giovedì 4 settembre 2014

Ac-costamenti: Blaise Pascal / Steve Lacy

Sono sempre stato scettico a proposito dei confronti, specialmente tra quegli inafferrabili personaggi quali sono i musicisti ed i filosofi. Mai quanto oggi per suscitare l'interesse di chi ascolta o legge è necessaria una spiccata personalità capace di distinguersi dall'ammasso informazioni (e note) di cui disponiamo. Dunque, stiamo parlando di persone sostanzialmente irriducibili ad altro da sé. Eppure eccomi qui a proporvi questo primo confronto: Blaise Pascal e Steve Lacy. Perché loro due? E soprattutto, perché loro due insieme?

Due sono gli elementi essenziali che a mio avviso li accomunano: la predilezione per la dimensione 'in solo' ed una sottile ironia. Certo, i 'filosofi' in genere non eccellono in socievolezza, preferendo l'intimità della loro riflessione. Tuttavia, è pur vero che ben pochi non abbiano mai avvertito l'esigenza di mettere in discussione le loro certezze venendo a contatto con gli altri. E tra questi pochi figura sicuramente Blaise Pascal. Leggendo i suoi Pensieri non si può fare a meno di ammirare l'incrollabile serenità con cui il filosofo francese procede nella sua riflessione. Anche la tanto vituperata scommessa, fraintesa da molti come un freddo calcolo utilitaristico, rientra in questa dimensione di irriducibile sicurezza nelle proprie ragioni e nella propria fede cattolica. Proviamo a riassumere il ragionamento pascaliano (se siete giocatori di poker quanto segue vi risulterà particolarmente familiare). Chi scommette al gioco rischia un guadagno o una perdita, secondo il calcolo delle probabilità; più crescono le probabilità di vincita, più il giocatore è portato a scommettere. Applicando questa regola al problema del destino dell'uomo, Pascal esorta l'ateo a scommettere per Dio perché, posta un'infinità di casi, tra i quali uno solo fosse in nostro favore (l'esistenza di Dio e, quindi, della Divina provvidenza), noi avremmo torto a non prendere per vera l'unica probabilità a nostro favore. Cosa avremmo infatti da perderci?

Ma veniamo a Lacy. Sassofonista (sopranista). Nato a New York da una famiglia di ebrei emigrati dalla Russia, debutta nel jazz attraverso il dixieland. L'incontro col pianista Cecil Taylor gli apre il folgorante orizzonte della libera improvvisazione. Nella sua carriera Lacy collaborerà con altri grandi come Gil Evans e, soprattutto, Thelonious Monk (al quale dedicherà il suo capolavoro Reflections). A proposito dello stile di Lacy, è stato detto: "Lacy sembra sempre parlare a se stesso, il suo sguardo, pur se fisso verso l'interlocutore, guarda verso di sé. Un uomo che parla molto con se stesso, anche musicalmente: non sorprende che il concerto 'solo' gli si addica. Il dialogo privato si fa pubblico. L'unica differenza è nel pubblico. Ma Lacy non ha paura del pubblico: gli si dona con molta intensità, perché Lacy è convinto di ciò che fa, crede molto in sé, non ha paura allora di mostrarsi. Uomo quieto, introverso, melanconico e attento, estremamente attento. Eppure, quest'uomo assorto emana una sorta di fluido, specie quando è sul palco, dove quasi non si muove, sposta ogni tanto il piede in avanti, o flette in alto una gamba, rattrappendosi per un attimo, come se in quel momento la musica dovesse fuoriuscire con maggior potenza" (M. Luzzi, Uomini e avanguardie jazz, Gammalibri, Milano 1980, p. 190).





Pascal. 1. Pensieri sullo spirito e sullo stile

La vera eloquenza si burla dell'eloquenza; la vera morale si burla della morale; voglio dire che la morale del giudizio se la ride della morale della mente, che è senza regole. Infatti al giudizio appartiene il sentimento, come alla mente appartengono le scienze. La intuizione fa parte del giudizio, la geometria della mente. Ridersela della filosofia significa filosofare per davvero.

