiero per il pensiero, ossia con la logica per la logica, come nel caso delle acutezze o degli indovinelli, e in parte anche nell'altro delle sottigliezze che piace di moltiplicare, delle precise e lunghe argomentazioni superflue che piace svolgere in tutti i loro passaggi, godendo della propria bravura, laddove basterebbe accennare e tirar via.

Amare e cercare le espressioni poetiche come cose o (che qui è lo stesso) come persone, vuol dire cercare le immagini fuori del loro nesso, distaccate ed astratte, e ammirarle e carezzarle e fermarle nei suoni articolati, curando la perfezione di ciascuna d'esse. Che è quel che si vede nelle pagine dei virtuosi dell'arte per l'arte, così perfette in ogni particolare da muovere l'impazienza e il fastidio in uno spirito di poeta, il quale è pronto a gettarle via tutte per esprimersi "senza perfezione" (ossia con tutt'altra perfezione da quella). Perchè in tanto risalto di ciascuna immagine, manca in quella maniera d'arte il fondo che tutte le raccolga e le mitighi, il fondo che solo poteva generarle a vita poetica, e solo dar loro misura e proporzioni. E non solamente manca il fondo poetico, ma anche l'altro su cui la letteratura si forma e che è il vario contenuto extrapoetico [ovvero, le passioni, gli impulsi, gli interessi dell'artista in quanto uomo]. Stanno invece, quelle immagini singole, come idoli, che l'artista [o lo pseudo-artista, quello cultore della sola forma, destinato per questo a rinchiudersi nella più totale autorefenzialità] plasma e adora.

Per questa via s'intende anche in qual modo si venga determinando una sorta di teoria dell' "arte per l'arte" a uso di quei critici che pretendono di trovare e spiegare la bellezza di un verso, che è bellezza spirituale [ovvero nella vita, nella contingenza, nella concreta ed ineludibile necessità di esprimersi che l'artista sente quando è gravido di ispirazione], nei suoni per sè, negli accenti, nei ritmi, nella "musica", come la sogliono chiamare, dimostrando, in questo lor dire, scarsa stima, non tanto della poesia, quanto della musica stessa. [...] In questi casi difetta l'amore e, con l'amore, la capacità di dare alle proprie opere quella verità e quella bellezza che pur sono in grado di conseguire. L'arte per l'arte non è che un innamoramento tra gli altri innamoramenti, una servitù d'amore tra le altre servitù d'amore".

venerdì 15 ottobre 2010

Il processo di Socrate

Pur rendendomi conto che potrei tedìarvi con la mia piccola crociata per la giustizia, intesa non come un'astratta entità di cui riempirsi la bocca ma un vero e proprio modus vivendi, proseguo imperterrito lungo questa direzione. Ed una naturale tappa d'approdo per questa mia ricerca non poteva che essere la figura di Socrate: un uomo che ha accettato un'ingiusta morte per la sua fiducia nella giustizia terrena ed ultraterrena. Il testo a cui faremo riferimento sarà ovviamente l' "Apologia di Socrate" scritto da Platone, il più illustre e fedele seguace di Socrate.

Ma per comprendere fino in fondo la radicalità del comportamento di Socrate è necessario prima contestualizzare le vicende: siamo nel gennaio del 399 a.C. ad Atene. Socrate viene portato in tribunale da Melèto, Anito e Licòne, rispettivamente poeta, politico ed oratore che erano stati messi in ridicolo da Socrate per la loro vanità e per la dilagante corruzione dei loro costumi. Le ragioni degli accusanti erano del tutto generiche e pretestuose: Socrate veniva accusato di aver "indagato con animo empio le cose del cielo e della terra; di corrompere i giovani e di non credere negli dei ai quali credeva la città, ma in nuove divinità demoniache".

