martedì 23 novembre 2010

Kubrick - Full Metal Jacket

Ieri notte ho beccato "Full Metal Jacket", uno dei più bei film tra tutti i capolavori kubrickiani. Definirlo un film sulla Guerra del Vietnam sarebbe riduttivo. Il Vietnam non vi appare che marginalmente: ciò che interessava maggiormente Kubrick era rappresentare la follia e la psicocità che contrassegnano qualsiasi tipo di potere e/o istituzione civile. Si tratta quindi di un film non su una guerra ma sulla guerra come prodotto dell'irrazionalità e della follia umana. Irrazionalità e follia che si nutrono, ovviamente della prevaricazione, dell'odio e dell'intolleranza per i nostri simili, ma che mostrano, nella pianificazione di un campo di sterminio o nella costruzione di bombe atomiche capaci di spazzare via intere regioni, una lucidità e una razionalità spaventose, quasi onnipotenti. Non si tratta di tematiche di poco conto: Nietzsche, in "Al di là del bene e del male" scriveva che "La pazzia è qualcosa di raro nei singoli - ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli e nelle epoche è la regola".

Per Heidegger, nella nostra epoca in cui si concretizza il totalitarismo della tecnica su tutto ciò che è, uomo in primis, la guerra rappresenta la massima espressione del nichilismo, della violenza e del pericolo che accompagnano da sempre l'essere umano. Gli eserciti non sono che delle fabbriche di "pezzi di riserva" funzionanti anche in tempo di pace, dato che bisogna essere preparati ad ogni evenienza per sostituire i soldati-pezzi "guasti o non più utilizzabili". L'uomo giunge alla piena cosificazione ed anche la morte a cui va incontro in un conflitto atomico non ha nulla di eroico, né di valoroso. Con ciò non ho voluto fare un excursus fine a sé stesso: si tratta di tematiche che traspaiono vividamente da "Full Metal Jacket".

Il film può essere suddiviso in due parti: nella prima il regista descrive magistralmente l'imprescindibile cosificazione ed omologazione degli individui che dovranno formare l'esercito americano. Le giovani reclute non potranno, né dovranno pensare individualmente, ma come un corpo solo. Perciò, l'unica cosa che sono tenuti a fare è obbedire agli ordini del capo-addestratore, il funambolico Generale Hartman, il cui compito è quello di formare "non dei robot, ma dei killer" e di stremare in qualsiasi maniera le reclute per scremare gli inetti. In quest'ottica, Palla di Lardo rappresenta il bersaglio più ovvio quanto più esemplificativo: l'umiliazione, la violenza psicologica a cui viene quotidianamente sottoposto dal Generale alla fine riuscirà a farlo diventare un vero soldato, anche se ciò avverrà a scapito del suo equilibrio psichico, da cui il tragico epilogo dell'ultima notte al campo. Paradossalmente, il Generale Hartman sarà una vittima dell'efficacia del suo metodo di addestramento basato su valori come l'odio, il disprezzo e la "volontà d'uccidere" come via maestra di ogni buon marines.

Nella seconda parte inizia ad emergere il protagonista della narrazione: Joker. Personaggio quantomai complesso ed ambiguo, decide di fare il cronista militare. Stufo della continua manipolazione e delle menzogne propagandistiche che il governo dava in pasto al popolo americano, dicendogli quello che voleva sentirsi dire, ovvero che la "missione di pace" sarebbe stata breve ed indolore per tutti e che il popolo vietnamita era infinitamente grato per la libertà "american-style" loro concessa a suon di bombardamenti e stragi di civili, Joker si fa mandare sul fronte dei combattimenti. Qui intervista soldati sanguinari, come quello sull'elicottero che alla domanda "Ma come fai a sparare su donne e ragazzini?", risponde: "E' facile! Vanno più lenti e miri da più vicino!", ritrova il suo compagno di plotone Cowboy, e combatte al suo fianco, anche se combattuto interiormente ed esteriormente per tutto quello che era stato costretto a vivere. Il tutto ci viene raccontato con l'inconfondibile satira kubrickiana che riesce sia a dissacrare lo schema cinematografico dei seriosi ed eroici film di guerra (ridicolizzando così la guerra in generale e mostrandone l'insulsaggine) sia, soprattutto, a fare riflettere amaramente anche lo spettatore più superficiale.