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L'ultima cosa che si pensa scrivendo un libro è sapere che cosa bisogna mettere in principio.

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L'eloquenza è un ritratto del pensiero; perciò, quelli che dopo aver dipinto aggiungono ancora qualcosa, fanno un quadro invece di un ritratto.

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Quando siamo di fronte a uno stile naturale, restiamo stupiti e incantati, perché ci aspettavamo di vedere un autore e troviamo invece un uomo.

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Quando si legge troppo alla svelta o troppo lentamente, non si capisce nulla.

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Volete che gli altri pensino bene di voi? Non parlatene.




2. Miseria dell'uomo senza Dio


Non si insegna agli uomini a essere onesti, però si insegna loro tutto il resto; e intanto questi non si vantano tanto di sapere tutto il resto quanto di essere onesti. Si vantano di sapere soltanto quello che non hanno mai imparato.

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Troppo vino e troppo poco vino. Non gliene date, e non potrà trovare la verità; dategliene troppo, e avrete lo stesso risultato.

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Rendiamoci conto delle nostre possibilità; noi siamo qualcosa, ma non siamo tutto; quel tanto di essere che possediamo ci toglie la conoscenza dei primi principi che nascono dal nulla, e quel poco di essere che possediamo ci nasconde la vista dell'infinito. Che cos'è in fondo l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto.

[...] Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti e instabili, sballottati da un capo all'altro. Qualunque scoglio a cui pensiamo di attaccarci e restar saldi, vien meno e ci abbandona, e se l'inseguiamo sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una fuga eterna. Per noi nulla si ferma. Questa è la nostra naturale condizione, che tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione; desideriamo ardentemente di trovare un assetto stabile, e una base ultima per edificarvi una torre che si levi fino all'infinito; ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra s'apre in abissi.
Nulla può fissare il finito in mezzo ai due infiniti che lo incarcerano e lo fuggono. Quando si è ben capito questo, credo che ognuno potrà tenersi pago dello stato in cui la natura l'ha posto.

[...] Il colmo della nostra impotenza nel conoscere le cose sta nel fatto che queste sono semplici in se stesse mentre noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso: l'anima e il corpo. L'uomo è per se stesso il più prodigioso oggetto della natura; perché non può concepire che cosa sia corpo, e meno ancora che cosa sia spirito, e molto meno ancora come un corpo possa essere unito a uno spirito. Sta qui la sua maggiore difficoltà, e intanto è proprio questo il suo essere: Modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab hominibus non potest, et hoc tamen homo est (Gli uomini non posso capire la maniera con cui l'anima si unisce al corpo, e tuttavia l'uomo è proprio questo. S. Agostino, De Civitate dei, XXI, 10).

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È deplorevole vedere tutti gli uomini deliberare soltanto sui mezzi e mai sul fine. Ognuno pensa come assolvere agli obblighi della propria condizione; ma la scelta della condizione e della patria ci viene dalla sorte. E' pietoso vedere tanti turchi, tanti eretici, tanti infedeli seguire le abitudini dei loro padri, per il solo fatto che ognuno di essi è stato prevenuto che quelle sono le migliori.

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Toccando l'uomo, crediamo di toccare un organo ordinario. A dir vero, gli uomini sono organi, ma bizzarri, mutevoli, variabili (le cui canne non si susseguono in una gradazione continua). Quelli che sanno toccare soltanto organi ordinari non riuscirebbero a trarre armonie dagli altri. Bisogna sapere dove sono i tasti.

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Noi consideriamo le cose non soltanto sotto altri aspetti ma anche con altri occhi; non ci interessa trovarle uguali.

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Descrizione dell'uomo: dipendenza, desiderio d'indipendenza, bisogno.

