lunedì 25 giugno 2012

A Victor Eremita

“Non ci si apparta dal mondo per fuggirlo, ma per conquistarlo da lontano. I solitari sono virtualmente dei conquistatori. Non si evitano gli altri per farsi dimenticare, ma per farsi valere”, scriveva Cioran. E questo vale a maggior ragione per chi, come Søren Kierkegaard, un po’ per gioco, un po’ per la necessità di nascondersi dalle facili indignazioni dei suoi contemporanei benpensanti, aveva indossato lo pseudonimo filosofico di Victor Eremita. Per chi non ha ancora avuto l’ardire di addentrarsi in quel gioco di specchi qual è Enten - Eller (opera meglio nota col titolo di Aut-Aut), parole come quelle pronunciate da Camus sul filosofo danese suoneranno come una musica irresistibilmente seducente, al pari del Don Giovanni mozartiano tanto ammirato ed esaltato dallo stesso Kierkegaard all’interno della suddetta opera. Così Camus:

“Kierkegaard fa qualche cosa di meglio che scoprire l’assurdo: lo vive. L’uomo che scrive: ‘Il più sicuro dei mutismi non è quello di tacere, ma di parlare’, si accerta, per cominciare, che nessuna verità è assoluta e può rendere soddisfacente un’esistenza impossibile in sé. Don Giovanni della conoscenza, egli rifiuta ogni consolazione, la morale, i principi tranquillizzanti; non si cura di sopire il dolore di quella spina che sente nel cuore, ma lo ridesta, invece, e nella gioia disperata di uno crocifisso, contento di esser tale, costruisce, frammento per frammento, lucidità, rifiuto, commedia, una categoria del demoniaco. […] L’importante non è guarire, ma vivere con i propri mali. Kierkegaard vuole guarire. Guarire è il suo desiderio pazzo, quello che ricorre in tutto il suo diario. Tutto lo sforzo della sua intelligenza è sfuggire l’antinomia della condizione umana, sforzo tanto più disperato, in quanto egli, a lucidi intervalli, ne scorge la vanità, quando ne parla, come se né il timor di Dio né la pietà fossero capaci di dargli la pace”.

A me non resta che lasciarvi nelle mani kierkegaardiane e, più in particolare, ad alcuni pensieri tratti da Διαψάλματα, ad se ipsum.


Preferisco parlare con i bambini, perché di loro si può sperare che diventeranno esseri ragionevoli; ma coloro che lo sono diventati…Buon Dio!


Non ho voglia di nulla. Non ho voglia di cavalcare, è un moto troppo violento; non ho voglia di camminare, è troppo faticoso; non ho voglia di distendermi, perché o dovrei restare in tale posizione, e non ne ho voglia, o dovrei di nuovo alzarmi, e non ne ho voglia nemmeno. Summa summarum: non ho voglia di nulla.


Com'è noto, ci sono insetti che muoiono all’istante della fecondazione. Lo stesso per ogni gioia: il momento del più alto godimento della vita è accompagnato dalla morte.


Solo attraverso il peccato si scorge la salvezza.


La mia melanconia è l’amante più fedele che abbia conosciuto. E che c’è da meravigliarsi se a mia volta l’amo?


Ci sono casi in cui può essere infinitamente triste vedere una persona starsene al mondo tutta sola. Così l’altro giorno vidi una povera fanciulla che se ne andava tutta sola in chiesa per essere cresimata.


Io lamento che la vita non sia come le favole, ove s’ha da combattere contro padri dal cuore di pietra, contro folletti e orchi, ove s’hanno da liberare principesse incantate. Che cosa sono tutti questi nemici presi assieme, di fronte a quelle figure notturne, pallide, esangui, dure a morire, con le quali combatto e alle quali io stesso do vita e sussistenza?


Che succederà? Che riserva il futuro? Non lo so, non presento nulla. Quando un ragno si slancia giù da un punto saldo nei suoi punti conseguenti, innanzi a sé vede sempre uno spazio vuoto dove, nonostante i suoi sforzi, gli è impossibile trovare appoggio. Così per me: innanzi sempre uno spazio vuoto, e quel che mi spinge è un conseguente che sta dietro di me. Questa vita è spaventosamente al rovescio, è insopportabile.


Mi manca insomma la pazienza di vivere. […] Si dice che nostro Signore sazi lo stomaco prima degli occhi, ma non lo posso provare: i miei occhi sono sazi e stanchi di tutto, eppure ho fame.


Mi si domandi tutto quel che si vuole, solo non mi si domandino ragioni.


La vita è diventata per me una bevanda amara, e tuttavia la devo ingerire a gocce, lentamente, contando. 


Non bisogna essere enigmatici solo per gli altri, ma anche per se stessi. Io studio me stesso; quando ne sono stanco, come diversivo mi metto a fumare un sigaro, e penso a chissà che cosa nostro Signore ha voluto propriamente dire con me, o a che cosa da me vuole tirar fuori.