Giungiamo così al sorprendente finale: la squadra di Joker cade in un'imboscata di un cecchino implacabile. Dopo aver abbattuto quasi metà della squadra, i soldati si dividono tra chi vorrebbe ritirarsi e chi invece non può lasciare invendicata la morte dei propri compagni. Animal si scatena nella caccia del cecchino sanguinario, che alla fine risulterà essere una ragazza viet-cong. Ironia della sorte, il soldato che si ritroverà faccia a faccia con lei è proprio Joker, il soldato pacifista, forse il meno "valoroso" proprio perché non poteva far a meno di pensare alla natura ambigua e contraddittoria dell'uomo, diviso tra bene e male, irrazionalità e ragione. Alla fine Joker esaudisce il desiderio della ragazza agonizzante, finendola a sangue freddo. Ma nonostante le parole dei suoi compagni ("Ora sì che sei un duro Joker!"), ciò che traspare dal suo volto non è che smarrimento, quello stesso smarrimento che sorge in noi dopo aver assistito ad una scena così devastante. Ma in nessuno dei marines di "Full Metal Jacket" può esserci spazio per sentimentalismi e riflessioni: eccoli subito che marciano in mezzo al fuoco dell'inferno, di quell'inferno voluto dalla loro beneamata patria, pensando ancora ad "eiaculazioni notturne e a Jane fica-rotta", ma anche, e soprattutto, alla felicità di essere ancora vivi: "Certo - ci racconta Joker - vivo in un mondo di merda, ma sono vivo e non ho più paura" di essere mandato a morire per qualcosa di follemente razionale.

lunedì 15 novembre 2010

Schopenhauer, la volontà e la musica

Continuiamo ad addentrarci ne "Il mondo come volontà e rappresentazione", opera maxima di Schopenhauer. Nell'ultimo intervento abbiamo evidenziato gli snodi fondamentali della riflessione del filosofo: cercando egli di comprendere il senso del dolore e delle ineludibili sofferenze che caratterizzano la nostra esistenza, Schopenhauer approda alla definizione della vita come continua ricerca di appagamento dei nostri desideri, sintomi continuamente emergenti dalla volontà di vita che anima tutti gli esseri. L'uomo, essendo l'unico tra gli enti in grado di riflettere su tutto ciò, può cercare di sottrarsi a questa continua irrequietezza: attraverso l'ascesi (risultato massimamente arduo da raggiungere dato che presuppone un'abnegazione e uno sforzo continuo), oppure attraverso l'intuizione e la contemplazione artistico-estetica che, anche se per brevi quanto intensi momenti, riesce a farci dimenticare la nostra miseria esistenziale, schiudendoci la conoscenza essenziale di noi stessi e della realtà che ci circonda. Tra le varie forme d'espressione artistiche, Schopenhauer non esita a definire la musica come la più rivelatrice in assoluto. Vediamo perchè.


- La musica come arte a sè -

La musica è separata da tutte le altre arti. Noi non riconosciamo in lei la copia, la ripetizione di qualche idea degli esseri del mondo: tuttavia essa agisce con tale potenza sull'intimo dell'uomo, viene da lui così appieno e a fondo compresa, quasi lingua universale la cui evidenza supera quella dello stesso mondo intuitivo, che in lei certamente dobbiamo cercare ben più che un "oscuro esercizio aritmetico che l'animo fa non sapendo di numerare", come la definì Leibniz. Se essa altro non fosse, la soddisfazione che ci procura dovrebbe esser simile a quella che noi proviamo per l'esatta soluzione di un calcolo, e non potrebbe essere quell'intima gioia che nasce in noi al veder trasformata in linguaggio la più profonda sostanza del nostro essere.


- La musica è oggettivazione diretta e immagine della volontà -

[...] Adeguata oggettivazione della volontà sono le idee; suscitare la conoscenza di queste [possibile solo mediante un corrispondente cambiamento nel soggetto conoscitivo], attraverso la rappresentazione di singoli oggetti [le opere d'arte], è lo scopo di tutte le altre arti. Esse dunque oggettivano solo mediatamente la volontà, cioè per mezzo delle idee: e poichè il nostro mondo altro non è che fenomeno delle idee nella pluralità, così la musica, andando oltre le idee [ovvero, non imitando nulla di tutto ciò di materiale che ci circonda e che conosciamo con la ragione] è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico. La musica è oggettivazione e copia immediata di tutta la volontà, come lo è il mondo, anzi come lo sono le idee, il cui fenomeno multiplo costituisce il mondo delle cose particolari. La musica non è dunque l'immagine delle idee, ma l'immagine della stessa volontà. Perciò l'effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti, poichè quelle parlano d'ombre, essa invece esprime l'essenza.