Ma le vere ragioni per cui Socrate venne accusato, e condannato, erano da rintracciare nella nascente democrazia ateniese (figlia di una classe dirigente già allora in preda alla corruzione e al malaffare), che aveva bisogno di sbarazzarsi di un individuo che per le sue capacità dialettiche ed oratorie e per il suo modello di vita improntato sulla giustizia, sulla povertà e sulla rettitudine rappresentava una minaccia, dato che poteva sommuovere l'opinione popolare ateniese. Ma, bando alle mie ciance, lasciamo che sia Socrate in persona a parlarci e ad insegnarci cos'è la giustizia, perchè egli ha accettato la sua condanna a morte e perchè un uomo giusto non deve temerla (come sempre, integrazioni e commenti sono posti tra parentesi quadre).

- La difesa di Socrate -

"Se qualcuno mi dicesse: - Ma non ti vergogni, o Socrate, d'esserti dato un'occupazione per la quale ora ti sei messo a rischio di morire? - io così risponderei a buon diritto: - Hai torto, amico, se stimi che un uomo di qualche valore debba tenere in conto la vita e la morte. Egli nelle sue azioni deve unicamente considerare se ciò che fa sia giusto o ingiusto e se si comporta da uomo onesto o da malvagio. Secondo il tuo ragionamento, sarebbero da stimare poco quei semidei e tutti gli altri che sono morti davanti a Troia. [...] Ed ora che Dio mi ha assegnato un posto di combattimento, così almeno io credo di dovere interpretare il suo volere, posto di combattimento che è quello di vivere filosofando [il "vivere filosofando" è il vivere secondo una disciplina che fa della filosofia non la ricerca di un sapere astratto, ma una pratica morale che è armonia di pensiero e di azione], esaminando me e gli altri, sarebbe veramente cosa grave se io, per paura della morte o d'altro, disertassi il campo [Socrate ha un senso profondamente religioso della vita, che gli faceva riguardare la personalità di ciascuno come inserita in fini etici superiori dell'umanità e la vita tutta come dovere, al quale non è lecito sottrarsi. Per questo non mirava a sovvertire le leggi o lo Stato, bensì a sollecitare i suoi concittadini a non prendersi cura delle ricchezze più che dell'anima e della virtù].

[...] Giacché, o Ateniesi, il temere la morte altro non è che essere sapienti senza esserlo, cioè a dire credere di sapere ciò che si ignora; poichè nessuno sa se la morte, che l'uomo teme come se conoscesse già che il maggiore di tutti i mali, non sia invece per essere il più gran bene. E non è la più vituperevole ignoranza quella che consiste nel credere di sapere ciò che non si sa? [...] Ma una cosa so di certo: che il fare ingiustizia e disobbedire a un nostro superiore, sia esso Dio o uomo, è cosa cattiva e vergognosa. Giammai dunque io temerò nè fuggirò quello che non so se sia un bene, ma piuttosto il male che so essere tale".

- Socrate è condannato a morte -

"Forse voi pensate, o Ateniesi, che sono stato condannato per mancanza di quei tali abili discorsi con i quali avrei potuto persuadervi se io avessi creduto che era necessario dire e far di tutto pur di scampare alla condanna. Niente affatto! Ciò che mi è venuto a mancare non sono stati gli argomenti, bensì l'audacia e l'impudenza e la volontà di non dire cose che vi sarebbero state gradevolissime a udire, piangendo e lamentandomi e facendo altre cose indegne di me, ma alle quali altri vi avevano abituati. Non mi pento di essermi difeso così; anzi preferisco assai più volentieri essermi così difeso, e morire, che difendermi in quell'altro modo, e vivere.

