giovedì 23 dicembre 2010

Gaber, Sartre: libertà e responsabilità



"L'uomo, essendo condannato a essere libero, porta il peso del mondo sulle spalle: egli è responsabile del mondo e di se-stesso in quanto modo d'essere. Prendiamo la parola "responsabilità" nel senso banale di "coscienza di essere l'autore incontestabile di un avvenimento o di un oggetto". In questo senso, la responsabilità del per-sè è molto grave, perché colui che si fa essere, qualunque sia la situazione in cui si trova, il per-sè deve assumere interamente la situazione con il suo coefficiente di avversità, fosse pure insostenibile [...].
E' quindi insensato pensare di rammaricarsi perchè nulla di estraneo ha deciso di ciò che proviamo, di ciò che viviamo o di ciò che siamo. Quello che mi accade, accade per opera mia e non potrei affliggermene nè rivoltarmi nè rassegnarmi. D'altra parte tutto ciò che mi accade è mio: con ciò bisogna intendere che sono sempre all'altezza di quello che mi accade, in quanto uomo, perchè ciò che accade agli uomini per opera di altri uomini e di se-stesso non potrebbe essere che umano. Non ci sono situazioni disumane; è solo per paura, fuga e ricorso a comportamenti magici che deciderò dell'inumano; ma questa decisione è umana e ne sopporterò tutta la responsabilità [...].
Non ci sono accidenti in una vita; un avvenimento sociale che scoppia improvvisamente e mi trascina non viene dall'esterno; se sono mobilitato in guerra, questa guerra è la mia. Non essendomi sottratto, l'ho scelta. Non c'è stata alcuna costrizione, poichè la costrizione non può avere alcuna presa su una libertà: non ho avuto scuse perchè la qualità propria della realtà-umana è di essere senza scuse [...].
Così, totalmente libero, devo essere senza rimorsi nè rimpianti come sono senza scuse, perchè dal momento del mio nascere all'essere, porto il peso del mondo da solo senza che nulla nè alcuno possano alleggerirlo".

Le due voci che vi ho proposto nell'ultimo intervento di quest'anno apparentemente sono in contrapposizione fra loro, ma, alla fine rappresentano due esemplari richiami alla responsabilità individuale che faremmo bene a non dimenticare mai. Da un lato, Gaber constata amaramente che la libertà di pensiero e parola di cui godiamo oggi è inconsistente poiché è schiacciata dall'isolamento, dall'emarginazione, dalle barriere erette fra quegli stessi uomini che dovrebbero, sulla carta, costituire una comunità.
Dall'altro, Sartre ci richiama alla strutturale condizione di dover decidere nella nostra esistenza di noi stessi. Condizione ineludibile, in quanto anche il rifiuto di decisione o la volontà di sottrarci col suicidio sono sempre delle possibilità rese tali dal nostro essere-nel-mondo.
E allora, come uscire da questo vicolo cieco? Come rendere, quantomeno, più accettabile questo mondo dove la fanno da padrone disparità ed ingiustizie?
Ce lo ha già ricordato Gaber.

mercoledì 15 dicembre 2010

Pasolini e i politicanti

Le vicende (o meglio le vicissitudini) politiche di questi ultimi giorni impongono una breve riflessione. Non si può restare indifferenti o inermi di fronte alla marea di palle che siamo costretti a sopportare quotidianamente. E non voglio qui ricreare il solito predicozzo che mentre la gente non arriva a fine mese questi pensano al loro tornaconto, a gridarsi insulti di ogni tipo nei beceri talk show (che noi, sadicamente, guardiamo intontiti e assuefatti), a vendersi l'un l'altro dopo "profonde riflessioni ideologiche e pensando al bene degli italiani". E' troppo facile fare un discorso del genere adesso: bisognerebbe farlo quando verranno a chiedere i nostri voti, a prometterti un lavoro, un futuro ecc ecc. Per quanto mi riguarda, pur di non dover pietire un posticino a qualcuno di questi figuri preferirei morire di fame. In ogni caso, vi lascio con una riflessione di Pier Paolo Pasolini, pensatore tanto fine quanto bistrattato ed ignorato dal suo Paese, oggi più che mai. Il brano propostovi è tratto da "Lettere luterane", raccolta di saggi che Pasolini scrisse nel 1975, suo ultimo anno di vita.