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Nulla è tanto insopportabile per l'uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l'affanno, il dispetto, la disperazione.




Niente ci piace tanto quanto la lotta, ma non la vittoria: ci piace veder lottare gli animali tra loro ma non il vincitore accanirsi sul vinto; che cosa volevamo vedere se non la fine della vittoria? Ed ecco, appena arriva, ne siamo stufi. Così è nel gioco, così è nella ricerca della verità. Nelle polemiche prendiamo gusto a vedere il contrasto delle opinioni; ma non ci interessa contemplare la verità ritrovata; per farla notare con piacere, bisogna farla veder nascere dalla polemica. Così nelle passioni; ci piace veder il contrasto di due passioni, ma se una prende il sopravvento, non è che brutalità. Non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose.

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Basta poco per consolarci, perché basta poco per affliggerci.

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La nostra natura sta nel movimento; il completo riposo è la morte.

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La vanità è così radicata nel cuore dell'uomo che un soldato, un manovale, un cuoco, un facchino si vanta e può avere i suoi ammiratori; gli stessi filosofi ne vogliono; e quelli che scrivono contro la gloria vogliono avere la gloria d'aver scritto bene; e quelli che li leggono vogliono avere la gloria di averli letti; e forse anch'io che scrivo queste cose ne ho voglia; e forse anche quelli che mi leggeranno...

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Curiosità non è che vanità. Spessissimo si vuol sapere solo per parlarne. Diversamente chi viaggerebbe sul mare, per non parlarne mai e per il solo piacere di vedere, senza mai la speranza di comunicarlo ad altri?

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Chi volesse conoscere a fondo la vanità dell'uomo non ha che da considerare le cause e gli effetti dell'amore. La causa è un non so che (Corneille), e gli effetti sono spaventevoli. Questo non so che, una cosa tanto da nulla che non si può neppure determinare, sconvolge tutta la terra, i principi, gli eserciti, il mondo intero.
Il naso di Cleopatra: se fosse stato più corto, la faccia della terra sarebbe cambiata.

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Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici.

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Non stiamo mai nei limiti del tempo presente. Anticipiamo l'avvenire come se fosse troppo lento ad arrivare, quasi per affrettare il suo corso; oppure rievochiamo il passato per fermarlo, quasi troppo precipitoso; siamo così imprudenti da scorazzare in tempi che non ci appartengono, e da non pensare all'unico tempo che ci appartiene; siamo così fatui che sogniamo i tempi che non esistono più, e sfuggiamo senza rifletterci il solo che sussiste. Perché, di solito, il presente ci tormenta. Lo nascondiamo alla nostra vista perché ci affligge; e se è piacevole, ci lamentiamo di vederlo fuggire. Cerchiamo di sostenerlo con l'avvenire, e pensiamo di disporre le cose che non sono ancora in nostro potere, in un tempo a cui non abbiamo alcuna sicurezza di arrivare.
Ognuno esamini i propri pensieri, e li troverà occupati nel passato e nell'avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente; e, se ci pensiamo, l'è soltanto per prenderne lume a disporre dell'avvenire. Il presente non è mai il nostro scopo; il passato e il presente sono i nostri mezzi; soltanto l'avvenire è il nostro scopo. Per questo, non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo diverremo giammai.

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Corriamo senza curarci del precipizio, dopo d'aver messo qualcosa davanti a noi per impedircene la vista.




3. Necessità della scommessa

È un dovere indispensabile cercare quando si è nel dubbio; e per questo, chi dubita e non cerca è insieme abbastanza infelice e abbastanza ingiusto. E se costui rimane tranquillo e soddisfatto di ciò, se se ne vanta e se infine ne fa un motivo di gioia e di vanità, allora non trovo un termine adatto per una creatura così stravagante.

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La sensibilità dell'uomo per le piccole cose e l'insensibilità per le grandi è segno di uno strano pervertimento.