[...] Ma considerate bene, o Ateniesi, che il difficile non è evitare la morte quanto piuttosto evitare la malvagità, che ci viene incontro più veloce della morte [è più facile evitare la morte che la malvagità, poichè debole e vile è l'animo dell'uomo dinanzi agli istinti e le passioni terrene, fonte di conflitti e guerre]. Ed ora io, come tardo e vecchio, sono stato raggiunto da quella che è più tarda; i miei accusatori, invece, come più gagliardi e veloci, da quella che è più veloce, la malvagità. Ed ora io me ne vado da qui condannato da voi a morire; costoro invece condannati dalla verità ad essere malvagi e ingiusti [si dice che gli accusatori di Socrate siano morti di morte violenta. Era radicata nei Greci la convinzione che il male esige in questa vita una riparazione che può essere estesa anche alle discendenze di coloro che commisero la malvagità]. Io accetto la mia pena, questi la loro. Doveva essere così, e penso che così sia bene.

venerdì 8 ottobre 2010

Tema: la mia Città

Per liberareggio.org

Ieri sera, tornando a casa dopo essere stato a Piazza Duomo, mi è venuto in testa il ritornello della sopracitata canzone degli Afterhours che fa: "Chi salverà/ la mia città?". Ebbene, l'acceso dibattito che ieri s'è venuto a creare ad "Annozero" non poteva fotografare meglio l'aria che si respira a Reggio. Le persone oneste sono con l'acqua alla gola, sono stanche non soltanto di subire passivamente il potere della criminalità organizzata che ci tiene (questa sì) "sotto scopa" con l'atavica fame di lavoro che c'è in Calabria, ma sono stanche soprattutto di non essere ascoltate, di vedere che il resto dell'Italia non se ne fotte minimamente di loro. Politici in primis, gli stessi personaggi che periodicamente scendono dalle loro ricche corti per fare promesse su promesse e per chiedere i nostri voti (e qui mi riferisco indiscriminatamente a tutta la classe politica).

Ieri sera Daniela Santanchè, esponente del governo nazionale in qualità di sottosegretario di Stato al Dipartimento per l'attuazione del programma di governo, è caduta dalle nuvole: non sapeva delle recenti vicissitudini di Scopelliti; non sapeva che Angela Napoli aveva da tempo preso le distanze dal PDL; continuava a farfugliare che "questo è il governo che ha fatto di più ecc ecc" ed è riuscita a mandare in bestia anche de Magistris che, come sappiamo, ne ha subìte di tutti i colori però sempre mantenendo il suo contegno; non ha detto una parola di solidarietà per quei giornalisti vessati e minacciati di morte; non ha saputo, insomma, dire qualcosa per cercare di aiutare una città che implora aiuto.

Ma noi non possiamo più aspettare. Chi campa di speranza disperato muore, recita un proverbio comune. Se non riusciamo a ribellarci noi per primi ai perversi giochetti a cui, indistintamente politici e 'ndranghetisti, ci sottopongono c'è poco da fare. Ho accennato a de Magistris. A prescindere dalle sue scelte politiche che, ci mancherebbe altro, ciascuno di noi è libero di non condividere, anche la sua è una storia che avrebbe dovuto insegnarci molto su come funzionano le cose nel nostro Paese. Per questo vi lascio con alcune sue considerazioni tratte da "Assalto al PM. Storia di un cattivo magistrato".

"Nel corso degli anni mi sono reso conto di come la Calabria assomigli al Sudamerica di una volta: una regione governata da una vera e propria "classe". E' una classe di potere. Intrisa anche di mafiosità. E' composta da una parte importante e assolutamente trasversale della politica, che ha a cuore solo interessi di settore. Gruppi di potere che operano per puro interesse e con logiche biecamente clientari. Comprende una parte consistente dei principali imprenditori, diventati potenti, ricchi, noti e forti grazie al loro rapporto con la politica. Una situazione che potrebbe apparire simile a quella di altre parti del paese. Ma la vera anomalia, in Calabria, è che in questa classe compaiono, in modo non residuale, pezzi significativi delle istituzioni ed anche parti degli organi preposti ai controlli di legalità: impiegati e funzionari pubblici, forze dell'ordine, servizi di sicurezza. Quando il controllore diventa "organico" in un sistema cui partecipa anche il controllato, le garanzie di legalità e di trasparenza saltano, spazzate via da un conflitto di interessi permanente.