"[...] I potenti democristiani che in questi anni hanno detenuto il potere, dovrebbero andarsene, sparire, per non dire di peggio.
Invece non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poichè la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non la si può ascoltare. Bisogna tapparsi le orecchie.
Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni loro parola, di ribrezzo e di condanna. In altre parole, il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l'Italia.
Invece, quasi tutti gli intellettuali all'opposizione accettano sostanzialmente quello che accettano i potenti democristiani. Essi non sono affatto scandalizzati dalla mostruosità della lingua dei potenti democristiani".

giovedì 9 dicembre 2010

Sartre e l'amour

Ahhh l'amour! Fonte di gioie e dolori, in misura proporzionale alla nostra maggiore tendenza a gioire o soffrire... Tuttavia, anche nelle situazioni che mettono più a dura prova i nostri sentimenti, un rimedio, per quanto mi riguarda, c'è: rifletterci, pensarci su, cercare un senso a tutto ciò che ci succede. Per molti potrà essere una forma di masochismo, ma per me si tratta di una vera e propria decostruzione depotenziante di ciò che ci affligge e, perché no, il preludio ad una reazione-nuova azione (che non necessariamente può portare al meglio, ma questo è un altro discorso).

Al di là delle mie divagazioni, come avete capito stavolta affrontiamo l'amore interpretato nell'ottica ontologico-esistenziale di Jean-Paul Sartre. Il testo di riferimento è naturalmente Essere e nulla, pietra miliare della filosofia contemporanea. Una breve introduzione: dopo aver esaminato nelle sue principali dimensioni e manifestazioni l'uomo, unico protagonista della ricerca del famigerato essere, che potremmo grossolanamente definire come il senso della nostra esistenza e/o suo fondamento, Sartre esamina le dinamiche concrete con cui ci relazioniamo ai nostri simili . Ciò che accomuna tutti i nostri comportamenti, secondo Sartre, è la conflittualità, dato che non può trattarsi di "relazioni unilaterali con un oggetto in-sè, ma di rapporti reciproci e mobili. Mentre io tento di liberarmi dall'influenza d'altri, l'altro tenta di liberarsi dalla mia, mentre io tento di soggiogare l'altro, l'altro tenta di soggiogarmi".

La ragione di questa conflittualità connaturata a qualsiasi relazione è dovuta al fatto che "io sono posseduto dall'altro; lo sguardo d'altri forma il mio corpo nella sua nudità, lo fa nascere, lo vede come io non lo vedrò mai. L'altro possiede un segreto: il segreto di ciò che sono. Mi fa essere. L'altro è per me insieme ciò che mi ha rubato il mio essere e ciò che fa in modo che vi sia un essere che è il mio essere. Così rivendico l'essere che sono; voglio riprenderlo". Tuttavia, c'è un ostacolo insormontabile nella realizzazione di questo progetto: la libertà dell'altro e la conseguente impossibilità di assoggettarlo pienamente a me. Per cui, qualsiasi nostro progetto che implichi un altro, non può che basarsi sulla conflittualità, dato che ci pone in "legame diretto con la libertà d'altri. E' in questo senso che l'amore è conflitto. Il mio progetto di riprendere il mio essere non può realizzarsi se io non mi impadronisco di questa libertà e non la riduco a essere libertà sottomessa alla mia libertà".

"Perché l'amante vuole essere amato? Se l'amore fosse puro desiderio di possesso fisico, potrebbe essere, nella maggior parte dei casi, facilmente soddisfatto. Invece è della libertà d'altri in quanto tale che vogliamo impadronirci. Chi vuole essere amato non desidera di asservire l'essere amato. Non vuole possedere un automa. L'amante pretende un tipo speciale di appropriazione. Vuole possedere una libertà come libertà. L'amante vuole essere amato da una libertà e pretende però che questa libertà come libertà non sia più libera. Vuole che la libertà dell'altro si determini da sè ad essere amore e, insieme, che questa libertà si imprigioni da sé per volere la sua prigionia. E questa prigionia deve essere insieme rinuncia libera e incatenata nelle nostre mani. Per quanto lo riguarda, l'amante non pretende di essere la causa di questa modificazione radicale della libertà, ma di esserne l'occasione unica e privilegiata. Nell'amore l'amante vuole essere tutto il mondo per l'amata".