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Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell'eternità che precede e che segue il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che m'ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c'è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per comando e per opera di chi mi sono stati destinati questo luogo e questo tempo? Memoria hospitis unius diei praetereuntis (La speranza dell'empio dilegua come la memoria dell'avventore d'un sol giorno - Sapienza, V, 14).

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Il silenzio eterno degli spazi infiniti mi sgomenta.

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Il fluire. E' orribile accorgersi che dilegua tutto quello che possediamo.

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Tra noi da una parte e l'inferno o il cielo dall'altra non c'è che la vita, che è la cosa più fragile che esista.

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Dialogo: Infinito. Niente.-  Cominciamo col dire: 'Dio esiste oppure non esiste?'. Da che parte ci decideremo? La ragione non può decidere nulla; c'è di mezzo un caos infinito. Si gioca una partita, all'estremità di questa distanza infinita, dove risulterà capo o croce. Su che cosa puntate? Secondo ragione, non potete scegliere né l'uno né l'altro; secondo ragione, non potete escludere nessuno dei due. Dunque non accusate di falsità coloro che hanno fatto una scelta; perché non ne sapete niente.

- No, ma io li biasimo d'aver fatto non già questa scelta, ma una scelta; perché, anche se tanto colui che sceglie croce quanto l'altro incorrano in un errore analogo, sono sempre tutti e due in errore; la cosa migliore è di non scommettere.

- Si, ma bisogna scommettere. Questa non è una cosa volontaria; voi siete imbarcato. Quale dei due sceglierete? Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa meno. Voi avete da perdere due cose: il vero e il bene, e due cose da impegnare; la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria. La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l'uno piuttosto che l'altro, perché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto assodato. Ma la vostra beatitudine? Valutiamo allora il guadagno e la perdita, scegliendo croce, cioè l'esistenza di Dio. Se guadagnate, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare.





4. I mezzi per credere

Esistono tre categorie di individui: quelli che servono Dio dopo di averlo cercato; quelli che si sforzano di cercarlo senza ancora trovarlo; quelli che vivono senza cercarlo e senza averlo trovato. I primi sono ragionevoli e felici, gli ultimi sono pazzi e infelici, quelli di mezzo sono infelici e ragionevoli.

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Il dover mangiare e dormire tutti i giorni non ci annoia perché la fame rinasce, e così il sonno; se non fosse così, ci annoieremmo. Similmente, senza la fame delle cose spirituali, ne sentiamo disgusto. Fame della giustizia: ottava beatitudine.

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L’ultimo passo della ragione è di riconoscere che c’è un’ infinità di cose che la sorpassano; essa è debole se non arriva a conoscere questo. Se le cose naturali la sorpassano, che dire delle cose soprannaturali?

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Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce; lo vediamo in mille cose. Io dico che il cuore ama l’essere universale naturalmente e se stesso naturalmente, a seconda a chi dei due si attacca; e s’indura contro l’uno o l’altro a sua scelta. Voi avete respinto l’uno e conservato l’altro: è forse seguendo la ragione che amate il vostro io?

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Ragione degli effetti. La debolezza dell’uomo è la causa di tante virtuosità convenzionali, come il saper suonare bene il liuto. Questo è un male soltanto a causa della nostra debolezza.

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Non si riesce a immaginare Platone e Aristotele se non con gran vesti di pedanti. Erano invece delle persone comuni e ridevano, come gli altri, con i loro amici; e quando si sono divertiti a scrivere le Leggi e la Politica, l’hanno fatto per divertirsi; questa era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita, mentre la più filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente. Se hanno scritto di politica, l’han fatto come per dar norme per un manicomio; e se hanno finto di parlarne come di cosa seria, l’hanno fatto perché i pazzi a cui si rivolgevano credevano di essere re e imperatori, ed essi si immedesimavano dei princìpi di costoro per rendere la loro follia meno dannosa possibile.




5. I filosofi

L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e sa la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente.
Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensar bene: questo è il principio della morale.

