mercoledì 11 dicembre 2013

Speleologie musicali

Cos'è musica? Vera musica è quella che riesce a scalfire, seppur momentaneamente, le redini della ragione lasciandole l’impressione di essere ancora al comando.


- La musica è la migliore consolazione già per il fatto che non crea nuove parole. Anche quando accompagna delle parole, la sua magia prevale ed elimina il pericolo delle parole. Ma il suo stato più puro è quando risuona da sola. La si crede senza riserve, poiché ciò che afferma riguarda i sentimenti. Il suo fluire è più libero di qualsiasi altra cosa, e questa libertà, redime. Quanto più fittamente la terra si popola e quanto più meccanico diventa il modo di vivere, tanto più indispensabile deve diventare la musica. Verrà un giorno in cui essa soltanto permetterà di sfuggire alle strette maglie delle funzioni, e conservarla come possente e intatto serbatoio di libertà dovrà essere il compito più importante della vita intellettuale futura. La musica è la vera storia vivente dell’umanità, di cui altrimenti possediamo solo parti morte. Non c’è bisogno di attingervi, poiché esiste già da sempre in noi, e basta semplicemente ascoltare, perché altrimenti si studia invano. (E. Canetti, Massa e potere)


- La musica sembra a qualcuno un’arte primitiva, povera com’è di suoni e di ritmi. Povera è però solo la sua superficie, mentre il corpo, che consente l’interpretazione di quel contenuto manifesto, possiede la piena infinita complessità che troviamo indicata nell’aspetto esteriore delle altre arti, e che la musica cela. In un certo senso è la più raffinata di tutte le arti (L. Wittgenstein, Pensieri diversi)


La musica è una macchina per sopprimere il tempo. Al di sotto dei suoni e dei ritmi, la musica opera su un terreno grezzo, che è il tempo fisiologico dell’uditore; tempo irrimediabilmente diacronico in quanto irreversibile, e di cui la musica stessa tramuta però il segmento che fu dedicato ad ascoltarla in una totalità sincronica e in sé conchiusa. L’audizione dell’opera musicale, in forza dell’organizzazione interna di quest’ultima, ha quindi immobilizzato il tempo che passa; come un panno sollevato dal vento, l’ha ripreso e ripiegato. Cosicché, ascoltando la musica e mentre l’ascoltiamo, noi accediamo a una specie di immortalità. (C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto).


La musica bagna le coste del pensiero. Solo chi non ha una terraferma abita nella musica. La melodia più leggera, come la donna più leggera, risvegliano dei pensieri. Chi non ne ha li cerca nella musica e nella donna. (K. Kraus, Detti e contraddetti).



La musica ha importanza preponderante nell’educazione per il fatto che il ritmo e l’armonia penetrano profondamente nell’animo e lo toccano fortemente e la bellezza che ne consegue lo rende virtuoso, se uno è educato bene, altrimenti lo imbruttisce. Per questo, chi sia stato rettamente bene educato nella musica, si accorgerà prontamente delle cose fatte alla meglio o mal lavorate o nate difettose e giustamente se ne indignerà e loderà le belle, ne godrà e, accogliendole nell’animo suo, se ne nutrirà, divenendo bello e buono, mentre biasimerà le brutte e, fin da giovane, le odierà, prima ancora di farsene una ragione e quando poi la ragione sopravviene, chi così è stato educato, la accoglierà lietamente riconoscendola familiare. (Platone, Repubblica).


- Se il filosofo dice che nella natura animata e inanimata c’è una volontà che è assetata di esistenza, il musicista aggiunge: e questa volontà vuole, in tutti i gradi, un’esistenza sonora. (F. Nietszche, Scritti su Wagner)


Musica ed emozioni. Tanti insistono sull’effetto emotivo della musica per spiegare perché siamo attratti da essa. Senza dubbio, è questa una funzione propria della musica, ma è soltanto un aspetto accessorio. Ciò che ci attrae di essa è la possibilità di essere parte di un processo di ποιησις, ovvero alla costruzione di qualcosa di magnifico ma, allo stesso tempo, fragile e fugace, perché pronto a morire immediatamente dopo essere stato ascoltato.


