mercoledì 14 agosto 2013

Al bar

Cos'è un bar? Niente più che un locale in cui si servono caffé, bevande e altre vivande. Il termine 'bar' deriverebbe dall'inglese 'barrier', sbarra, poiché nell'America del Sud, all'epoca della prima colonizzazione, lo spazio riservato alla vendita di alcolici nelle bettole era separato dal resto del locale appunto da una sbarra (Wikipedia).

Ma siamo sicuri che il significato di un bar si esaurisca in tutto ciò? Probabilmente starete faticando a seguirmi. Forse perché non avete un ‘vostro’ bar, un punto di ritrovo con i vostri amici, dove bighellonare e sparare un po’ di sacrosante ‘minchiate’. Forse due esempi mi aiuteranno per dimostrare come un semplice bar possa diventare molto di più rispetto a ciò che siamo abituati a pensare.

1)      Vincent Van Gogh, Le café de nuit (1888)



Raramente come in questo caso si ha la vivida impressione di essere dei derelitti, di toccare con mano cosa vuol dire una vita border-line. È notte fonda, sono rimasti in pochi nel locale: una coppia che conversa teneramente mitiga la (non) presenza di alcuni uomini intorpiditi dall’alcol. Van Gogh ci consegna un’immagine allucinata, avvolta in una luce che esaspera l’atmosfera e la prospettiva. Una luce bellissima, vuota, disperata, come lo sguardo che il proprietario del locale, accanto al tavolo da biliardo, ci rivolge. Di questo dipinto, lo stesso Van Gogh disse: “Ho voluto esprimere col rosso e verde le terribili passioni umane e sottolineare come il caffè è un luogo in cui ci si possa rovinare, diventar pazzi e commettere un delitto”.

2)      Èdouard Manet, Un bar aux Folies-Bergère, (1881-82)


“Manet – scrive Michel Foucault prendendo spunto da quest’opera - ha fatto giocare nella rappresentazione gli elementi materiali fondamentali della tela; era in procinto di inventare  il quadro-oggetto, se volete, la pittura-oggetto, ed è questa senza dubbio la condizione fondamentale affinché finalmente un giorno ci si liberi dalla rappresentazione e si lasci giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali.

Osservate lo specchio. Esso occupa praticamente tutto lo sfondo del quadro. Il bordo dello specchio è una cornice dorata che permette a Manet di chiudere lo spazio con una sorta di superficie piana, come con un muro. Ma in maniera particolarmente perversa Manet ha rappresentato su questo muro, per il fatto che è uno specchio, quel che c’è davanti alla tela, ma in modo che non appare, che non c’è, una autentica profondità. È la doppia negazione della profondità, poiché non soltanto non si vede quel che sta dietro la donna, essendo immediatamente davanti allo specchio, ma dietro la donna non si vede neppure quel che le sta davanti.

[…] Molto importante è la maniera in cui i personaggi, o piuttosto gli elementi, sono rappresentati nello specchio. La più grande distorsione è nel riflesso della donna. Ora, non sono necessarie precise nozioni di ottica per rendersi conto – lo si comprende dal disagio che si prova guardando questo quadro – che per vedere il riflesso di una donna lì dov’è situato, lo spettatore e il pittore dovrebbero trovarsi del tutto lateralmente; solo così la donna qui situata avrebbe il suo riflesso là verso l’estrema destra. Ebbene, è del tutto evidente che il pittore non può essersi situato sulla destra poiché vede la ragazza non di profilo ma di fronte. Dunque il pittore occupa – e lo spettatore è invitato a farlo con lui – successivamente, o piuttosto simultaneamente, due posizioni incompatibili.

[…] Ma non basta: qui vedete il riflesso di un personaggio che è di fronte alla donna e le sta parlando: bisogna dunque supporre che qualcuno occupi la posizione che dovrebbe essere occupata dal pittore. Ebbene se vi fosse davanti alla donna qualcuno che le sta parlando, e così da vicino, vi sarebbe necessariamente sul volto della donna, sulla sua gola bianca, e ugualmente sul marmo, qualcosa come un’ombra. Invece non vi è nulla: l’illuminazione è diretta, colpisce senza ostacolo né schermo alcuno tutto il corpo della donna e il marmo: dunque, affinché qui vi sia un riflesso bisogna che vi sia qualcuno, ma affinché vi sia una simile illuminazione bisogna che non vi sia nessuno. Dunque, oltre all’incompatibilità tra la posizione centrale e laterale, abbiamo anche l’incompatibilità tra presente e assente.Questa esclusione di ogni luogo stabile e definitivo in cui situare lo spettatore è evidentemente una delle proprietà fondamentali di questo quadro e spiega l’incanto e al tempo stesso lo straniamento che si prova nel guardarlo.


Mentre tutta la pittura classica, con il suo sistema di linee, di prospettiva, di punto di fuga e così via, assegnava allo spettatore e al pittore un luogo preciso, fisso, inamovibile da cui lo spettacolo veniva visto, in un quadro come questo, sebbene si abbia l’impressione di aver tutto sotto mano, di poter quasi toccarlo, ebbene, malgrado questo, o forse a causa di questo, o in ogni caso con questo, non è possibile sapere dove fosse situato il pittore per dipingere il quadro come l’ha dipinto, e dove dovremmo situarci noi per vedere uno spettacolo come quello. Voi vedete che allora, con quest’ultima tecnica, Manet fa giocare la proprietà del quadro di non essere assolutamente uno spazio normativo la cui rappresentazione ci assegna o assegna allo spettatore un punto e un unico punto da cui guardare, e il quadro appare come uno spazio davanti al quale e in rapporto al quale ci si può spostare. Ecco che la tela, in un certo senso di fisico, è in procinto di apparire e di giocare con tutte le sue proprietà all’interno della rappresentazione”.