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Canna pensante. Non devo chiedere la mia dignità allo spazio ma al retto uso del mio pensiero. Non otterrei nulla di più col possesso delle terre; mediante lo spazio, l’universo mi circonda e mi inghiotte come un punto; mediante il pensiero, io lo comprendo.

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La natura dell’uomo non è di avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi. La febbre ha i suoi brividi e i suoi ardori; il freddo mostra, tanto quanto il caldo, l’intensità dell’ardore della febbre. Le invenzioni degli uomini procedono di secolo in secolo allo stesso modo. La bontà e la malizia del mondo, in genere, fanno lo stesso. 

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L’eloquenza continua annoia. I principi e i re talvolta giuocano. Non stanno sempre sul trono; vi si annoiano: la grandezza ha bisogno di essere lasciata per essere sentita. La continuità disgusta sempre: il freddo è piacevole perché dopo ci si riscalda. La natura agisce per progressi, itus et reditus. Passa e ritorna, poi va più lontana, poi due volte meno, poi più lontano ancora, ecc. Il flusso del mare procede così, il sole sembra avanzare così.

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Il caso dà i pensieri e il caso li toglie; non c’è nessun’arte per conservarli o per acquistarli. Pensiero sfuggito: lo volevo scrivere; scrivo invece che mi è sfuggito.

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Ho visto che tutti i paesi e tutti gli uomini mutano; e così, dopo molti mutamenti di giudizio riguardanti la vera giustizia, ho conosciuto che la nostra natura non era che un continuo cambiamento, e da allora non ho più cambiato; e se cambiassi, confermerei la mia opinione.

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Non è un bene essere troppo libero. Non è un bene sentire tutte le necessità. 

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La grandezza dell’uomo è grande in questo: che si riconosce miserabile. Un albero non sa di essere miserabile. Dunque essere miserabile equivale a conoscersi miserabile; ma essere grande equivale a conoscere di essere miserabile.

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Gli uomini sono così necessariamente folli che il non essere folle equivarrebbe a essere soggetto a un’altra specie di follia.

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È pericoloso mostrar troppo all’uomo quanto è simile alle bestie, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è ancora pericoloso mostrargli troppo la sua grandezza senza la sua bassezza. È ancor più pericoloso lasciargli ignorare l’una e l’altra. Ma è utilissimo prospettargli l’una e l’altra. Non bisogna far credere all’uomo di essere uguale alle bestie o agli angeli, né bisogna fargli ignorare l’una e l’altra cosa, ma è necessario che conosca l’una e l’altra cosa.




6. La morale e la dottrina

L’uomo non sa in qual posto collocarsi. Egli è visibilmente sviato, ed è caduto dal suo vero posto senza poterlo ritrovare. Lo cerca dappertutto con inquietudine e senza successo tra tenebre impenetrabili. Ma c’è abbastanza luce per coloro che desiderano vedere e c’è abbastanza oscurità per coloro che hanno una disposizione contraria.

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Poiché spesso si sogna di sognare inserendo un sogno nell’altro, la vita potrebbe essere essa stessa un sogno, sul quale si innestano gli altri e da cui ci svegliamo con la morte; inoltre durante questa vita possediamo pochi principi del vero e del bene come durante il sonno naturale, e questi differenti pensieri che in essa ci agitano non sono forse che illusioni, simili al trascorrere del tempo e alle vane fantasie dei nostri sogni.

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Noi siamo pieni di cose che ci spingono fuori di noi. Il nostro istinto ci fa sentire che bisogna cercare la felicità fuori di noi. Le nostre passioni ci spingono verso l’esterno, anche quando non ci si offrono degli oggetti esterni per eccitarle; gli oggetti esterni ci tentano da sé e ci invitano, anche quando non ci pensiamo. E così i filosofi hanno voglia di dire: ‘Ritiratevi in voi stessi e troverete il vostro bene’; nessuno ci crede, e coloro che ci credono sono i più vuoti e i più stupidi.