"[...] Se l'altro mi ama, io divento l'insuperabile, il che significa che devo essere il fine assoluto. L'oggetto che l'altro deve farmi essere, è un centro di riferimento assoluto intorno al quale si dispongono come puri mezzi tutte le cose-utensili del mondo. Se devo essere amato, sono l'oggetto per opera del quale il mondo esisterà per l'altro. Invece di essere un questo che si stacca dallo sfondo del mondo, sono l'oggetto-sfondo dal quale il mondo si stacca. [...] Mentre, prima di essere amati, eravamo inquieti per questa protuberanza ingiustificata, ingiustificabile che era la nostra esistenza, mentre ci sentivamo "di troppo", ora sentiamo che questa esistenza è ripresa e voluta nei minimi particolari da una libertà assoluta che essa condiziona nello stesso tempo e che proprio noi vogliamo con la nostra libertà. E' questo il fondo della gioia d'amore, quando c'è: sentirci giustificati di esistere".

Tuttavia, anche questa sopraelevazione ontica e spirituale allo stesso tempo è distruttibile in quanto "le relazioni amorose sono un sistema di rimandi all'infinito sotto il simbolo ideale del valore amore, cioè di una fusione delle coscienze in cui ciascuna di esse conserverebbe la sua alterità per fondare l'altro". C'è sempre un nulla impercettibile che separa i due amanti, anche negli attimi della fusione più totale che ci sia data, dato che anch'essa spesso si rivela sfuggente, misera, vacua in quanto inevitabilmente materiale e finita (ma su questo punto ritorneremo). "L'amore è dunque uno sforzo contraddittorio: il problema del mio essere-per-altri rimane senza soluzione, gli amanti rimangono ciascuno per sé in una soggettività totale; niente toglie loro la contingenza e li salva dalla fatticità. Inoltre il loro guadagno può essere continuamente compromesso: a ogni istante, ciascuna coscienza può liberarsi dalle sue catene e contemplare improvvisamente l'altro come oggetto. Allora la magia cessa, l'altro diventa mezzo tra altri mezzi; l'illusione, il gioco degli specchi che forma la realtà concreta dell'amore, cessa improvvisamente". Amara quanto cruda verità.

mercoledì 1 dicembre 2010

Tra Monicelli e Cioran

Il primo intervento di questo mese non poteva che essere ispirato dalla tragica scomparsa di un grande artista ed intellettuale italiano, Mario Monicelli. E cercheremo di farlo usando il linguaggio che ha caratterizzato tutti i suoi film: quello della sincerità, della schiettezza e della velata amarezza che ciascuno di noi sente non appena si ferma un attimo a riflettere su di sé e sul nostro Paese. La necessità di un simile ricordo è resa ancor più urgente soprattutto per il modo con cui Monicelli ha scelto di porre fine alla sua esistenza, diventato, purtroppo, oggetto delle becere discussioni dei nostri politicanti, che sono riusciti a fare anche di questo tragico lutto un campo di scontro per le loro vomitevoli ideologie. Ma adesso non è il caso di discutere sull'eutanasia: vogliamo prendere spunto dall'ultimo gesto compiuto dal maestro di Monicelli per riflettere su qualcosa che rappresenta un tabù per la nostra civiltà, ovvero il nostro strutturale tendere verso la morte; la stretta relazione fra vita e morte e su come basti un nonnulla per spegnere per sempre un'esistenza.

Il filosofo che voglio farvi ascoltare ha fatto di questo pensiero il cardine di tutta la sua riflessione. Si tratta di Emil Cioran che per lungo tempo si è concentrato sul senso di questo estremo quanto coraggioso gesto. Ma il suicidio non può e non deve essere considerato come la facile soluzione a tutti i nostri mali, né come una meta piacevole da prefiggersi, bensì come enigmatico atto-limite per la nostra già paradossale esistenza, in quanto ci rimanda ineludibilmente alla nostra finitezza, alla nostra debolezza, alla nostra impotenza strutturale che invece cerchiamo di dimenticare appresso a progetti, impegni, preoccupazioni ed ansie con cui ci affaccendiamo nella quotidianità. Cerchiamo allora di sospendere per un attimo questo tempo "pieno" e lasciamo parlare a noi Cioran, dedicando questi pensieri al Maestro Mario Monicelli.


- Incontri col suicidio -


Esiste in noi, più che una volontà, una tentazione di morire. Se infatti ci fosse concesso di volere la morte, chi, alla prima contrarietà, non ne approfitterebbe? Un altro impedimento entra nel gioco: l'idea di uccidersi appare incredibilmente nuova a chi ne è posseduto; costui dunque si figura di eseguire un atto senza precedenti: questa illusione lo occupa e lo lusinga, e gli fa perdere del tempo prezioso.


