martedì 27 luglio 2010

Sgalambro, la consolazione

Preoccupato per l'incerto futuro assicuratomi dalla mia (prossima) laurea in filosofia ho cercato rifugio nella sopracitata opera sgalambriana consigliatami da un amico, anch'egli miserando-laureando in filosofia.

Cos'è la consolazione? Perchè ne abbiamo continuamente bisogno? Per Sgalambro è un fenomeno straordinario e misterioso allo stesso tempo. Straordinario in quanto rivela 'la sconfinata pietà per tutti gli esseri viventi' che è in noi e che ci porta a rispondere ad un appello d'aiuto. "Se ci chiediamo come sia possibile la presenza della pietà in questo mondo, noi non sappiamo rispondere. Ma questo dà un indizio, ci dice almeno che essa non nasce nè da questo nè da nessun altro mondo. Essa c'è perchè c'è, invece. Perchè è l'estraneo che ti trascina per i capelli alla pietà. Qui è il miracolo. Allo stesso modo la consolazione. Ci sentiamo come strappati a noi stessi, condotti con violenza a quell'altro e, con nostra stessa meraviglia, gli diamo tutto quello che possediamo".
Attenzione qui a non disperderci nella melassa della filosofia morale tradizionale: per Sgalambro l'uomo e soprattutto il filosofo, sono impotenti, cioè non possono fare nulla di concreto per cancellare dolori e preoccupazioni. "La consolazione è la pietà che non si estrinseca con atti ma con parole. E questo perchè l'agire non è più possibile. L'agire è ormai impotente. La coscienza morale potrà solamente consolare. Insomma, la consolazione sostituisce la compassione. Derisoria cosa, si! Ma il fato ci trascina".

Perchè non si può più agire? Perchè se ci fosse ancora speranza nell'azione il consolato non sarebbe più tale, dato che non sarebbe disperato e non avrebbe bisogno di consolazione. Quindi, continua Sgalambro, "la consolazione è la fonte di quel che solamente ci è possibile: parole, ahimè. Ma perchè 'ahimè'? Lo abbiamo detto: beatitudine estrema oppure, in quel che ci è dato, unica cosa possibile. Si scelga". Sgalambro è consapevole della possibile insoddisfazione di questo aut-aut: o la morte, come unico rimedio alle sofferenze, o un breve quanto illusorio paradiso fatto di parole. Ed infatti lo rivela quando evidenzia il limite della consolazione, cioè "la rabbia di non potere altro. E' il limite insito nella parola. Tu ti protendi con tutto te stesso verso un altro, eppure non puoi che schiacciarlo". Ma non è cosa di poco conto riuscire, se pur per breve tempo fare breccia nella preoccupazione, nel dolore e nella sofferenza umana. Come riuscire in ciò? Bisogna saper "aspirare il consolato con la forza del discorso ma, soprattutto, con la risposta al suo appello. Bisogna anzitutto che il discorso lo scuota, introduca un turbamento nella sua compatta disperazione. Un fremito, ed è fatta. Ammesso che il consolatore ignori tutto di lui, al discorso consolatorio non occorrono particolari. 'Tu vivi? Allora so tutto di te' dice il consolatore".

Il mistero della consolazione consiste invece nel fatto che essa agisce segretamente nel consolato e nello stesso consolatore, uniti dalle stesse miserie. Citando Seneca, la consolazione sublime per Sgalambro è sapere di "essere coinvolto nella distruzione universale. Cioè sapere che tutti saremo distrutti e inghiottiti in un abisso senza fine". Perchè questa consapevolezza, in tutta la sua catastroficità, riesce a consolarci? Perchè - continua Sgalambro - "essa non ci consola della nostra fine miseranda, ma ci consola proprio con la nostra fine miseranda. Una consolazione siffatta è come se si consolasse un malato in balia di sofferenze mortali dicendogli: 'Ne hai per poco, tra poco crepi'. Eppure è vero: se a un malato in preda alle sofferenze dell'agonia si riuscisse a fare capire che tra poco tutto sarà finito, ebbene, quale consolazione migliore di questa egli può attendersi? [...] Perchè ne sei consolato? Il desiderio di essere disperato esprime il rapporto con la verità perchè la verità ti è contro. Tu hai una certezza, la certezza che la verità ti è contro. Nello stesso tempo questo ti consola, ti consola perchè è una certezza. Nello stesso tempo tu sei in pace. Sei disperato ma in pace".