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Tutti errano, e tanto più pericolosamente in quanto ognuno di essi segue una verità. Il loro errore non consiste nel seguire una cosa falsa, ma nel non seguire un’altra verità.




lunedì 19 maggio 2014

Deretani in rientro


Ne Le sorgenti della musica, pietra miliare dell'antropologia culturale oltreché della musicologia, Curt Sachs scrive:

Nel senso più ampio del termine, il mutamento culturale è un elemento permanente della civiltà umana; continua dappertutto e in ogni tempo. Può essere indotto da fattori e da forze spontaneamente sorti all'interno della comunità, e può aver luogo attraverso il contatto tra culture differenti. Tutti gli elementi della cultura, arte compresa, debbono cambiare, sotto l'impatto dell'interscambio tribale, del talento o di quella variante spontanea che i biologi chiamano mutazione.

Il cambiamento (evitando di proposito il termine 'progresso') necessita dunque di transumanze, di spostamenti fisici. In questo modo uomini provenienti da luoghi diversi possono incontrarsi (o scontrarsi) perseguendo i propri interessi e realizzando, al contempo, ciò che noi chiamiamo storia, arte, cultura. Per questo motivo accuso una istantanea orticaria quando mi capita sott'occhio il titolo ad effetto della rubrica Cervelli in fuga. In essa ci viene sottoposto sempre lo stesso predicozzo da parte dei nostri connazionali emigrati. Loro, abbandonando l'ingrata Italia che non è riuscita a valorizzarli, “ce l'hanno fatta”. All'immancabile domanda sui rimpianti: il sole o il cibo.

Una semplice domanda sorge spontanea: non essendo più possibile partire con le tasche bucate e la valigia di cartone verso le Americhe, chi pensa di andare a stabilirsi in un Paese estero, qualcosina deve aver messo da parte. E non alludo solo alle risorse economiche ma soprattutto alla formazione e alle competenze professionali. Ergo, l'Italia qualcosa gliel'ha data ai cervelli in fuga. Senz'altro il nostro Paese non spicca certo per meritocrazia e trasparenza; ma questo non implica che chi è 'costretto' (uso il virgolettato perché di fronte a simili scelte non siamo mai costretti, bensì ci autoconvinciamo di esserlo per legittimare il nostro bisogno di ricevere nuovi stimoli) a partire sia nella stessa situazione del condannato alla sedia elettrica.
Infine, un'ultima domanda. Le statistiche, è vero, sono impressionanti (http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/10/emigrazione-lanno-scorso-95mila-italiani-hanno-fatto-le-valigie-55-rispetto-al-2011/980309/), ma per quanti italiani si professano felici lontano dall'Italia, quanti sono quelli che sono stati 'costretti' a ritornare delusi? Perché nessuno parla di loro? Come potremmo chiamarli? Il titolo di questo post vuole essere una provocazione, ma anche una proposta.

Concludo con le parole di qualcuno che la storia d'Italia ed i pregi e difetti dei suoi connazionali li conosceva bene, Benedetto Croce. Tant'è che un suo lavoro del 1948, dal titolo Quando l'Italia era tagliata in due, già ci metteva in guardia dagli idioti separatismi, dedicando la sua fatica letteraria “Alla mia Napoli che non ha chiesto né vagheggiato autonomie e separatismi religiosamente fedele a quella idea dell'unità nazionale che i suoi uomini del 1799 propugnarono tra i primi dedico il diario di un periodo nel quale separati di fatto all'Italia di continuo pensammo anelando di tornare tutt'uno con lei”. Il saggio dal quale ho estratto quanto seguirà è Un paradiso abitato da diavoli, contenuto nell'omonima antologia pubblicata da Adelphi nel 2006. Il paradiso è la città in cui visse e morì Croce, Napoli, ma sono sicuro che ciascuno di noi non potrà fare a meno di sentirsi coinvolto nella disamina crociana del consolidato pregiudizio.