Si lamentino gli altri che questa è un’epoca malvagia; io mi lamento che è meschina, poiché è priva di passione. I pensieri degli uomini sono sottili e fragili come merletti, destano pietà come le merlettaie. I pensieri dei loro cuori sono troppo poveri per essere peccaminosi. Forse per un verme potrebbe essere peccato avere pensieri come questi; non per un uomo, che è creato a immagine di Dio. I loro desideri sono composti e apatici, le loro passioni sonnolente; fanno il loro dovere queste anime mercenarie, ma pure si permettono, come gli ebrei, di taglieggiare un pochino sulla moneta, pensano che se anche nostro Signore tiene un registro ben ordinato, con un po’ d’inganno ce la si può sempre cavare. Questa gente… Puah! Ecco perché la mia anima ritorna sempre al Vecchio Testamento e a Shakespeare. Là almeno si sente che sono uomini quelli che parlano; là si odia, là si ama, s’uccide il proprio nemico, se ne maledice la discendenza per tutte le generazioni, là si pecca!


Così ripartisco il mio tempo: una metà dormo, l’altra metà sogno. Quando dormo, non sogno mai, sarebbe un peccato; poiché dormire è la più alta genialità.


La miglior prova della miseria dell’esistenza è quella che si ricava dalla considerazione della sua magnificenza.


Infame sorte! Invano come una vecchia prostituta tenti d’imbellettare il tuo volto incavato, invano fai chiasso con i tuoi sonagli da buffone. M’annoi! Tutto resta tale e quale, un idem per idem. Nessun mutamento, sempre una rifrittura. Venite sonno e morte, tu non prometti nulla, tu tieni tutto.


Sembro destinato a provare tutti gli stati d’animo possibili, a fare esperienza in tutti i sensi. Ad ogni istante sono come un bimbo che debba imparare a nuotare in mezzo al mare. Grido (l’ho imparato dai greci, dai quali si può imparare ciò che è puramente umano); poiché alla vita ho ben una cinghia, ma non vedo l’asta che mi deve tener su. È un terribile modo di fare l’esperienza.


Quel che i filosofi dicono della realtà spesso è deludente, come quando da un rigattiere si legge su un’insegna la scritta Qui si stira. Se si venisse a far stirare il proprio abito, si resterebbe ingannati, poiché l’insegna è semplicemente in vendita.


Il vero godimento non sta in ciò che si gode, ma nella rappresentazione. Se avessi al mio servizio uno spirito ossequioso che, alla richiesta d’un bicchier d’acqua, mi portasse i più preziosi vini del mondo squisitamente mescolati in una coppa, lo metterei alla porta, fino a quando non imparasse che il mio godimento non sta in ciò che godo, ma nell’ottenere ciò che voglio.


Più innanzi negli anni, quando aprii gli occhi e considerai la realtà, mi misi a ridere, e da allora non ho più smesso. Vidi che il senso della vita era l’avere un impiego, il suo fine diventare consigliere della corte di cassazione; che la fertile passione dell’amore era trovare una fanciulla benestante; che il bene supremo dell’amicizia era l’aiutarsi a vicenda negli imbarazzi finanziari; che la saggezza era quello che pensavano i più; che l’estro era tenere un discorso; che il coraggio era rischiare una multa di dieci ristalleri; che la cordialità era chiedere ‘pranzato bene?’ lasciando la tavola; che il timor di Dio era fare la comunione una volta l’anno. Questo io vidi, e risi.


Son legato in una catena che è fatta d’oscure fantasie, d’angosciosi sogni, d’inquieti pensieri, di paurosi presentimenti, d’inspiegate angosce. Questa catena è ‘molto flessibile, morbida come seta, sopporta la tensione più violenta e non può essere spezzata’.


C’è ancora una prova dell’esistenza di Dio che fin qui è stata trascurata. La dà un servo ne Il cavaliere di Aristofane, vv. 32 sgg.:
Demostene: ‘Quale idolo? Perché, credi agli dei?’
Nicia ‘Si, ci credo’
D: In base a quali prove?
N: Perché sono perseguitato dagli dei. Non ho ragione?
D: M’hai convinto.


Il sole irraggia così bello e vivo nella mia camera, la finestra di quella accanto è aperta; nella strada tutto è tranquillo, è domenica pomeriggio. Sento distintamente un’allodola che in un giardino vicino emette i suoi trilli, di fronte alla finestra dove abita la leggiadra fanciulla. Lontano, da una strada remota, sento i richiami di un venditore di gamberi. L’aria è così calda, eppure la città intiera è come morta... Allora mi rammento della mia giovinezza e del mio primo amore… Allora mi struggevo dal desiderio, ora mi struggo solo dal desiderio del mio primo desiderio… Che cos’è giovinezza? Un sogno. Che cos’è l’amore? Il contenuto del sogno.