giovedì 15 dicembre 2011

P come Perversione

Quest'intervento è tristemente suggerito da una tremenda strage che è solo l'ultima di una lunghissima serie. Solitamente, quando si cerca di comprendere il motivo di una simile follia, ci si sente rispondere che si trattava di un "pazzo isolato", il cui gesto è inutile da comprendere. Così facendo, però, lo spazio per una riflessione che cerchi di andare alle radici di un evidente disagio che serpeggia nella nostra progredita e acculturata civiltà si contrae sempre più. Per tentare allora di fare un po' di luce in questa fitta ombra mi sono rivolto ad uno scrittore che come pochi è riuscito ad analizzare e narrare i nostri (ben radicati) demoni: Edgar Allan Poe. La riflessione che vi propongo è presente nel racconto intitolato "Il demone della Perversione".


Esiste nell’uomo una propensione primitiva e inalienabile, che tuttavia è stata ignorata da moralisti e filosofi. Tutti noi, per arroganza della ragione, l’abbiamo trascurata. L’idea di questa tendenza non ci è mai venuta proprio per la sua stessa evidenza. Non si può negare che ogni tipo di metafisica sia stata costruita a priori. L’uomo intellettuale e logico, più che l’uomo intelligente e osservatore, ha provato a immaginare grandi disegni, addirittura a suggerire a Dio delle finalità. Avendo in tal modo scandagliato, con sua grande soddisfazione, le proprie intenzioni, sulla base di queste ha costruito i suoi innumerevoli sistemi mentali.


[…] Sarebbe stato più saggio e più sicuro classificare sulla base di quello che l’uomo normalmente e occasionalmente ha fatto, e sempre occasionalmente continua a fare, piuttosto che sulla base di quanto si pensava egli dovesse fare. L’induzione a posteriori ci potrebbe condurre ad ammettere, come innato e primordiale principio delle azioni umane, un qualcosa di paradossale che, per ora, possiamo definire come perversione, in mancanza di un termine migliore. Nel senso che gli attribuisco io questo è di fatto un mobile senza movente, un motivo non motivato. Sotto il suo impulso noi agiamo senza uno scopo apparente, oppure, se questo ci può sembrare una contraddizione, possiamo affermare che a causa di questi impulsi, noi agiamo per la ragione che non dovremmo. In teoria non c’è ragione più irragionevole, eppure non ce n’è, di fatto, una più forte e, per alcune menti in determinate condizioni, questa diviene assolutamente irresistibile.


[...] Questa incontenibile tendenza a fare il male solo per il gusto di farlo, non ammette altri elementi di analisi o altre soluzioni: è un impulso radicale primitivo ed elementare. Nessuno che consulti lealmente e interroghi a fondo la propria anima, sarà disposto a negare la radicalità della propensione di cui parliamo. Essa è tanto incomprensibile quanto spiccata. L’impulso diventa subito volontà, la volontà desiderio e il desiderio incontrollabile anelito, anelito a cui ci si abbandona a dispetto di tutte le possibili conseguenze.


Abbiamo di fronte un compito che dobbiamo eseguire prontamente, la più importante crisi della nostra vita ci richiede un’azione immediata. Bisogna cominciare oggi, eppure rimandiamo a domani. Ma perché? Non sappiamo rispondere, se non dicendo che ci sentiamo perversi, usando questa parola senza capirne il senso. Il momento ultimo per agire è vicino. La violenza del conflitto che è in noi ci fa tremare, la battaglia del definito con l’indefinito, della sostanza con le ombre, ma se la contesa è stata rimandata così tanto alla fine è l’ombra che vince. Lottiamo invano.


[...] Siamo in piedi sull’orlo di un baratro, gettiamo uno sguardo giù nell’abisso e ci sentiamo sofferenti e storditi. Il primo impulso è quello di scappare, evitare il pericolo, ma senza motivi apparenti restiamo. Pian piano il nostro malessere, lo stordimento e il terrore si confondono in una massa indefinita di sensazioni. A poco a poco, sempre più impercettibilmente, questa nuvola prende forma. È solo un pensiero, anche se così spaventoso da farci rabbrividire fino al midollo delle ossa grazie al fascino feroce del suo orrore. È solo una pallida idea di quello che sentiremmo veramente nella rovinosa caduta da una altezza così alta. Questo cadere, questo travolgente annullarsi suscita le più odiose e terribili tra tutte le immagini della morte e della sofferenza che mai siano arrivate ad affacciarsi alla nostra fantasia. Ma è proprio per questo motivo che noi lo vogliamo, ancor più intensamente.


La ragione cerca in ogni modo di tenerci lontani dal baratro, ma proprio per questo noi inesorabilmente ci avviciniamo. In natura non esiste una passione più diabolicamente impaziente di quella di chi, tremando sull’orlo di un baratro, pensa di lanciarsi. Se ci fermiamo a pensare, anche solo per un istante, siamo perduti. Perché la riflessione ci spinge a ritrarci e, proprio per questo, ripeto, non la possiamo ascoltare. Se non c’è un braccio amico che ci trattenga o se non siamo noi stessi in grado di ritrarci dall’abisso, ci lanciamo a capofitto e siamo finiti. Al di là o al di qua di questa spiegazione non ne esistono altre plausibili. E potremmo anche pensare che questa perversità sia provocata direttamente dall’Arcinemico, se solo non capitasse che, qualche volta, siamo spinti a agire per il bene.