lunedì 14 novembre 2011

Pensatori disonesti: Michelstaedter

Una storia sbagliata: è quella di un ragazzo ventitreenne che decide di suicidarsi appena dopo aver consegnato la propria tesi di laurea in filosofia. No, tranquilli, non si tratta del sottoscritto (altrimenti vi starei scrivendo dall’oltretomba), bensì di Carlo Michelstaedter. Un giovane che ha sofferto in prima persona i turbamenti dei giovani, lo definisce Campailla nell’introduzione alla Persuasione e la Rettorica, titolo della sua tesi di laurea. Sono stati proprio i profondi turbamenti michelstaedteriani che mi hanno convinto a dedicargli questa prima ‘puntata’ dei pensatori disonesti perché troppo onesti, nel senso che non ci dicono quello che solitamente vorremmo sentirci dire. Il precedente intervento si era focalizzato sul nostro smisurato bisogno di rassicurazioni e, come presto vedrete, in Michelstaedter troveremo delle importanti risposte.

So che voglio e non ho cosa io voglia. La nostra vita è una continua mancanza: né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, chè tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. L’uomo vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il possesso di sé stesso: ma quanto vuole dal futuro sfugge a sé stesso in ogni presente. Così si muove: continuando nel tempo.

[…] Dalla relazione con la cosa egli non trae solo il possesso, bensì la sicurezza della propria vita – ma anche questa è in breve cerchia finita: così mentre il possesso della cosa gli sfugge, gli sfugge anche la padronanza della propria vita, che non può affermarsi infinitamente, ma solo in rapporto alla propria cerchia finita; che non può riposare nell’attualità, ma è trascinata dal tempo ad affermarsi nei limiti dati sempre avanti. Così il suo piacere è contaminato da un sordo e continuo dolore la cui voce è indistinta, che la sete della vita, nel giro delle determinazioni reprime. Gli uomini hanno paura del dolore e per sfuggirlo gli applicano come empiastro la fede in un potere adeguato all’infinità della potenza ch’essi non conoscono, e lo incaricano del peso del dolore ch’essi non sanno portare.

[…] Il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare, esser nati non è che voler continuare: gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte. Così che se si fa loro certa la morte in un certo futuro – si manifestano già morti nel presente. Chi teme la morte è già morto.



Volendo sintetizzare, la nostra esistenza presenta, secondo Michelstaedter, un vizio di forma: quanto più ci affatichiamo per dirigerne l’esito, fissando in cose esterne l’obiettivo dei nostri desideri (relazioni sentimentali, gratificazioni professionali, ricchezze ecc), tanto più esse ci sfuggiranno. Il nostro conseguente senso di incompiutezza dovuto a questa condizione in cui siamo gettati è il dolore. Ma il dolore, ben lungi dall’essere qualcosa da cui scappare vilmente, ci parla, secondo Michelstaedter. E solo ascoltando ciò che esso ci dice potremo toccare con mano quell’unica gioia che ci è concessa: essere liberi.

Tuttavia, gli uomini non riescono a rendersene conto e, per questo, scelgono di nascondersi in quei piccoli rifugi preparati per loro da qualcun altro. Così, deleghiamo ad altri le redini della nostra esistenza, facendo fiorire ideologie politiche, dottrine religiose o buttandoci a capofitto nelle vertiginose ascese e discese di una carriera lavorativa. Michelstaedter, ben consapevole del pericolo di tutto questo, cioè di un totale azzeramento dell’unicità di ogni singolo uomo e della mortificazione di quella tensione vitale che anima ciascuno di noi, ci esorta a svegliarci, prima che sia troppo tardi.

Negli uomini la voce del dolore è troppo forte. Essi non sanno più sopportarla con tutta la loro persona. Guardano dietro a sé, guardano intorno a sé, e chiedono una benda agli occhi, chiedono di essere per qualcuno, per qualche cosa, chè di fronte alla richiesta del possesso si sentivano mancare. Di essere qualcuno e per qualche cosa persona sufficiente con la loro qualunque attività, perché la relazione si possa ripetere nel futuro; perché il correlato sia per loro sicuro nel futuro. La loro potenza si finge finita, finito il possesso che volevano; la loro volontà persuasa nella qualunque attualità che si ripete.

