mercoledì 5 settembre 2012

De egoismus - pt. 1

Per stemperare la massiccia dose di proto-comunismo platonico propostovi nell’intervento precedente, oggi mi tocca parlarvi di un vero e proprio biscazziere della filosofia: Max Stirner. Strano destino il suo. Nonostante dalla sua unica opera, intitolata appunto L’Unico e la sua proprietà (1844), avessero attinto a piene mani due istituzioni dell’Ottocento come Nietzsche e Dostoevskij, nessuno gli riconobbe il proprio debito intellettuale, abbandonando Stirner ad un lungo isolamento, brevemente interrotto soltanto dalle beffe che di lui se ne fecero Marx ed Engels. A ciò bisogna aggiungere la paradossale investitura ideologica che di Stirner si fece negli ambienti anarco-insurrezionalisti del Novecento. Paradossale perché, sebbene sia innegabile una certa affinità tra le istanze anarchiche e le idee di Stirner, a quest’ultimo non interessò mai dar vita ad un’ideologia o mettersi a capo di qualche scuola di pensiero, preso com’era da quello che Abbagnano definisce il suo “egoismo assoluto. L’individuo – prosegue Abbagnano -, proprio nella sua singolarità, per la quale è unico e irripetibile, è la misura di tutto. Subordinarlo a Dio, all’umanità, allo spirito, a un qualsiasi ideale, sia pure a quello stesso dell’uomo, è impossibile, giacché tutto ciò che è diverso dall’io singolo, ogni realtà che si distingua da esso e gli si contrapponga, è uno spettro, di cui egli finisce per essere schiavo”.

Ma violiamo per un attimo i polverosi sigilli della più forte “polizia filosofica”, ovvero l’indifferenza, ed addentriamoci ne L’Unico e la sua proprietà. Nel capitolo introduttivo, dall’eloquente titolo di Io ho fondato la mia causa sul nulla, Stirner scrive:


Che cosa non dev’essere mai la mia causa! Innanzitutto la buona causa, poi la causa di Dio, la causa dell’umanità, della verità, della libertà, della filantropia, della giustizia; inoltre la causa del mio popolo, del mio principe, della mia patria; infine, addirittura la causa dello spirito e mille altre cause ancora. Soltanto la mia causa non dev’essere mai la mia causa. “Che vergogna l’egoista che pensa soltanto a sé!”.
[…] Ma come stanno le cose per quel che riguarda l’umanità, la cui causa dovremmo far nostra? Forse che la sua causa è quella di qualcun altro? L’umanità serve una causa superiore? No, l’umanità guarda solo a sé, l’umanità vuol far progredire solo l’umanità, l’umanità è a se stessa la propria causa. Per potersi sviluppare, lascia che popoli e individui si logorino al suo servizio, e quando essi hanno realizzato ciò di cui l’umanità aveva bisogno, essa stessa li getta, per tutta riconoscenza, nel letamaio della storia. Non è forse la causa dell’umanità una – causa puramente egoistica?
[…] Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico”.


Sin qui ci siamo limitati a sintetizzare l’esplosiva pars destruens del pensiero stirneriano. Veniamo al suo sviluppo che, molto eufemisticamente, possiamo definire costruens. Nel capitolo L’individualità propria Stirner così ci ammonisce:


Millenni di civiltà hanno oscurato ai vostri occhi ciò che voi siete, vi hanno fatto credere di non essere egoisti, ma di essere invece chiamati a diventare idealisti (‘uomini dabbene’). Scuotetevi di dosso queste idee! Non cercate la libertà che vi deruba di voi stessi con l’’abnegazione’, ma cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga un io onnipotente! O più chiaramente: tornate finalmente a riconoscere voi stessi, riconoscete infine ciò che siete veramente e lasciate correre le vostre aspirazioni ipocrite, la vostra stolta mania di essere qualcos’altro da ciò che siete. Parlo d’ipocrisia perché nonostante tutto voi siete rimasti, per tutti questi millenni, egoisti, ma egoisti addormentati, ingannatori di sé, alienati da sé, eautontimorùmenoi, fustigatori di sé. […] Ma siccome si tratta di un egoismo che non volete confessare neppure a voi stessi, che nascondete a voi stessi, insomma di un egoismo non aperto o manifesto, ma inconsapevole, non è in fondo egoismo, ma schiavitù, servitù, rinnegamento di sé.
[…] E non vi ribellate mai, sebbene vi si intenda sempre in modo diverso da come vorreste voi. No, voi ripetete sempre meccanicamente a voi stessi la domanda che avete sentito porre: ‘A che cosa sono chiamato? Che cosa devo fare?’. Basta che vi poniate queste domande e vi farete dire e ordinare ciò che dovete fare, vi farete prescrivere la vostra vocazione oppure ve la ordinerete e imporrete voi stessi secondo le direttive dello spirito. Ciò comporta, per quanto riguarda la volontà, questo atteggiamento: io voglio ciò che devo”.


Come un vero e proprio ‘demone’, Stirner ci esorta dunque a prenderci ciò che vogliamo, senza prestare attenzione ad alcun tipo di legge/istanza/voce a noi superiore perché un uomo non è ‘chiamato’ a nulla e non ha nessun ‘compito’, nessuna ‘vocazione’, così come una pianta o un fiore non hanno una ‘missione’. […] Io non sono un io accanto ad altri io, bensì l’io esclusivo: io sono unico. Perciò anche i miei bisogni sono unici e pure le mie azioni, insomma tutto di me è unico. E io mi approprio di tutto solo in quanto sono questo io unico, così come agisco e mi sviluppo sono in quanto tale: io non mi sviluppo in quanto uomo e non sviluppo l’uomo, ma, in quanto sono io, sviluppo – me stesso.
Questo è il senso dell’ – unico”.


Sin qui, in soldoni, il pensiero di Stirner. Adesso però vengono i dubbi. Se davvero seguissimo ogni nostro desiderio, che fine faremmo? Suscitiamo questa domanda non per fare uno scontato moralismo, ma proprio partendo dalla prospettiva eminentemente egoistica tanto cara a Stirner. Se qualcosa abbiamo imparato da Freud è stata proprio la necessità di diffidare di noi stessi e di alcuni nostri impulsi che, se assecondati incondizionatamente, ci porterebbero alla distruzione, o per mano nostra o altrui. Ma prima ancora di Freud era stato Hobbes ad impartirci questa lezione col suo celeberrimo homo homini lupus. Abbandonandosi alla cieca istintualità, gli individui non esiterebbero a distruggersi a vicenda, in una vera e propria guerra di tutti contro tutti. Così, ipotizza Hobbes, per evitare una condizione di perenne conflittualità e paura, i singoli uomini stringono tra loro un patto, rinunciano a buona parte delle loro pretese e riconoscono la proprietà altrui, pur di assicurarsi una garanzia reciproca di sopravvivenza: nasce la società.


Sembrerebbe a questo punto che la nostra mini-ricerca sull’egoismo sia destinata ad arenarsi contro gli scogli di un insormontabile aut-aut esistente tra ciò a cui l’individuo aspira e le istanze della società. Tuttavia, come vedremo prossimamente, il contrasto non è così netto come appare. Intanto accontentiamoci di aver compiuto con Stirner un salutare richiamo al nostro sacrosanto diritto di essere egoisti.