domenica 17 aprile 2011

A spasso con Heidegger - part 2

Dopo il precedente post con cui ho cercato di introdurvi il più semplicemente possibile in quel affascinante labirinto che è "Essere e tempo", proseguiamo a spasso con Heidegger. Ci eravamo lasciati con tanti interrogativi; vediamo allora di rispondere ad uno ad uno introducendo nuovi elementi dell'analitica heideggeriana.

Dopo aver constatato che nell'esistenza quotidiana, ovvero nel dominio della sfera del Si, non si concretizza altro che un appiattimento logorante di ciascun individuo, inconsciamente assorbito dai meccanismi della quotidianità, ci siamo chiesti perché l'Esserci (ovvero quell'ente che noi tutti siamo) non si sottrae a tutto ciò. La risposta è semplice quanto inquietante. Perché proprio attraverso quell'essere nel mondo all'insegna della banalità, della routine fatta di giorni scanditi da momenti, abitudini e attività sempre uguali (e quando Heidegger esprime ciò definendo il nostro domani come "un eterno ieri" possiamo toccare con mano quel rivolo di poesia che scorre anche nella filosofia) noi ci sentiamo tranquilli e protetti. Trascorriamo la gran parte della nostra esistenza facendo ciò è meglio che si faccia; non abbiamo tempo per soffermarci un attimo a pensare qualcosa di più profondo rispetto a "cosa mi magno stasera?" o "cosa c'è in TV?".

Scherzi a parte (che poi tanto scherzi non sono), con questo non voglio demonizzare la quotidianità. Commetterei un grave errore che ogni fedele heideggeriano non finirebbe mai di rinfacciarmi. Infatti, come predica Heidegger, sarebbe impossibile decidere di sfuggire da questa dimensione della nostra esistenza, dato che essa è pur sempre una possibilità strutturale del nostro essere. Ovvero, fa parte di noi disperderci, distrarci, diventare dei piccoli "automi" al servizio del nostro capo/manager/cliente/amico/fidanzata e quant'altro. Ma se la quotidianità costituisce gran parte della nostra esistenza, come possiamo diventare consapevoli di ciò? E, dopo esserne diventati consapevoli, cosa fare per ottenere la tanto agognata autenticità o, se siete amanti del lessico filosofico, dell'essere?

Secondo Heidegger, l'unico modo di sottrarsi al nostro inevitabile decadimento è reso possibile da alcuni improvvisi e particolari "stati d'animo". In "Lettera sull'umanismo" il filosofo ne elenca alcuni come la noia e, non vorrei sbagliarmi, anche l'amore; ma in "Essere e tempo" lo stato d'animo rivelatore è quello dell'angoscia. Heidegger spiega meglio come intende l'angoscia distinguendola dalla paura. Nonostante entrambe possano essere pensate come una fuga, l'angoscia è diversa dalla paura per il davanti-a-che si fugge: qualcosa di minaccioso, ma di ben determinato (es: un leone voglioso di assaporare le vostre carni) nel caso della paura; il nostro essere-nel-mondo nell'indeterminatezza di ciò che potrà essere nel caso invece dell'angoscia. Nell'angoscia propriamente noi non fuggiamo da nulla perché tutto ci appare così privo di senso e importanza al punto tale da svanire. Non restiamo che noi. Soli con noi stessi. Abbandonati, anzi, a noi stessi in quanto gettati-nel-mondo (tranquilli, l'abuso di trattini non è dovuto a qualche patologia ma è per trasporre le cruciali definizioni esistenziali heideggeriane). L'angoscia non può essere prevista: essa ci appartiene dal primo istante della nostra esistenza, in quanto fin dal nostro primo respiro noi siamo gettati nel "nulla" della nostra esistenza. E qui il nulla non allude ad una svalutazione del valore della vita, bensì al fatto che non siamo a fondamento della nostra esistenza: non possiamo scegliere quando e come nascere; non sappiamo neanche quale e se ci sia un perché della nostra esistenza; non ci è dato sapere quando, come e perché torneremo a questo nulla da cui siamo spuntati.

Sento già l'eco dell'apparentemente ingenua domandina di fronte alla quale però filosofi di tutti i tempi sono impalliditi o hanno reagito sdegnosamente (argomentando che la filosofia non si "può sporcare così le mani" ecc. ecc.): ok, stando così le cose, che cosa ci resta da fare?

Heidegger, con quella sfrontatezza teutonica che contraddistingue ogni sua pagina, ci risponde. E lo fa collegandosi proprio a quell'ultima constatazione che abbiamo fatto a proposito della fine della nostra esistenza, cioè la morte. Prima che iniziate a fare gli scongiuri e a toccare ferro, è necessario spiegare questa particolare scelta heideggeriana. Abbiamo visto, a proposito della quotidianità, come uno dei problemi fosse quello che in essa l'Esserci non si pone minimamente il problema della sensatezza della propria esistenza perchè troppo "preso" da altri o da altro. Dunque, il cammino lungo le vie dell'essere e dell'autenticità non può che essere un cammino da intraprendere da soli. In questo l'angoscia ci dà una grossa mano, facendo non solo "scomparire" tutto ciò che ci circonda, ma aprendoci anche la possibilità di dirigere il nostro pensiero alla nostra morte, ovvero verso l'essere-per-la-morte. Tranquilli, non intendo invitarvi al suicidio. Anzi col suicidio, per dirla con Heidegger, ci resterebbe fatalmente precluso il senso della morte "naturale" che incombe su di noi e può arrivare in qualsiasi momento, senza che noi possiamo farci nulla.

Per evitare simili fraintendimenti e chiarire come pensare la morte, Heidegger fa alcuni esempi pratici riferendosi alla morte come fine, ossia acquisizione di un resto, riempimento di una mancanza, raggiungimento della completezza. Tutti questi significati si rivelano insufficienti per Heidegger, dato che con essi non si fa altro che reiterare quella logica matematico-calcolante con cui affrontiamo le questioni di tutti i giorni. La morte, allora, deve essere pensata come la possibilità suprema della nostra esistenza, o come la possibilità dell'impossibile (dato che dopo di essa non ci siamo più). Solo tenendo sempre presente questo limite invalicabile nelle nostre riflessioni e decisioni potremo, secondo Heidegger, rivolgere le nostre energie a ciò che più conta e smettere di inseguire infinitamente progetti, come se dovessimo esistere in eterno. Certo, anticipare, precorrere in un simile modo la possibilità ed il senso della morte in ogni nostra azione vuol dire fare una vita pesante, difficile, angosciante. Ma siamo sicuri che l'altra alternativa di cui disponiamo (la prigione falsamente dorata del Si) sia tanto meglio? Heidegger scalpita per risponderci: "L'anticipazione della morte svela all'Esserci la dispersione nel Si stesso e, sottraendolo ad esso, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: la LIBERTA' PER LA MORTE".