È un proverbio che ora non ha più corso, ma che per più secoli ebbe corso, questo: che Napoli fosse un paradiso abitato da diavoli. […] Una volta, quel proverbio assurse agli onori di una solennità accademica, preso come testo di una pomposa orazione, e illustrato e commentato innanzi a un decoroso uditorio, che era stato convocato apposta per l'occasione. Un giovane dotto tedesco chiamato Giovanni Andrea Buhel, ebbe un'idea di quelle che si sogliono chiamare 'geniali'.
Pensò di celebrare nell'università di Altdorf presso Norimberga (una piccola università sorta ai primi del Seicento e abolita ai primi dell'Ottocento) la presa di Gaeta e la riunione del Regno di Napoli ai domini di casa d'Austria con un'orazione che togliesse ad argomento, e svolgesse e dimostrasse nei particolari, la verità del proverbio volgare, che 'il Regno di Napoli è un paradiso, ma abitato da diavoli'. Detto fatto, l'11 novembre del 1707 il professore di morale, oratoria e poetica dell'università di Altdorf, Daniele Omeis, distribuì il programma, invitando alla cerimonia il magnifico rettore, i venerandi e celeberrimi padri accademici, e i cittadini studiosi; e illustrò il significato di quell'invito con un discorso dal titolo: Proverbium Italorum: Regnum Neapolitanum Paradisus est, sed a Diabolis habitatus, ulterius explicatum.

Il discorso, dopo il saluto d'obbligo, cominciava col rammentare la grave dignità, l'esimia utilità e l'insigne eleganza degli adagi o proverbi. Entrava poi subito nell'amplificare e particolareggiare la prima parte del proverbio oggetto di discussione, guidando gli uditori a un ideale viaggio, non ai Campi Elisi, cui si accede solo dopo la morte, ma a una 'terra fortunata, regio fertilissima, elegantissima Naturae gemma'. Sito georgrafico,venti, monti, fiumi, città, promontori, porti, prodotti del suolo erano fatti passare dinanzi alla fantasia degli uditori con gridi di ammirazione: e le auree messi e i neri grappoli e le selve di cedri e i giardini di fichi; e i gigli e le rose e le vile; e i pesci d'ogni sorta e le ostriche d'ogni varietà; e poi ancora i bovi e i muli e i cavalli, famosi in tutta Europa. 'O mirandam itaque Campaniae foecunditatem! O stupendam Neapolis opulentiam! O insignem Regni huius felicitatem!'.

Ma da queste esclamazioni di rapimento rampollavano, e quasi scoppiavano per contrasto, le altre di ripugnanza e d'orrore con le quali passava a svolgere, con la stessa puntuale diligenza usata per la prima, la seconda parte della sua tesi.
Vi passava, com'egli dice, con lingua tremebonda, tanti erano i Neapolitanorum facinora, di cui gli toccava parlare; giacché l'Inferno non escogitò quasi nessuna scelleratezza di cui cotesta nazione di uomini non sia bruttata. E già gli antichi movevano querele contro di essa, descrivendo le lascivie e il lusso di Capua e di tutta la Campania; e ancor oggi Giovanni Andrea Bosio, uomo chiarissimo, attesta che le donne napoletane, pur dell'infimo popolo, gareggiano nella superbia delle vesti con le principesse, e molte preferiscono soffrire la fame per più giorni pur di fare splendida comparsa in pubblico nelle feste. Ma degli altri loro vizi, eloquar an sileam? Il pudore rattiene dal dire che è tanta la loro lussuria che in Napoli vi ha maggior numero di meretrici che in ogni altra città italiana; che i napoletani sono ambiziosi e cupidissimi di titoli e di onori, amantissimi delle liti, insolenti e vantatori nel parlare, e pieni di vanità, superbi, prepotenti, sospettosi e grandi giocatori, avidi di vendetta, gelosi, dediti all'ozio, amatori di novità a segno che dal tempo dei re normanni fino all'anno 1632 si sono noverate cinquantaquattro ribellioni nel loro paese; che la plebe è così ingannatrice, specie nel giocare, e per solito di così maligno umore, che a buon diritto dai rimanenti popoli d'Italia i napoletani sono giudicati pessimi tra i pessimi, e piena conferma riceve dai fatti la verità del proverbio universalmente ripetuto, il quale quanto esalta quella terra, altrettanto ne vitupera gli abitatori.