Quando ci afferra l'idea di farla finita, uno spazio si stende davanti a noi, una vasta possibilità fuori dal tempo e dall'eternità stessa, un'apertura vertiginosa, una speranza di morire al di là della morte.
Invero, uccidersi è rivaleggiare con la morte, dimostrare che si può fare meglio di lei, giocarle un brutto tiro e, successo non da poco, riabilitarsi ai propri occhi. Ci si rassicura, ci si persuade di così di non essere l'ultimo venuto, di meritare un poco di considerazione. Si pensa: fino ad oggi, incapace di prendere un'iniziativa, non avevo nessuna stima di me; ora tutto cambia: distruggendomi, distruggo a un tempo tutte le ragioni che avevo per disprezzarmi, ritrovo la fiducia, sono per sempre qualcuno...


Aspettare la morte è subirla, farla scadere al rango di processo, rassegnarsi a una conclusione di cui ignoriamo data, modalità e scenario. Si è ben lontani dall'atto assoluto. Non c'è niente in comune tra l'ossessione del suicidio e il sentimento della morte. [...] La morte non è necessariamente sentita come liberazione; il suicidio libera sempre: è culmine, è parossismo di salvezza.
Per decenza, dovremmo essere noi a scegliere il momento di scomparire. E' avvilente estinguersi come ci si estingue, è intollerabile essere esposti a una fine sulla quale non abbiamo alcun potere, che vi spia, vi atterra, vi precipita nell'innominabile.
[...] La millenaria cospirazione contro il suicidio è la causa dell'ingombro e della sclerosi nelle società. E' nostro diritto imparare a distruggerci al momento giusto, ad accorrere lietamente verso il nostro spettro. Finché non ci saremo risolti a questo, meriteremo tutte le nostre umiliazioni. Quando si è esaurita la propria ragione d'essere, ostinarsi è odioso. E invece ovunque si guardi, non si vede che l'indegnità della morte corporale.
Scrive Leopardi che quando dopo molti anni ritroviamo una persona conosciuta nell'infanzia, la prima impressione che ne ricaviamo è che sia stata colpita da qualche grande disgrazia. Durare è sminuirsi: l'esistenza è perdita d'essere. [...]


Non ci si uccide, come comunemente si pensa, in un accesso di demenza, ma in accesso di intollerabile lucidità, in un parossismo che, se vogliamo, può essere assimilato alla follia, se è vero che una chiaroveggenza eccessiva, spinta agli estremi e di cui ci si vorrebbe sbarazzare ad ogni costo, oltrepassa i limiti della ragione. Nonostante tutto, il momento culminante della decisione non testimonia un intenebramento: gli idioti non si uccidono praticamente mai, anche se ci si può uccidere per paura, o presentimento, dell'idiozia. L'atto si fonde allora con l'ultimo soprassalto dello spirito che riprende se stesso e che prima di annientarsi raccoglie tutte le sue forze, tutte le sue facoltà. Sulla soglia della disfatta estrema, prova a se stesso di non essere interamente perduto. E si perde- in piena, in istantanea padronanza di tutti i propri mezzi.


In quell'isoletta del Mediterraneo, assai prima dell'alba, sul sentiero che mi portava verso la parte più scoscesa della scogliera, facevo qualche riflessione da portinaio in vacanza: se quella villa fosse mia la dipingerei color ocra, farei mettere un altro steccato, ecc. Nonostante la mia idea, mi aggrappavo alle inezie: contemplavo le agavi, bighellonavo, eludevo con qualche digressione l'urgenza del mio proposito. Un cane si mise ad abbaiare, poi mi fece festa e mi seguì. Nessuno, che non l'abbia provato, può immaginare il conforto che vi dà un animale quando viene a tenervi compagnia, se gli dèi vi hanno voltato le spalle.


- Pensieri strangolati -


Perché non mi uccido? - Se conoscessi esattamente ciò che me lo impedisce, non avrei più domande da rivolgermi, avrei risposto a tutte.


Non abbiamo scrutato il fondo di una cosa, se non l'abbiamo considerata al lume dell'avvilimento.


"Niente merita d'essere preso a cuore" - si ripete colui che ce l'ha con se stesso ogni volta che soffre e che non perde l'occasione di soffrire.


Cercare un senso a qualcosa è non tanto da ingenuo quanto da masochista.


Bisognerebbe dirsi e ripetersi che tutto quanto ci allieta o affligge corrisponde a niente, che tutto è perfettamente derisorio e vano.
...Ebbene, ogni giorno me lo dico e me lo ripeto, eppure continuo ad allietarmi e ad affliggermi.