Le melodie, mescolandosi alle lacrime, scorrono direttamente al cuore, lungo il vostro tessuto nervoso, e voi piangete non perché siete tristi, ma perché il cammino che conduce al vostro mondo interiore è stato colto in modo così esatto e penetrante. (B. Pasternak, Il salvacondotto)


Musica e società. ‘Scriviamo per non morire’ (Foucault). Questo vale ancor più per la musica. Non semplicemente perché il musicista ha interesse a lasciare una propria traccia o, ancor più semplicemente, per fama o denaro. Bensì perché il musicista, al pari dello scrittore, non può fare a meno di assecondare questo vitale bisogno di comunicare agli altri e, soprattutto, a se stesso. Essere artisti vuol dire com-prendersi attraverso la relazione con altro da sé (l’opera che una volta compiuta non è più nostra) e con gli altri. Suono per capire cosa sono.


Non si scrive un’opera semplicemente per il piacere di comunicarla ad alcuni amici, alcune persone interessate. Anche se a tutta prima sarebbe interessante farlo, in ciascuno di noi c’è questo desiderio di comunicare con molte persone, a prescindere dal numero e dalla circostanza, c’è un desiderio di essere compresi ed assimilati.
[…] Bisogna ricordare al compositore, a mio avviso, la sua responsabilità, non solo di fronte a un pubblico, per quanto sia ristretto, ma di fronte a se stesso, una responsabilità che lo porta a volgersi verso un pubblico sconosciuto, futuro, infinito, per assumerlo a testimonianza di questa responsabilità. (P. Boulez, Per volontà e per caso)


La gente crede oggi che gli uomini di scienza siano lì per istruirti, e i poeti e i musicisti ecc., per rallegrarti. Che questi ultimi abbiano qualcosa da insegnare, non le viene proprio in mente. (L. Wittgenstein, Pensieri diversi).



Musica e piacere.  Una ‘buona’ musica non deve necessariamente destare in noi sintomi di piacere o di benessere. Altrimenti ci rivolgeremmo ai farmacisti, non ai compositori.


Perché un giorno la musica ispiri raccoglimento in molti uomini e confidi loro i suoi più alti scopi, bisogna che innanzitutto sia posta fine alla profanazione di questa arte sublime per cui in essa si cerca solo il piacere. Proprio quell’’amico dell’arte’, il pilastro su cui riposano i nostri trattenimenti artistici, teatri, musei, le società di concerti, è da mettere al bando; il favore statale che viene accordato ai suoi desideri, è da tramutare in sfavore; il giudizio pubblico, che ripone un valore tutto particolare proprio nell’inculcare quell’amore per l’arte, deve essere tolto di mezzo da un giudizio migliore. (F. Nietzsche, Scritti su Wagner)


Chi è il musicista.


- Musicista è colui che, vedendo delle note, comincia a udire suoni nascergli dentro. Strumentista è colui che sa far percepire ad altri ciò che egli ha udito dentro di sé. (A. Schoenberg in L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna)

venerdì 1 novembre 2013

Note su "Zidane, a 21st century portrait"

Da tempo m'ero ripromesso di tornare a scrivere qualcosina sul cinema. Il documentario Zidane, a 21st century portrait me ne ha offerto il destro. La mia non vuole però essere una recensione, quanto una raccolta di suggestioni e pensieri sorti durante la visione del suddetto film.


(00.51) Faccia a faccia, il più vicino possibile, per l'intera durata, per il tempo che ci vuole.


- Le etichette musicali mi hanno sempre lasciato perplesso, ma per la musica dei Mogwai che accompagna magistralmente l'inizio del film non potrebbe esserci definizione più azzeccata di "musica per l'interno". Solo alla band scozzese poteva riuscire l'impresa di trasformare un'occasione tutt'altro che intimistica come una partita di calcio in un'esperienza introspettiva.


(04.38) La prospettiva televisiva rende tutto così innocuo, quasi ridicolo. Basta questo stacco brusco per rendercene conto. Ciò che appare come lo stadio, la folla, le azioni in campo prima di esso non corrispondono a ciò che sono realmente.