[…] Egli si vuol ‘costruire una persona’ con l’affermazione della persona assoluta che egli non ha: è l’inadeguata affermazione d’individualità: la rettorica.
Gli uomini parlano, parlano sempre e il loro parlare chiamano ragionare, ma qualunque cosa uno dica non dice, ma attribuendosi voce a parlare si adula. Così insieme ripetono: ‘noi siamo, noi siamo, perché sappiamo, perché possiamo dirci le parole del sapere, della conoscenza libera e assoluta’. Così si stordiscono l’un altro.

[…] Ma non fai niente, non sai niente, non dici niente, fosse anche la via dove credi di trovarti la via del più saggio uomo sulla terra. Non c’è cosa fatta, non c’è via preparata, non c’è modo o lavoro finito per quale tu possa giungere alla vita, non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c’è ma devi crearla, devi crear il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la tua vita. Ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l’indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé: la vira della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato.



Tuttavia, Michelstaedter sa di non potersi illudere con una consolatio finale e intuisce che l’eco di questo suo grido sofferente sarà destinato a cadere nel vuoto nell’Italia della prima metà del Novecento, troppo presa da effervescenze ideologiche e futuristiche. Così, nello sguardo che Michelstaedter getta sui propri contemporanei e nelle previsioni che ne fa sul loro futuro si rivelerà ben più che profetico.


La rettorica organizzata a sistema, nutrita dal costante sforzo dei secoli – fiorisce al sole, porta i suoi frutti e benefica i suoi fedeli. – Ed altri ne porterà in futuro. Il νεΐκος [lotta] avrà preso l’apparenza della φιλία [amicizia] quando ognuno, socialmente ammaestrato, volendo per sé vorrà per la società, che la sua negazione degli altri sarà affermazione della vita sociale.- Così ogni atto dell’uomo sarà la rettorica in azione, che oscuro per lui stesso gli darà quanto gli serva.

Il danaro, il mezzo attuale di comunicazione della violenza sociale per cui ognuno è signore del lavoro altrui: il ‘concentrato di lavoro’, il ‘rappresentante di diritto’, la fascia di trasmissione fra le ruote della macchina – sarà come divinità assunto in cielo, diventerà del tutto nominale, un’astrazione, quando le ruote saranno così ben congegnate che ognuna entrerà nei denti dell’altra senza bisogno di trasmissione.

La lingua arriverà al limite della persuasività assoluta, quello che il profeta raggiunge col miracolo, - arriverà al silenzio quando ogni atto avrà la sua efficienza assoluta. Ma se a uno di questi poveri rimasugli d’umanità in un giorno di sole verrà un brivido di vita, quasi una reminiscenza attraverso i tempi al suo tardo cervello – e s’indugerà sul manubrio della sua macchina turbato, e s’allontanerà dal lavoro, - il compagno avrà poca pena a farlo rinsavire. ‘Vieni’, gli dirà, ‘è il tuo dovere morale!’. L’altro capirà subito: ‘è il pane’, e andrà al lavoro con la testa bassa. Καλλωπίσματα όρφνης: ‘ornamenti dell’oscurità’! – Prima di giungere al regno del silenzio ogni parola sarà un ‘ornamento dell’oscurità’: un’apparenza assoluta, un’efficacia immediata d’una parola che non avrà più contenuto che il minimo oscuro istinto di vita. Tutte le parole saranno termini tecnici quando l’oscurità sarà per tutti allo stesso modo velata, essendo tutti gli uomini allo stesso modo addomesticati. Gli uomini parleranno, ma ουδέν λέξουσιν ‘non diranno nulla’. […] Temo che gli uomini siano sì bene incamminati, che non verrà loro mai il capriccio di uscir da questa tranquilla e serena minor età.