E' il volto terribile della verità: essa ci spaventa, siamo certi di essere destinati ad essa così come a miserie e dolori indicibili, anzi l'unico modo per giungere ad essa sono proprio gli stessi dolori e miserie. Ma è questa la nostra unica certezza: "la verità ci è contro, incute spavento, ma sono certo che è questa la verità. Perchè oggi non si ha nessuna certezza o, per andare più a fondo, perchè non si ha più nessuna verità? Perchè la verità è che la verità ci è contro. Perchè la certezza matematica è che la verità ti è contro e che per te è finita".

domenica 18 luglio 2010

Watzlawick, istruzioni per rendersi infelici

Perchè mai dovreste ricercare l'infelicità? Perchè l'uomo è infelice quando non sa di essere felice. Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente nello stesso istante... (F.M. Dostoevskij)
Perchè dovreste leggere questo mio intervento? Perchè l'eudaimonia, ovvero la ricerca della felicità che ci viene propinata quotidianamente da tv,manuali di psicologia, persino temi della maturità scolastica è una menzogna bell'e buona. E Paul Watzlawick, così come Dostoevskij, questo lo sa: 'E' giunta l'ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui la felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita. Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità. Al nostro mondo, che rischia di essere sommerso da una marea di istruzioni per essere felici, non si può rifiutare più a lungo un salvagente'.

La felicità intesa come una meta salda e definitiva della nostra esistenza, a cui poter giungere un giorno e sentirci assolutamente soddisfatti e paghi, non esiste e non può esistere. Fa parte della nostro modo di vivere, incontentabile, insaziabile ed in continua trasformazione. Ma soprattutto, ciò che ci avvince della felicità come meta non è il fatto di poterla un giorno raggiungere, ma proprio la sua lontananza, la speranza di poterci arrivare. Watzlawick affronta questo concetto cruciale quando parla dell' attenzione all'arrivare. Citando George Bernard Shaw, egli scrive: 'Nella vita esistono due tragedie. La prima è la mancata realizzazione di un intimo desiderio, l'altra è la sua realizzazione'. Questo perchè 'la strada del successo è faticosa, sia perchè è necessario applicarsi molto, sia perchè anche sforzandosi intensamente si può fallire'. Allora che fare? O accontentarsi, optando per un successo 'a piccoli passi', o scegliersi una meta straordinariamente elevata, consapevoli dell'alto rischio di fallimento ma anche della possibile, immensa, soddisfazione.

Ma per Watzlawick essenziale è, prima di ogni cosa, evitare di illudersi. Per questo egli ci fornisce una serie di consigli, non richiesti dai più, per raggiungere l'infelicità: essere fedeli a se stessi, ovvero non arretrare mai di fronte ai propri principi anche quando tutto il mondo va dalla direzione opposta; esaltare il proprio passato come luogo di felicità e spensieratezza; crearsi accorgimenti per non affrontare o, quantomeno, rimandare il confronto con i propri problemi; credere negli oroscopi e nelle profezie fatalistiche; sprofondarsi nelle contraddizioni delle relazioni amorose (esilarante è a tal proposito l'illusione delle alternative: se il proprio partner fa A, avrebbe dovuto fare B, e se fa B, avrebbe dovuto fare A); innamorarsi di persone per noi inarrivabili; vivere la vita come un gioco la cui prima regola è: non conoscere le regole del gioco.

'Il principio fondamentale secondo cui il gioco non è un gioco ma una cosa molto seria fa della vita un gioco senza fine, che solo la morte conclude. E qui - come se ciò non fosse già abbastanza paradossale - c'è la seconda assurdità: l'unica regola che può far terminare questo gioco molto serio non è di per sè una delle sue regole'. La nostra esistenza, la sua paradossalità.

martedì 6 luglio 2010

Nietzsche, pregiudizi filosofici

'Posto che la verità sia una donna -, E perchè no? Non ha forse fondamento il sospetto che tutti i filosofi, in quanto dogmatici si intendessero poco di donne? E' certo che essa non si è lasciata conquistare: - e oggi ogni specie di dogmatica se ne sta lì, in atteggiamento abbacchiato e disfatto.
[...] C'è da sperare che la filosofia dei dogmatici sia stata soltanto una promessa per millenni di là da venire. Ora che essa è stata superata, che l'Europa riprende fiato da questo incubo e può almeno godere di un più salutare sonno, siamo noi - cui spetta per compito proprio l'esser desti - gli eredi di tutta quella forza che la lotta contro quest'errore ha fatto crescere rigogliosa'.