La classe dominante che ho descritto governa la Calabria da decenni tenendo in una situazione di voluta soggezione e sottomissione il resto della popolazione calabrese, che non ha la capacità di riscattarsi perchè non ha gli strumenti economici nè quelli politici e nemmeno istituzionali, dal momento che attraverso il controllo dell'economia e del lavoro la borghesia mafiosa controlla anche il voto. Ma soprattutto, almeno fino a un certo momento storico, la Calabria non ha avuto gli strumenti cognitivi per opporsi. Perchè?

Perchè la conoscenza di certi contesti avviene attraverso due canali: la magistratura e l'informazione. Le indagini giudiziarie consentono al cittadino di sapere se i propri governanti stanno rubando, stanno truffando, sono corrotti o infedeli e così via. Se la magistratura non funziona la gente non sa cosa di illecito accade nella vita pubblica. Poi c'è l'informazione. In questo settore la Calabria, fino a un certo punto, ha molto sofferto un controllo serrato, una "cappa mediatica" che non consentiva ai cittadini, dentro e fuori la regione, di sapere cosa accadeva. Con il tempo questa situazione è migliorata perchè sono nati nuovi organi di informazione e alcuni giornalisti seri e coraggiosi, spesso molto giovani, sono riusciti a raccontare i fatti. La consapevolezza e la partecipazione sociale sono mutate proprio quando questi cronisti, facendo bene il proprio mestiere, hanno cominciato a rendere una descrizione veritiera e non condizionata dalle azioni giudiziarie che venivano intraprese. La conoscenza dei fatti stimola il pensiero libero e critico e questo fa paura ai ceti dominanti affaristici e corrotti".

Insomma, chi salverà la mia città?

sabato 2 ottobre 2010

Vico, la Repubblica e la giustizia

Giustizia, solidarietà, pietà, verità: chi cerca di perseguire nel corso della sua esistenza questi valori non solo viene additato come giustizialista, perbenista, bigotto, moralista e quant'altro, ma viene letteralmente fatto fuori, messo ai margini da un sistema ben collaudato per non funzionare, o meglio, per funzionare in modo che solo a pochi (furbetti, intrallazzatori, criminali e quant'altro) sia permesso arricchirsi e godere di un'agiata e placida esistenza. Pur facendo pienamente, e orgogliosamente, parte della schiera dei cosiddetti "sfigati", ovvero di quelli che la loro vita devono e dovranno sudarsela ben bene, non mi piace arrendermi facilmente e crogiolarmi nel pessimismo e nella certezza che nulla cambierà in meglio. Per questo credo e perseguo quegli ideali; per questo non invidio i miei coetanei che hanno ed avranno tutto pronto quando desidereranno averlo; per questo non ritengo "fico" appartenere ad una cosca malavitosa, operando secondo quei canoni da "uomini d'onore" che, per me, non sono altro che delle leggi della giungla che degli animali cercano di dare a sè stessi per evitare di azzannarsi a vicenda nella loro irrefrenabile corsa alla ricchezza e al potere. Per questo, infine, vi propongo questi estratti dalla "Scienza nuova", opera maxima di Giambattista Vico, uno dei più importanti filosofi italiani per originalità e personalità che troppo spesso viene sottovalutato, se non addirittura non considerato affatto. Bando alle ciance, lasciamo parlare Vico. (Le mie domande e integrazioni sono poste tra parentesi quadre).

- Progresso sociale e giustizia -

Gli uomini per la loro corrotta natura sono tiranneggiati dall'amor proprio, per lo quale non sieguono principalmente che la propria utilità; onde eglino, volendo tutto l'utile per sè e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l'uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gli imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l'uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l'utilità propria. [A vostro giudizio, a quale tappa ci siamo fermati e/o siamo regrediti?]