giovedì 3 novembre 2011

Pensatori disonesti

Leggendo gli Aforismi dell’Amarezza di Cioran pensavo, totalmente assorto dalla tensione autodistruttiva della sua riflessione, al fatto che stentiamo a renderci conto della potenza del nostro pensare. Sono sempre più convinto che il pensiero sia una droga: bisogna saperlo dosare, altrimenti si può restarne fregati. Beata ignorantia si suol dire e forse non a torto: se dovessimo fare un calcolo puramente utilitaristico, senza dubbio gettare lo sguardo sui nostri abissi (tanto cari a Nietzsche) non potrà mai essere conveniente e comodo quanto tirare avanti a campare. Eppure non riusciamo a farne a meno: dobbiamo razionalizzare tutto, abbiamo un bisogno insaziabile di certezze e di rassicurazioni che soltanto l’armonia di un sistema (che sia filosofico, religioso, politico-ideologico non cambia la sostanza) riescono ad acquietare, anche se provvisoriamente.


Di tutto questo ne era consapevole anche Henri-Louis Bergson che, nella sua ultima opera, Le due fonti della morale e della religione, scrive:

L’uomo è il solo animale la cui azione sia malsicura, che esiti e vada a tentoni, che formuli dei progetti con la speranza di riuscire e il timore di fallire. È il solo che si senta soggetto alla malattia, e il solo che sappia di dover morire. Il resto della natura vive in una perfetta tranquillità. Inoltre, di tutti gli esseri che vivono in una società, l’uomo è il solo che possa deviare dalla linea sociale, cedendo alle preoccupazioni egoiste, quando il bene comune è in causa. Questa duplice imperfezione è il prezzo dell’intelligenza. L’uomo non può esercitare la sua facoltà di pensiero senza rappresentarsi un avvenire incerto, che ridesti il suo timore o la sua speranza. Non può riflettere su ciò che la natura gli domanda, in quanto essa ha fatto di lui un essere socievole, senza dirsi che potrebbe trovare spesso il suo tornaconto nel trascurare gli altri, nell’occuparsi solo di se stesso. E tuttavia la natura ha voluto l’intelligenza, l’ha posta come approdo di una delle due grandi linee dell’evoluzione animale, per far da contrappeso all’istinto più perfetto, punto terminale dell’altra. Ed è impossibile che essa non abbia preso le sue precauzioni affinchè l’ordine, appena turbato dall’intelligenza, tenda a ristabilirsi automaticamente. Di fatto, la funzione fabulatrice, che appartiene all’intelligenza e che tuttavia non è pura intelligenza, ha precisamente questo obiettivo. Essa è una reazione difensiva della natura contro ciò che potrebbe esservi di deprimente per l’individuo, e di disgregatore per la società nell’esercizio dell’intelligenza’.


Bergson svilupperà questo tema in una direzione forse troppo distante dall’economia del nostro discorso, ovvero in un’esaltazione della vita del mistico (per es. Gesù Cristo, Socrate, Buddha), inteso come figura esemplare di comportamento in grado di attirare non solo l’attenzione e la fiducia degli uomini, ma anche di innalzarli dal mero interesse individuale ad un afflato amoroso verso l’intera comunità umana. Ma ciò che mi interessava sottolineare citando Bergson è che, per fortuna o purtroppo, non siamo delle macchine perfette ed unidirezionali; ed oltre a ciò di cui abbiamo parlato come la giustizia, l’amore, la verità, il senso del bello c’è dell’altro in noi. Si tratta di qualcosa che non vogliamo prendere in considerazione perché, come dicevamo prima, temiamo cosa potremmo scoprire: allora scegliamo di prendere la via di fuga. E specialmente la filosofia ha spesso battuto questa strada: si tratta di quelle filosofie, agli occhi di Cioran, troppo sopportabili, ovvero quelle dottrine che ci forniscono una visione rassicurante della realtà ed un modello ideale dell’uomo improntato sul suo dover-essere anziché sul suo essere. Per questo mi propongo l’ardito compito, dal prossimo intervento, di fare le veci dell’indagatore dell’incubo, ovvero di perlustare, accompagnato dalle autorevoli guide che selezionerò di volta in volta per voi, il lato oscuro della forza.