Benvenuti nella mente di Friedrich W. Nietzsche. Quella sopracitata è soltanto la prefazione di "Al di là del bene e del male", una delle ultime opere del filosofo contraddistinta soprattutto per la vis polemica contro la morale e il cristianesimo, considerati come gli aguzzini attraverso cui l'uomo è arrivato a porsi contro la vita stessa. Tuttavia, preferisco soffermarmi su un altro aspetto presente in "Al di là..." e non si tratta di qualcosa di marginale. Leggendo il primo capitolo di quest'opera ho avvertito infatti il grande debito che ogni intellettuale ha nei confronti di Nietzsche quando egli afferma: 'La volontà che ha per mira il vero: di quali domande ci ha già fatti consci questa volontà! Ma chi c'è qui propriamente a porci domande? Noi ci siamo interrogati rispetto al valore di questa volontà. Posto che noi vogliamo la verità: perchè non dovremmo desiderare piuttosto la controverità? E la controcertezza? Ed addirittura la controsapienza? [...] Assumere la controverità come modus vivendi: questo significa davvero proporsi un'opposizione di pericolosa natura ai sentimenti abituali con cui la gente soppesa i valori; ed una filosofia, che a tal punto si spinge, per questo sol motivo ben si spinge al di là del bene e del male'.

E' questa forza eversiva, contraria a qualsiasi ovvietà che rende immortale il pensiero di Nietzsche. Non vi sono certezze, nè tranquillizzanti possessi concettuali: la filosofia, ben lungi dall'essere quel regno armonico d'amore per la saggezza, è qualcosa di contorto, di complesso ma di incredibilmente necessario per l'oltreuomo nietzscheano e per la sua irrefrenabile volontà di vivere, sempre in conflitto con pulsioni a lei contrapposte. 'I filosofi - scrive Nietzsche - hanno il vezzo di discorrere della volontà come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo. Tuttavia mi sembra che il volere sia qualcosa di complicato, qualcosa che trova la sua unità soltanto nella parola con cui lo si designa. [...] In ogni atto di volontà c'è un pensiero che comanda; - e non si deve affatto credere di poter separare questo pensiero dal 'volere', come se, dopo aver fatto ciò, restasse ancora una volontà! La volontà non è soltanto un complesso di sensazioni e pensieri, ma è anche e soprattutto una passione: ed è quella passione del comando a tutti ben nota. Quella che viene definita libera volontà è in sostanza una forte emozione, provocata dalla sensazione di avere il completo dominio di colui che deve obbedire. [...] Il nostro corpo non è che una strutturazione di anime conviventi'.

Il filosofo, conscio di tutto ciò 'ha in fin dei conti un diritto al cattivo carattere, in quanto è l'essere che sulla terra è stato beffato al massimo grado, - egli oggi ha il dovere della diffidenza, di sbirciare occhiate maligne fuor d'ogni abisso di sospetto. [...] Perchè mai il mondo non dovrebbe essere una finzione? Non è niente di più che un pregiudizio morale il fatto che la verità abbia più valore dell'apparenza. [...] In quale singolare attitudine al semplicismo, tra quante falsificazioni vive l'uomo! [...] Attenti a voi, filosofi e amici della conoscenza: siete pienamente consapevoli di come non possa avere nessuna importanza il fatto che proprio voi abbiate ragione, e del fatto che fino ad ora nessun filosofo ha mai avuto ragione. Il martirio del filosofo, il suo sacrificio votivo alla verità, costringe a venire alla luce quei caratteri dell'arruffapopolo e del commediante che si annidavano in lui'.

Ma chi è il vero filosofo per Nietzsche? 'Un uomo che costantemente vive, vede, ascolta, sospetta spera, sogna cose fuori dell'ordinario; qualcuno che i suoi stessi pensieri colgono di sorpresa, come venissero da fuori, dall'alto, dal basso, allo stesso modo in cui lo colgono gli eventi e i colpi di fulmine che gli sono peculiari; e forse egli stesso è una tempesta che s'avanza gravida di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale c'è sempre qualcosa che borbotta, rimbomba, precipita e s'avventa con sinistro, perturbante accadere. Un filosofo: vale a dire, ahimè, un essere che spesso sfugge a se stesso, spesso ha timore di sè - tuttavia è troppo curioso per non 'tornare' sempre di nuovo a sè...'