- La funzione della melodia -

[...] Nella melodia che procede movendosi in libertà sbrigliata dal principio alla fine con la coerenza ininterrotta e densa di significati di un unico pensiero, io riconosco il grado supremo di oggettivazione della volontà, la vita e le attività coscienti dell'uomo. Come questo, essendo il solo dotato di ragione, guarda davanti e dietro a sè sul corso della sua realtà e delle innumerevoli possibilità, conducendo così una vita consapevole e coerente come un tutto organico, allo stesso modo la melodia ha dal principio alla fine una significativa, intenzionale coerenza. Essa ci racconta di conseguenza la storia della volontà che, illuminata dalla riflessione, si esprime nella realtà con la serie dei suoi atti; ma dice di più: narra di questa storia più segreta, ne dipinge ogni emozione, ogni slancio, ogni moto, tutto ciò che la ragione raccoglie sotto il vasto e negativo concetto di sentimento, nè può meglio raccogliere nelle proprie astrazioni.


- Analogia del movimento melodico con quello della volontà -

[...] Ora, come l'essenza dell'uomo consiste nell'aspirazione della volontà che viene appagata e torna ad aspirare perennemente, anzi la sua felicità, il suo benessere sta nella rapidità del passaggio dal desiderio all'appagamento e da questo ad un nuovo desiderio, poichè la mancanza dell'appagamento è dolore, la mancanza di un nuovo desiderio è vuota aspirazione, noia, così l'essenza della melodia è un continuo scostarsi, un errar lontano dal tono fondamentale, per molte vie non solo verso i gradi armonici, ma per ogni tono, sempre però infine con un ritorno al tono fondamentale. Per tutte queste vie la melodia esprime le diverse forme di aspirazione della volontà, ma da ultimo anche l'appagamento mediante il ritorno ad un grado armonico, o al grado fondamentale. Trovare la melodia, svelare in lei tutti i più profondi segreti del volere e del sentimento umano è l'opera del genio, la cui azione, qui più che altrove evidente, è lontana da ogni riflessione, e si può chiamare ispirazione. Qui il concetto, come sempre in arte, è sterile: il compositore rende palese l'intima essenza del mondo ed esprime la più profonda saggezza in una lingua che la sua ragione non intende.


- L'alto valore dell'arte -

Dunque, considerando che con l'arte noi disponiamo non soltanto dello "specchio" della volontà, ma anche della possibilità di liberarci (anche se momentaneamente) da ogni vincolo col volere, per Schopenhauer l'arte è il più consolante e il solo innocente aspetto della vita. [...] Il piacere per ogni cosa bella, la consolazione offerta dall'arte, l'entusiasmo che all'artista fa dimenticare le pene della vita ed è l'unico privilegio che ricompensa il genio del dolore cresciuto assieme alla chiarità della coscienza, e della squallida solitudine tra una razza estranea, tutto ciò deriva dal fatto che l'in-sè della vita, la volontà, l'esistenza stessa, è un costante soffrire, in parte miserando, in parte orrendo; lo stesso invece come semplice rappresentazione puramente intuita o riprodotta dall'arte, libera da ogni dolore, presenta un significativo spettacolo.

lunedì 8 novembre 2010

Schopenhauer, la volontà e l'arte

Pochi pensatori riescono ad arrivarti nel profondo, a farti sussultare, a darti la paradossale impressione di condividere con te esperienze, sofferenze e riflessioni come Arthur Schopenhauer. Perdonate la presentazione forse un pò troppo intimistica ma è questo quello che provo leggendo alcune sue opere. Cercherò di condividere con voi queste mie impressioni, proponendomi stavolta di riuscire ad approfondire maggiormente la riflessione, sperando, come sempre, di non annoiarvi. Lo scritto a cui faremo riferimento è il terzo libro de "Il mondo come volontà e rappresentazione". Questo intervento sarà focalizzato sull'ottima introduzione alla filosofia schopenahueriana di Rinaldo Manfredi (sulla quale mi sono permesso di fare qualche piccola modifica); nel prossimo entreremo invece nel vivo dell'opera discutendo su una forma d'arte particolarmente rivelatrice secondo Schopenhauer: la musica.

Schopenhauer ebbe fin dall’adolescenza una straordinaria sensibilità per l’aspetto doloroso della vita. Il suo pensiero doveva trovare una giustificazione di questa realtà e delle difficoltà che essa ci riserva. Punto di partenza della sua riflessione è la distinzione kantiana fra realtà fenomenica e cosa in sé o noumeno. Per Schopenhauer, Kant non poteva legittimare questa distinzione poiché il mondo è sempre e comunque oggetto per un soggetto. Tuttavia, l'uomo non può essere considerato soltanto come pura conoscenza: è qualcosa di ben più profondo. C'è infatti dell'altro oltre alle categorie attraverso le quali conosciamo la realtà: l'azione e la volontà. E' in essa che noi sentiamo di essere non solo soggetti di conoscenza, ma anche centri di attività, capaci di patire, di desiderare e tendere al volere.

Secondo Schopenhauer, questa volontà non è propria solo dell'uomo ma è in tutte le cose. Volontà è nel cristallo che si forma, nella pietra che cade, nel fiore che nasce e negli animali. La volontà è l’in-sé del mondo, che si presenta come un principio irrazionale sul quale si apre successivamente la conoscenza. La volontà è un tendere continuo, bisogno sempre rinascente. Essa genera però nell'uomo il dolore, dato che soltanto noi, essendo dotati di ragione, possiamo renderci conto di essa e del circolo vizioso in cui stringe inesorabilmente la nostra esistenza. La felicità per Schopenhauer
[che abbiamo già preso in considerazione qualche tempo fa], non può che essere sfuggente e momentanea, consistendo in quel rapido senso di soddisfazione di un desiderio prima che possano nascerne in noi degli altri. Se la volontà non riprende la sua via nasce la noia. Nessuno potrebbe durare a lungo nella descrizione di uno stato soddisfatto e felice senza riuscire noioso. La vita oscilla fra il dolore e la noia. Di qui il senso di oppressione e di fatica che ci accompagna nella vita. E’ sempre l’unica volontà che strazia se stessa. L’esistenza è un peccato che tutti dobbiamo scontare. Se tale è la natura del destino di ogni vivente, è necessario trovare la via che porti alla liberazione. Per questo la filosofia non dovrebbe mai formulare dei precetti astratti ma rivolgersi sempre alla realtà.

A nulla serve il suicidio. Esso libera forse l’individuo, ma lascia intatta la volontà, la quale anzi determina anche questo estremo gesto. La liberazione può essere raggiunta solo quando la volontà, divenuta consapevole di sé e del proprio destino, non vuol più essere volontà di vita o, meglio, vuole sottrarsi al suo dominio irrequieto. E’ precisamente nell’asceta, in cui il dolore universale ha parlato, che avviene il miracolo. Dunque la rinuncia, l’inazione, il nirvana è la suprema saggezza, che non solo redime l’individuo in cui si attua, ma l’intera volontà. L’ascesi è la più perfetta ma non la sola forma di liberazione: accanto ad essa abbiamo la giustizia e la compassione, nei quali si tende al superamento dell’egoismo, fonte di ogni dolore, e l’arte.

Questa è contemplazione dell’idea da parte di un soggetto che ha perduto ogni contatto col mondo. Non si tratta dunque tanto di superamento quanto di evasione, di oblio momentaneo del male. Nell'espressione così come nella contemplazione estetica dell'idea della bellezza il soggetto perde la sua individualità, si scioglie da ogni legame col mondo. Sebbene le idee siano il sostegno della vita, questa non ha più alcun effetto su di lui, perché ciò che egli contempla non è questa o quella manifestazione di vita, né egli è più un particolare individuo di fronte ad essa. L’artista non coglie l’idea in forma confusa, ma in limpida intuizione: questa, come ogni altra forma di intuizione, appartiene all’intelletto, ma si ha quando esso è superiore ai bisogni della volontà. Alla ragione come facoltà discorsiva appartiene solo il dominio dei concetti astratti; la ragione, basandosi sui dati dell’intuizione empirica dà la comune esperienza e in grado più eminente la scienza, mentre l’intuizione artistica penetra nel mondo della realtà essenziale.