- La nascita della repubblica -

Perchè gli uomini erano di menti particolarissime che non potevano intendere ben comune, per lo che eran avvezzi a non impicciarsi nemmeno delle cose particolari d'altrui, la provvedenza gli menò ad unirsi alle loro patrie, per conservarsi tanti grandi privati interessi quanto erano le loro monarchie famigliari; e sì, fuori d'ogni loro proposito, convennero in un bene universale civile, che si chiamava "repubblica". Questa sovrana civil persona si formò di mente e di corpo. La mente fu un ordine di sappienti, quali in quella somma rozzezza e semplicità esser per natura potevano; dall'altra parte il corpo, formato col capo ed altre minori membra. Onde alle repubbliche restonne quest'altra eterna proprietà: ch'altri vi debban esercitare la mente negl'impieghi della sapienza civile [in numero circoscritto aggiungerei, dato che una società di soli speculatori-teorici come sta diventando la nostra è destinata al fallimento], altri il corpo ne' mestieri e nell'arti che deon servire così alla pace come alla guerra; con questa eterna proprietà: che la mente sempre vi comandi e che 'l corpo v'abbia perpetuamente a servire.

- Corruzione delle repubbliche -

Corrompendosi gli Stati popolari, e quindi ancor le filosofie (le quali cadendo nello scetticismo, si diedero gli stolti dotti a calunniare la verità) [rappresentata, per Vico dalla divina Provvidenza] e nascendo quindi una falsa eloquenza, apparecchiata egualmente a sostener nelle cause entrambe le parti opposte - provenne che, mal usando l'eloquenza e non più contentandosi i cittadini delle ricchezze per farne ordine, ne vollero fare potenza; e commovendo civili guerre nelle loro repubbliche, le mandarono ad un totale disordine, e sì, da una perfetta libertà, le fecero cadere sotto una perfetta tirannide (la qual è peggiore di tutte) ch'è l'anarchia ovvero la sfrenata libertà de' popoli liberi.

- Rimedio -

Ma se i popoli marciscano in quell'ultimo civil malore allora la provvedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che - poichè tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare ch'alle particolari proprie utilità di ciascuno ed avevano dato nell'ultimo della dilicatezza, o per me' dire, dell'orgoglio, a guisa di fiere - per tutto ciò con ostinatissime fazioni e disperate guerre civili, vadano a fare selve delle città, e delle selve covili d'uomini, e 'n cotal guisa dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irrugginire le malnate sottigliezze degl'ingegni maliziosi, che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione. Perciò popoli di sì fatta riflessiva malizia, così storditi e stupiditi, non sentano più agi, dilicatezze, piaceri e fasto, ma solamente le necessarie utilità della vita; e, nel poco numero degli uomini alfin rimasti e nella copia delle cose necessarie alla vita, divengano naturalmente [razionalmente] comportevoli; e per la ritornata primiera semplicità del primo mondo de' popoli, sieno religiosi, veraci e fidi; e così ritorni tra essi la pietà, la fede, la verità, che sono i naturali fondamenti della giustizia e sono grazie e bellezze dell'ordine eterno di Dio.

- Degnità -

La filosofia per giovar al genere umano, dee sollevar e reggere l'uomo caduto e debole, non convellergli la natura, nè abbandonarlo nella sua corruzione.

La filosofia considera l'uomo quale dev'essere, e se non può fruttare ch'a pochi primi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo.

Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de' fanciulli di prendere cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive.

La natura de' popoli prima è cruda, di poi vera, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta.
[In quale di queste fasi collochereste l'attuale popolazione italiana?]

L'equità naturale della ragion umana tutta spiegata è una pratica della sapienza nelle faccende dell'utilità, poichè "sapienza", nell'ampiezza sua, altro non è che scienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura.