lunedì 21 gennaio 2013

A mare cu tutti i 'rrobbi

Viviamo strani giorni. Non è soltanto il ritornello di una famosa canzone di Battiato, ma quello che stiamo vivendo oggi. Non solo perché ci ritroviamo bombardati da una campagna elettorale a metà strada tra il grottesco ed il surreale, ma anche perché le feste natalizie sono trascorse, riconsegnandoci alla routine quotidiana. Personalmente però, prima di fare ritorno nella 'calda' laguna, mi sono preso qualche momento per riassaporare il meglio della mia terra: il mare. Un mare che, sopratutto quando è in tempesta, rimane troppo generoso con noi. Per questo stasera lascio spazio ad un filosofo che ha saputo come pochi descrivere le sensazioni fisiche ma, azzarderei, anche metafisiche che il mare sa suscitare in me. Il mare di riferimento è il Mediterraneo su cui si affaccia Algeri, città natìa di Albert Camus.


Tratto da: Nozze (1936-37)

Qui, so che mai mi avvicinerò abbastanza al mondo. Devo essere nudo e poi immergermi nel mare, ancora tutto odoroso delle essenze della terra, lavare queste da quello, e allacciare sulla mia pelle la stretta per la quale da tanto tempo sospirano labbra a labbra la terra e il mare. Entrato nell’acqua, il brivido, il salire di una vischiosità fredda e opaca, poi il tuffo nel ronzio delle orecchie, il naso che cola e la bocca amara – nuotare, le braccia lucide d’acqua uscite dal mare per dorarsi nel sole e ripiegate in una torsione di tutti i muscoli, l’acqua che scorre sul mio corpo, le gambe che prendono tumultuosamente possesso dell’onda – e l’assenza di orizzonte. Sulla spiaggia, cadere nella sabbia, abbandonato al mondo, rientrato nella mia pesantezza di carne e d’ossa, intontito di sole, con uno sguardo, di tanto in tanto, alle braccia ove la pelle asciugando scopre, quando l’acqua scivola via, la peluria bionda e il polverio di sale.

Qui capisco quel che chiamano gloria: il diritto di amare senza misura. C’è un solo amore in questo mondo. Stringere un corpo di donna è anche tenere contro di sé questa gioia strana che scende dal cielo verso il mare. Fra poco, quando mi getterò negli assenzi per farmi entrare il loro profumo nel corpo, sarò cosciente, contro ogni pregiudizio, di compire una verità che è quella del sole e sarà anche quella della mia morte. In certo senso, è proprio la mia vita che io recito qui, una vita che sa di pietra calda, piena dei sospiri del mare e delle cicale che cominciano a cantare adesso. La brezza è fresca e il cielo turchino. Amo questa vita con abbandono e voglio parlarne liberamente: essa mi dà l’orgoglio della mia condizione d’uomo. Pure, spesso mi è stato detto: non esiste nulla di cui essere fiero. Si, qualcosa c’è: questo sole, questo mare, il mio cuore che balza di giovinezza, il mio corpo che sa di sale e l’immenso scenario dove s’incontrano l’amore e la gloria nel giallo e nell’azzurro. È per conquistare questo che devo adoperare la mia forza e le mie risorse. Qui tutto mi lascia integro, non abbandono nulla di me stesso, non indosso alcuna maschera: mi basta apprendere pazientemente la difficile scienza della vita che vale certamente tutto il loro saper vivere.

[…] Con i denti affondati nella pesca, ascolto le forti pulsazioni del sangue salire fino alle orecchie, guardo tutt’occhi. Sul mare, è il silenzio enorme di mezzogiorno. Ogni creatura bella ha l’orgoglio naturale della propria bellezza e il mondo oggi lascia stillare il suo orgoglio da ogni parte. Perché, davanti al mondo, negherei la gioia di vivere, se so di non poter limitare tutto alla gioia di vivere? Non c’è disonore ad essere felici. Ma oggi l’imbecille è re, e chiamo imbecille colui che ha paura di gioire. […] Non posso fare a meno di rivendicare l’orgoglio di vivere che tutto il mondo cospira a darmi.

[…] Le montagne, il cielo, il mare sono come volti in cui si scopre l’aridità o lo splendore a forza di guardare invece di vedere. Ma ogni volto, per essere eloquente, deve subire un certo rinnovamento. E ci si lamenta di stancarsi troppo rapidamente mentre bisognerebbe meravigliarsi che il mondo ci appaia nuovo solamente perché è stato dimenticato.

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Tratto da: L’estate a Algeri

Sono spesso segreti gli amori che si spartiscono con una città. Città come Parigi, Praga, e anche Firenze sono chiuse su se stesse e limitano così il proprio mondo. Ma Algeri, e con lei certi luoghi privilegiati come le città sul mare, si apre verso il cielo come una bocca o una ferita. A Algeri si può amare quello di cui tutti vivono: il mare ad ogni angolo di strada, un certo peso di sole, la bellezza della razza. E, come sempre, in questa impudicizia e in questa offerta si ritrova un profumo più segreto. A Parigi, si può avere la nostalgia di spazio e di battiti d’ali. Qui, almeno, l’uomo è appagato, e sicuro dei suoi desideri, può misurare le proprie ricchezze.

Senza dubbio bisogna vivere molto tempo a Algeri per capire in quale modo un eccesso di beni naturali può inaridire. Non c’è nulla qui per chi voglia imparare, educarsi o divenire migliore. Questo paese è senza insegnamenti. Non promette e nemmeno fa intravedere. Si accontenta di dare, ma a profusione. È interamente presente agli occhi e lo si conosce dall’istante in cui se ne gode. I suoi piaceri non hanno anime chiaroveggenti, cioè consolazione. Chiede che si faccia atto di lucidità come si fa atto di fede. Singolare paese che dà all’uomo che esso nutre il suo splendore e, al tempo stesso, la sua miseria! Non è sorprendente che la ricchezza sensuale di cui è provvisto un uomo sensibile di questi paesi coincida con la miseria più estrema. Non esiste verità che non porti con sé amarezza. Come stupirsi allora se non amo mai tanto il volto di questo paese come quando sono fra i suoi uomini più poveri?

Gli uomini trovano qui durante tutta la giovinezza una vita a misura della loro bellezza. E poi, è il declino e l’oblio. Hanno puntato sulla carne, ma sapevano di dover perdere. A Algeri, per chi è giovane e vivo, tutto è rifugio e pretesto a tronfi: la baia, il sole, i giuochi di rosso e di bianco delle terrazze verso il mare, i fiori, gli stadi, le ragazze dalle floride gambe. Ma per chi ha perduto la gioventù, nulla a cui appigliarsi e nessun luogo in cui la malinconia possa salvarsi da se stessa. Altrove, le terrazze d’Italia, i chiostri d’Europa o il profilo delle colline provenzali, altrettanti posti dove l’uomo può sfuggire alla propria umanità e liberarsi con dolcezza da se stesso. Ma qui tutto esige solitudine e sangue di uomini giovani.


[…] Sentire i propri legami con una terra, il proprio amore per alcuni uomini, sapere che c’è sempre un luogo in cui il cuore troverà la sua armonia, ecco già molte certezze per una sola vita umana. Senza dubbio ciò non basta. Ma in certi istanti tutto aspira a questa patria dell’anima. ‘Si, è laggiù che dobbiamo tornare’. Che cosa c’è di strano a ritrovare sulla terra l’unione che auspicava Plotino? L’Unità si esprime qui in termini di sole e di mare. È sensibile al cuore per un certo sapore di carne che ne fa l’amarezza e la grandezza. Imparo che non esiste la felicità sovrumana, né eternità fuori dalla curva dei giorni. Questi beni irrisori ed essenziali, queste verità relative sono le sole che mi commuovano. Le altre, le ‘verità ideali’, non ho abbastanza anima per capirle. Non che sia necessario esser bestia, ma non trovo senso nella felicità degli angeli. So solamente che il cielo durerà più di me. E che cosa dovrei chiamare eternità se non ciò che continuerà dopo la mia morte? Non esprimo qui una compiacenza della creatura nella propria condizione. È tutt’altra cosa. Non è sempre facile essere uomo, ancora meno essere uomo puro. Ma essere puro significa ritrovare quella patria dell’anima in cui la parentela col mondo diventa sensibile, in cui  il pulsare del sangue si connette con le pulsazioni violente del sole delle due. È noto che la patria si riconosce sempre al momento di perderla. Per chi si tormenta troppo da solo, il paese natale è quello che gli è negato. Non vorrei essere brutale né sembrare esagerato. Ma quel che mi è negato in questa vita è prima di tutto ciò che mi uccide. Tutto ciò che esalta la vita, ne accresce al tempo stesso l’assurdità. Nell’estate algerina imparo che una sola cosa è più tragica della sofferenza: la vita di un uomo felice. Ma può essere anche la via per una vita più alta, perché insegna a non barare.

[...] Dal vaso di Pandora, in cui brulicavano i mali dell’umanità, i Greci fecero uscire dopo tutti gli altri, come il più terribile di tutti, la speranza. Non conosco simbolo più appassionato. Perché la speranza, al contrario di quel che si crede, equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi. Ecco la dura lezione delle estati d’Algeria. Ma già la stagione trema e l’estate declina. Le prime piogge di settembre, dopo tanta violenza e tensione, sono come le prime lacrime della terra liberata, come se per qualche giorno questo paese s’impastasse di tenerezza. Nello stesso periodo però, i carrubi spandono un odore d’amore su tutta l’Algeria. È la sera in cui, dopo la pioggia, tutta la terra, col ventre imbevuto di un seme dal profumo di mandorla amara, riposa dopo essersi data per tutta l’estate al sole. Ed ecco che di nuovo questo odore consacra le nozze dell’uomo e della terra, e fa nascere in noi il solo amore veramente virile in questo mondo: caduco e generoso.