- L'impatto visivo con la folla è rimandato fino a 08.24. Non si può non restare impressionati dalla quantità di persone 'ammansite' dalla partita. Canetti in Massa e potere descrive bene questo fenomeno:


"Masse statiche di tipo passivo si formano nei teatri. La situazione ideale è che si reciti dinanzi a una sala piena. Il numero desiderato di spettatori è dato fin da principio. Essi si radunano da soli; con l’eccezione di limitati ristagni alle casse, ciascuno raggiunge la sala per conto proprio. Ai singoli posti, però, si è accompagnati. Tutto è prestabilito: il pezzo che verrà rappresentato, gli attori che andranno in scena, l’ora dell’inizio e gli spettatori stessi ai loro posti. I ritardatari sono accolti con leggera ostilità. Come un gregge addestrato, gli uomini restano seduti tranquilli e in infinita pazienza. Ciascuno però è ben cosciente della propria singola esistenza; egli ha pagato e si rende conto esattamente di chi gli siede a fianco. Prima dell’inizio egli osserva tranquillamente la fila di teste radunate: esse risvegliano in lui una sensazione piacevole, ma non troppo pressante, di concentrazione. L’eguaglianza fra gli spettatori consiste essenzialmente nel fatto che essi accolgono tutti passivamente la medesima realtà che giunge dal palcoscenico. Ma le loro reazioni spontanee sono ora limitate a ciò. Lo stesso applauso ha i suoi momenti predeterminati; spesso infatti si applaude solo quando è il momento di applaudire. Dalla sola forza dell’applauso possiamo dedurre quanto una massa si sia costituita; l’applauso è la sola misura di ciò, ed è valutato così dagli stessi attori.
Lo staticizzarsi in teatro è divenuto rito in tale misura da imporsi come moderata pressione dall’esterno, che tocca non profondamente gli uomini e in ogni caso dà loro difficilmente la sensazione di un’interna unità e omogeneità. Non si deve però dimenticare quanto grande e comune sia l’attesa, mentre gli spettatori restano seduti, e in quale misura continui durante l’intera rappresentazione. Soltanto raramente essi lasciano il teatro prima della fine; anche se sono stati delusi, resistono; ciò presuppone però che fossero legati insieme fino a quel momento.
Il contrasto fra la quiete degli spettatori e l’attività rumorosa dell’organizzazione cui sottostanno è ancora più evidente nei concerti. In tali casi ciò che conta più di tutto è l’assenza di ogni disturbo. Ogni movimento è escluso, ogni rumore biasimato. Mentre la musica, che viene eseguita, vive per buona parte del proprio ritmo, non si deve avvertire nulla del suo effetto ritmico sugli uditori. Le reazioni affettive suscitate dalla musica in uno scambio continuo sono del tipo più vario e intenso. Si esclude che esse non vengano percepite dalla maggior parte dei presenti, e si esclude che non vengano percepite simultaneamente da tutti. Vengono però a mancare tutte le reazioni esterne. Gli uomini rimangono seduti immobili, come se riuscissero a non sentire nulla. Evidentemente, in tal caso, è stata necessaria una lunga educazione artistica alla staticità, educazione i cui risultati ci sono divenuti abituali. Osservando con spregiudicatezza, nella nostra vita culturale ci sono pochi eventi così stupefacenti come il pubblico dei concerti. Gli uomini che subiscono la musica in modo naturale, si comportano ben diversamente; e coloro che non avessero mai udito musica, potrebbero cadere nell’eccitazione più sfrenata quando la sperimentassero per la prima volta. Quando i marinai che sbarcavano eseguivano la Marsigliese dinanzi agli indigeni della Tasmania, questi ultimi esprimevano la loro soddisfazione con strane contorsioni e gesti stupefacenti, in modo da costringere i marinai a torcersi dalle risa. Un giovane particolarmente entusiasmato si strappò i capelli, si grattò la testa con ambo le mani e lanciò ripetutamente alte grida.
Un misero resto di scarica fisica è sopravvissuto anche nei nostri concerti. L’applauso è offerto come ringraziamento agli esecutori: un rumore breve e caotico in cambio di uno lungo e ben organizzato. Se l’applauso manca del tutto ci si allontana quietamente così come si stava seduti;  tanto si è già immersi nella sfera del raccoglimento religioso" (E. Canetti, Massa e potere in Opere 1932 – 1973, Bompiani, Milano 1990, pp. 1011-1013).



- Paradossalmente nei momenti in cui non tocca il pallone Zidane diventa, da protagonista assoluto del film, pretesto per osservare quanto avviene attorno a lui.


- (09.37) Bellissimo il particolare dei passi di Zidane. Non trascina i piedi, accarezza il prato.




- Il continuo sottofondo dei tamburi e dei cori degli ultrà ha un qualcosa di regressivo-ipnotico.


- (06.44) L'espressione del volto di Zidane. Sembra voglia essere in qualsiasi altro posto piuttosto che lì.

- I testi meritano di essere riportati per intero. Anche perché sembrano essere i pensieri che Zidane ha realmente in quei momenti.

(06.58)

Da bambino,
avevo una telecronaca nella testa
quando giocavo.
Non era la mia voce.
Era la voce di Pierre Cangioni,
un telecronista degli anni '70.
Ogni volta che sentivo la sua voce,
correvo verso la tv.
Quanto più vicino potevo arrivare.
Quanto più a lungo potevo restarci.
Non che le sue parole
fossero così importanti,
ma il tono,
l'enfasi,
l'atmosfera,
erano tutto...

(09.22)

Quando metti piede in campo,
puoi udire e percepire,
la presenza del pubblico.
C'è un suono.
Il suono del rumore.

(11.00)

Quando sei immerso nel gioco,
non senti realmente il pubblico.
Puoi quasi decidere da solo
cosa vuoi sentire.

Non sei mai solo.

[Da notare la perentorietà. Vorremmo essere soli ma non possiamo. Heidegger definiva questa dimensione esistenziale 'essere-con-gli-altri': per quanto vorremmo essere da soli, sappiamo di essere da sempre in mezzo ad altri Esserci. Ed anche i momenti di solitudine che riusciamo a ritagliarci sono soltanto delle momentanee sospensioni, incapaci di scalfire la nostra dipendenza dagli altri].


Posso sentire
qualcuno che si gira sulla sua poltroncina.
Posso sentire
qualcuno tossire.
Posso sentire qualcuno bisbigliare
all'orecchio della persona
che gli sta accanto.
Posso immaginare
di riuscire a sentire il ticchettio
di un orologio.

(14.10)

Forse, se le cose stanno andando male,
diventi cosciente
delle reazione della gente.
Quando non sta andando bene...
ti senti meno coinvolto
ed è più facile sentire gli insulti,
i fischi.
Cominci ad avere pensieri negativi...
a volte vorresti dimenticare.

La partita, l'evento, non è necessariamente
vissuto o ricordato in 'tempo reale'.
I miei ricordi di partite ed eventi
sono frammentati.

[Non esiste un solo modo di esperire il tempo. Bergson ne aveva parlato con la sua distinzione tra tempo 'spazializzato' (lo scorrere lineare degli attimi che contraddistingue l'esperienza comune), ed il tempo della 'durata interiore' (la particolare esperienza durante la quale i nostri stati d'animo si compenetrano, si richiamano l'un l'altro generando questa sensazione di maggiore densità e complessità)].



(00.20) A volte, quando arrivi allo stadio,
senti che tutto.
è già stato deciso.
Il copione è già stato scritto. [Stoico questo Zidane!]


- (01.06) Il rigore per il Villareal non poteva arrivare in un momento migliore.


- (02.06) La pesantezza di questo silenzio.


- (06.34) Mi ricordo giocare in un altro luogo,
in un altro tempo,
dove successe qualcosa di sorprendente.
Qualcuno mi passò la palla,
e prima ancora di toccarla,
sapevo esattamente quello
che stava per accadere.
Sapevo che stavo per segnare.


- (08.26) L'ovazione al gol mancato. Questo è un film più da ascoltare che da vedere.


- (09.00) La musica dei Mogwai diffusa dagli altoparlanti dello stadio è un colpo di genio del regista.

- (09.14 - L'intervallo forse è un po' forzato)

Il marionettista dà vita a Bob Marley
nello spettacolo di marionette
della spiaggia di Ipanema.

Centinaia di case sono distrutte
in Serbia-Montenegro
durante la peggiore alluvione
degli ultimi 40 anni.

Elian Gonzalez parla
alla tv di stato cubana.

Il collaudo finale
dell'Airbus 380 sulla pista di Tolosa.

Una maratona di lettura di 48 ore
del 'Don Chisciotte'
per celebrare
i 400 anni del libro di Cervantes.

Pubblicazione online di una serie
di nuovi videogiochi.

Un caccia in scala 1:1
del set di 'Guerre Stellari'
è all'asta su eBay.

La nave spaziale 'Voyager'
registra suoni ad onda plasmatica
ai confini della zona
d'urto del vento solare.

Centinaia di rospi si gonfiano
fino al triplo della loro dimensione
normale ed esplodono
in uno stagno in Germania.

Un'autobomba a Najaf, Iraq,
fa 9 vittime nell'onda di una escalation
di attacchi.

Sir John Mills,
22 febbraio 1908 - 23 aprile 2005.

L'invio di un team di specialisti
per il salvataggio dei lavoratori
intrappolati
dopo l'esplosione in una miniera in Turchia.

Mio figlio aveva la febbre stamattina.

Il picchio avoriato
che si credeva estinto dal 1920,
è stato avvistato nel nord America.

Ho qualcosa da fare oggi...
Il summit asiatico-africano
si è concluso a Jakarta.


(13.00) Il respiro pesante di Zidane. Tutto si regge ancora una volta sul suono.






(07.37) Se Forlàn avesse segnato si sarebbe messa veramente male per il film.


(12.28) La stanchezza nel volto di Zizou, il suo andare avanti e dietro per il campo. Sembra un continuo, inutile fare e disfare. Qoelet approverebbe.






(00.33) Le luci fanno sembrare il Bernabeu un'astronave sospesa nel tempo e nello spazio.


(01.05) L'azione dell'assist di Zidane ha un qualcosa di travolgente. Mi ha ricordato questa frase di Artaud sul suo teatro: "Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli spettatori, ma a tutta la loro esistenza. Alla loro e alla nostra. Giochiamo la nostra vita nello spettacolo che si svolge sulla scena. Se non avessimo ben chiara e profonda coscienza che una parte della nostra vita vi è impegnata, non riterremmo necessario proseguire la nostra esperienza. Lo spettatore che viene da noi sa di venire a sottoporsi a una operazione vera, dove sono in gioco non solo il suo spirito ma i suoi sensi e la sua carne. Andrà ormai a teatro come va dal chirurgo o dal dentista. Con lo stesso stato d'animo, pensando ovviamente di non morire per questo, ma che è una cosa grave e che non ne uscirà integro" (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino p. 7).

- Ad assist compiuto (e che assist!) Zidane non festeggia (nel secondo gol, lo fa quasi controvoglia). Forse la pressione di dover vincere a tutti i costi rende la vittoria meno speciale.




(05.20) Tra gli 'attori non protagonisti' una menzione speciale va fatta per Roberto Carlos. Gli è riuscita un'impresa non da poco: far sorridere Zizou.


(07.44) L'ira funesta di Zidane. Non poteva esserci un finale migliore. Zizou impotente che attende la decisione dell'arbitro. C'è un qualcosa di Joseph K in lui. L'abbraccio dei compagni. L'ovazione dello stadio. La coscienza di aver dato il massimo. Il suo addio a "le carré vert". La sua uscita solitaria.

(09.16) La magia a volte è molto vicina
al nulla assoluto.
Niente di niente.
Quando mi ritirerò
mi mancherà il verde del campo di gioco,
'Le carré vert'.

sabato 21 settembre 2013

Majakovskij

Esco di casa.
C’è acqua alta.
Una marea rossa si spande fino ai miei piedi.
‘Devo mettermi gli stivali’, penso.
Torno indietro e un vecchietto sdentato con un pastrano tutto sgualcito mi chiama.

“Pss! – inizia a dirmi – Dal tetto stillano lacrime nelle grondaie,
disegnando strisce verso il braccio del fiume;
e nelle labbra penzolanti del cielo
si sono ficcati capezzoli di pietra.
Il cielo, ormai calmo, s’è rischiarato.
Brilla il piatto del mare”.

Forse è meglio andare.
Arrivo al Ponte dell’Accademia.
L’acqua è rientrata, ma in compenso dal cielo inizia a discendere un enorme martello, grossomodo come quelli del video di The Wall dei Pink Floyd.
Mi s-c-c-c-c-h-i-a-c-c-i-a!

Mi sveglio.
Devo smetterla di leggere Majakovskij.


Non capiscono niente

Entrato dal barbiere, ho detto normalissimo:
"Prego, pettinatemi le orecchie".
Il liscio barbiere si fece allora tutto aghiforme,
la sua faccia si allungò come una pera.

"Pazzo!
Buffone!":
presero a saltare le parole.
Gl'insulti rimbalzavano di guaito in guaito.
E a l-u-u-u-u-n-g-o
una testa ridacchiò di chissà chi,
sradicandosi dalla folla, come un secco ravanello.



Sono stufo


Non ce l’ho fatta più seduto in casa.
Annenski, Tiutcev, Fet.
Di nuovo,
spinto da nostalgia per la gente,
giro
per cinematografi, bettole, caffè.

Davanti a un tavolino.
Un bagliore.
Una speranza m’illumina lo stupido cuore.
Se, in una settimana,
così s’è trasformato il russo,
gli avvamperò le guance col fuoco delle labbra.

Sollevo gli occhi circospetto,
frugo nel mucchio di giacche.
"Torna indietro,
in-dietro,
i-n-d-i-e-t-r-o!":
grida dal cuore la paura.
Scorre per il volto sfiduciata e importuna.

Non le do retta.
E vedo,
un poco a destra,
ignota alla terraferma e agli abissi marini,
tutta intenta intorno a uno zampetto di vitello,
una misteriosissima creatura.
Guardi e ti chiedi: mangia o non mangia?

Guardi e ti chiedi: respira o non respira?
Due metri di sfoglia rosea senza sembianze:
ci fosse almeno ricamata in un angolo una sigla!

Soltanto, ondeggiano ricadendo sulle spalle
Le morbide pieghe delle guance lustre.
Il cuore, fuori di sé,
fa fuoco e fiamme.
"Torna indietro, insomma!
Che cerchi ancora?"

Guardo a sinistra.
Da restare senza fiato.
Torno a guardare il primo, ed è già un altro:
a confronto del secondo mostro,
il primo è un Leonardo da Vinci redivivo.

Non ne esistono di uomini.
Lo comprendete, ora,
il grido di mille giorni di pena?
L’anima non vuole camminare muta,
ma a chi parlare?

Mi getterò per terra,
e sulla crosta della pietra
a sangue triterò la faccia, lavando di lacrime l’asfalto.
Con le labbra esauste dal desiderio d’una carezza
Coprirò di baci il muso intelligente del tram.

Me ne tornerò a casa.
M’incollerò alle tappezzerie.
Dove trovare una rosa più tenera e più tea?
Vuoi
che ti legga
il variopinto
Semplice come un muggito?

Per la storia:
quando tutti si saranno piazzati in paradiso e all'inferno,
si tireranno le somme della terra.
Ricordate?
Nell’anno 1916
a Pietrogrado, di belli non ce n’era più nessuno.


mercoledì 14 agosto 2013

Al bar

Cos'è un bar? Niente più che un locale in cui si servono caffé, bevande e altre vivande. Il termine 'bar' deriverebbe dall'inglese 'barrier', sbarra, poiché nell'America del Sud, all'epoca della prima colonizzazione, lo spazio riservato alla vendita di alcolici nelle bettole era separato dal resto del locale appunto da una sbarra (Wikipedia).

Ma siamo sicuri che il significato di un bar si esaurisca in tutto ciò? Probabilmente starete faticando a seguirmi. Forse perché non avete un ‘vostro’ bar, un punto di ritrovo con i vostri amici, dove bighellonare e sparare un po’ di sacrosante ‘minchiate’. Forse due esempi mi aiuteranno per dimostrare come un semplice bar possa diventare molto di più rispetto a ciò che siamo abituati a pensare.

1)      Vincent Van Gogh, Le café de nuit (1888)



Raramente come in questo caso si ha la vivida impressione di essere dei derelitti, di toccare con mano cosa vuol dire una vita border-line. È notte fonda, sono rimasti in pochi nel locale: una coppia che conversa teneramente mitiga la (non) presenza di alcuni uomini intorpiditi dall’alcol. Van Gogh ci consegna un’immagine allucinata, avvolta in una luce che esaspera l’atmosfera e la prospettiva. Una luce bellissima, vuota, disperata, come lo sguardo che il proprietario del locale, accanto al tavolo da biliardo, ci rivolge. Di questo dipinto, lo stesso Van Gogh disse: “Ho voluto esprimere col rosso e verde le terribili passioni umane e sottolineare come il caffè è un luogo in cui ci si possa rovinare, diventar pazzi e commettere un delitto”.

2)      Èdouard Manet, Un bar aux Folies-Bergère, (1881-82)


“Manet – scrive Michel Foucault prendendo spunto da quest’opera - ha fatto giocare nella rappresentazione gli elementi materiali fondamentali della tela; era in procinto di inventare  il quadro-oggetto, se volete, la pittura-oggetto, ed è questa senza dubbio la condizione fondamentale affinché finalmente un giorno ci si liberi dalla rappresentazione e si lasci giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali.

Osservate lo specchio. Esso occupa praticamente tutto lo sfondo del quadro. Il bordo dello specchio è una cornice dorata che permette a Manet di chiudere lo spazio con una sorta di superficie piana, come con un muro. Ma in maniera particolarmente perversa Manet ha rappresentato su questo muro, per il fatto che è uno specchio, quel che c’è davanti alla tela, ma in modo che non appare, che non c’è, una autentica profondità. È la doppia negazione della profondità, poiché non soltanto non si vede quel che sta dietro la donna, essendo immediatamente davanti allo specchio, ma dietro la donna non si vede neppure quel che le sta davanti.

[…] Molto importante è la maniera in cui i personaggi, o piuttosto gli elementi, sono rappresentati nello specchio. La più grande distorsione è nel riflesso della donna. Ora, non sono necessarie precise nozioni di ottica per rendersi conto – lo si comprende dal disagio che si prova guardando questo quadro – che per vedere il riflesso di una donna lì dov’è situato, lo spettatore e il pittore dovrebbero trovarsi del tutto lateralmente; solo così la donna qui situata avrebbe il suo riflesso là verso l’estrema destra. Ebbene, è del tutto evidente che il pittore non può essersi situato sulla destra poiché vede la ragazza non di profilo ma di fronte. Dunque il pittore occupa – e lo spettatore è invitato a farlo con lui – successivamente, o piuttosto simultaneamente, due posizioni incompatibili.

[…] Ma non basta: qui vedete il riflesso di un personaggio che è di fronte alla donna e le sta parlando: bisogna dunque supporre che qualcuno occupi la posizione che dovrebbe essere occupata dal pittore. Ebbene se vi fosse davanti alla donna qualcuno che le sta parlando, e così da vicino, vi sarebbe necessariamente sul volto della donna, sulla sua gola bianca, e ugualmente sul marmo, qualcosa come un’ombra. Invece non vi è nulla: l’illuminazione è diretta, colpisce senza ostacolo né schermo alcuno tutto il corpo della donna e il marmo: dunque, affinché qui vi sia un riflesso bisogna che vi sia qualcuno, ma affinché vi sia una simile illuminazione bisogna che non vi sia nessuno. Dunque, oltre all’incompatibilità tra la posizione centrale e laterale, abbiamo anche l’incompatibilità tra presente e assente.Questa esclusione di ogni luogo stabile e definitivo in cui situare lo spettatore è evidentemente una delle proprietà fondamentali di questo quadro e spiega l’incanto e al tempo stesso lo straniamento che si prova nel guardarlo.


Mentre tutta la pittura classica, con il suo sistema di linee, di prospettiva, di punto di fuga e così via, assegnava allo spettatore e al pittore un luogo preciso, fisso, inamovibile da cui lo spettacolo veniva visto, in un quadro come questo, sebbene si abbia l’impressione di aver tutto sotto mano, di poter quasi toccarlo, ebbene, malgrado questo, o forse a causa di questo, o in ogni caso con questo, non è possibile sapere dove fosse situato il pittore per dipingere il quadro come l’ha dipinto, e dove dovremmo situarci noi per vedere uno spettacolo come quello. Voi vedete che allora, con quest’ultima tecnica, Manet fa giocare la proprietà del quadro di non essere assolutamente uno spazio normativo la cui rappresentazione ci assegna o assegna allo spettatore un punto e un unico punto da cui guardare, e il quadro appare come uno spazio davanti al quale e in rapporto al quale ci si può spostare. Ecco che la tela, in un certo senso di fisico, è in procinto di apparire e di giocare con tutte le sue proprietà all’interno della rappresentazione”.

venerdì 31 maggio 2013

Un filosofo alla Biennale

Venezia è invasa. Il carrozzone della 55° Biennale d’arte è partito inarrestabile. Lo noti appena esci di casa: le calli sono piene di eccentrici stramboidi, ancor più di quanto non lo siano già nel resto dell’anno. Tuttavia, pur non impazzendo per l’eccesso di glamour che la più famosa mostra d’arte contemporanea al mondo porta con sé, difficilmente riesco a resistere alla tentazione di gironzolare per i suoi padiglioni. Specialmente per quelli sparsi nella città, dato che si tratta dell’unica occasione per poter entrare nei tesori nascosti dei palazzi storici veneziani.

Con questo spirito arrivo questo pomeriggio a Palazzo Falier che ospita una mostra personale di Pedro Cabrita Reis. Entro e mi ritrovo in un labirinto di travi di alluminio che sorreggono degli immancabili neon bianchi. In qualche stanza c’è addirittura un dipinto, completamente nero con qualche macchia marrone. Ecco realizzarsi, inizio allora a pensare, la solita truffa dell’arte contemporanea. Cerco di consolarmi con la vista del Canal Grande, quando noto che c’è un’ultima stanza che m’era sfuggita.

Entro e c’è lui. Ludwig Wittgenstein mi guarda serio ma anche un po’ canzonatorio. Sulle pareti un trionfo di fogli, schizzi, appunti. In alcuni di essi vi sono citazioni del suo Tractatus Logico-Philosophicus. Senza soffermarmi a leggerli tutti, d’improvviso capisco. Così come Wittgenstein invitava a “rompere in modo radicale con l’idea che il linguaggio funzioni sempre in un unico modo, serva sempre allo stesso modo: trasmettere pensieri – siano questi pensieri intorno a case, a dolori, al bene e al male, o a qualunque altra cosa” (Ricerche filosofiche, § 304), quello di Cabrita Reis era un messaggio analogo: smettila di vedere ciò che ti circonda con gli occhi dell’ordinarietà e osserva meglio.

Torno alle travi di alluminio. Vi guardo dentro e tra una trave e l’altra iniziano a crearsi giochi prospettici, come in un caleidoscopio. Così, quello che prima m’era sembrato niente più che un sostegno, si rivela essere tutt’altro. Ritorno nella stanza dove imperava la foto di Wittgenstein. Voglio salutarlo come si deve. Prendo le sue “Ricerche filosofiche” che quasi per caso avevo messo in borsa stamattina e inizio a sfogliarle.



Un concetto sfumato è davvero un concetto? Una fotografia sfocata è davvero il ritratto di una persona? È sempre possibile sostituire vantaggiosamente un’immagine sfocata con una nitida? Spesso non è proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?

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In logica non può esserci nulla di vago. Ora viviamo con quest’idea: che l’ideale ‘deve’ trovarsi nella realtà. Invece non si vede ancora come vi si trovi, e non si comprende la natura di questo ‘deve’. Crediamo che essa debba essere conficcato nella realtà; infatti crediamo di scorgerlo già in essa.

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L’ideale, nel nostro pensiero, sta saldo e inamovibile. Non puoi uscirne. Devi sempre tornare indietro. Non c’è alcun fuori; fuori manca l’aria per respirare. – Di dove proviene ciò? L’idea è come un paio di occhiali posati sul naso, e ciò che vediamo lo vediamo attraverso essi. Non ci viene mai in mente di toglierli.

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Si predica della cosa ciò che è insito nel modo di rappresentarla.

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Ogni spiegazione deve essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto. E questa descrizione riceve la sua luce, cioè il suo scopo, dai problemi filosofici. Questi non sono, naturalmente, problemi empirici, ma problemi che si risolvono penetrando l’operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo: contro una forte tendenza a fraintenderlo. I problemi si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto. La filosofia è una battaglia contro l’incatenamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio.

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I risultati della filosofia sono la scoperta di un qualche schietto non-senso e di bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio. Essi, i bernoccoli, ci fanno comprendere il valore di quella scoperta.

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Nell’impiego effettivo delle espressioni facciamo, per così dire, lunghi giri, percorriamo strade secondarie. Vediamo bensì davanti a noi la strada larga e diritta, ma non possiamo certo servircene, perché è permanentemente chiusa.

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Qual è il tuo scopo in filosofia? – Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola.

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Ciò che mi propongo di insegnare è: passare da un non-senso occulto a un non-senso palese.

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Non pensare che sia cosa ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procurano piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori dell’ordinario.
(‘Non pensare che sia cosa ovvia’ – questo vuol dire: Meravigliatene, come fai per altre cose che ti procurano turbamento. Allora ciò che v’è di problematico scomparirà, per il fatto che tu accetti questo fatto così come accetti quegli altri).

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Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. (Non ce ne possiamo accorgere, - perché li abbiamo sempre sotto gli occhi). Gli autentici fondamenti di una ricerca non danno affatto nell’occhio a chi vi è impegnato; a meno che non sia stato colpito una volta da questo fatto. – E questo vuol dire: ciò che, una volta visto, è il più evidente, e il più forte, questo non ci colpisce.

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Non credere sempre di ricavare le tue parole dalla lettura dei fatti; di raffigurare i fatti in parole, secondo certe regole! Perché l’applicazione della regola al caso particolare dovrai farla tu, senza alcuna guida.