[…] L'interpretazione che il Buhel dava dell'antico proverbio italiano, la forma in cui lo svolgeva, è tale da suscitare un largo ed ilare riso e, ad una con questo, il facile rigetto di quel proverbio come di una troppo grossa stupidità. Ma la stupidità è la comune sorte a cui vanno incontro i motti satirici e i giudizi sui popoli.
Siffatti giudizi soffrono di difficoltà obiettive, e perché sono sempre giudizi del 'per lo più', come avrebbe detto Aristotele, giudizi di prevalenza (di una prevalenza a stabilir la quale non soccorrono metodi sicuri), e perché mantengono carattere statico dinanzi alla vita dei popoli, che è dinamica e cangevole; e poi, formolati che siano su talune osservazioni, per taluni tempi e luoghi, con riferenza a taluni aspetti della realtà, soffrono dell'altro malanno di venire irrigiditi, resi assoluti, interpretati fantasticamente, e diventano sostegno di leggende o menzogne convenzionali. Anche la loro origine subiettiva è sovente torbida per passioni, contrasti d'interessi, capricci, leggerezze, favorita da quella mancanza di responsabilità, che rende baldanzosi, appunto perché un popolo non è in grado di ribattere le calunnie come un individuo e alle sofistiche accuse scopre assai più indifeso il fianco che non gl'individui. Gli sciocchi, gl'ingenerosi, i combattitori a vuoto e con poca spesa e con poco rischio, i plebei di cuore e di mente, sono perciò sempre proclivi a ingiuriare i popoli; della qual cosa si sono visti, anche di recente, esempi nauseabondi.
Nondimeno, pur tenendo nel debito conto tutte codeste avvertenze, è un fatto che caratteriologie psicologiche di popoli e nazioni, e giudizi morali intorno ad essi, si sono sempre dati e si danno ancor oggi, e rispondono a una necessità mentale, e debbono avere perciò la loro verità o il loro granello di verità.
E se, come io suppongo, quel proverbio italiano sorse nel Trecento, o anche nel caso che non sia più antico del quattrocento, la sua verità si ritrova facilmente nello spettacolo dell'anarchia feudale che il Regno di Napoli offriva in quei secoli ai cittadini dei Comuni e delle Repubbliche dell'Italia media e superiore, e nell'altro, congiunto, della rozzezza, dei vizi nascenti dalla povertà e dall'ozio, che esso offriva agli alacri mercanti fiorentini e lucchesi e pisani e veneti e genovesi, che qui si recavano per traffici. La sua verità era, insomma, nelle manchevolezze della vita civile e politica di questa parte d'Italia. Né nei secoli seguenti ci fu ragione di lasciarlo cadere in desuetudine, perché brigantaggio e violenza di plebi cittadine e tumulti e persistente rozzezza, e mali abiti, e povertà, e difetto di industrie e di operoso costume gli ridavano a volta a volta un contenuto attuale.

[…] Accade, d'altra parte, che, pur nella poco alacre vita civile e politica, l'umana virtù si affermi nei particolari, contrastando al generale, e talora negli episodi, e perfino essa sorga dal mezzo stesso dei vizi, come loro correlativo. Onde un popolo che non ha bastevole affetto per la cosa pubblica potrà avere assai vivo quello per la famiglia, per la quale sarà disposto ogni sacrificio; un popolo indifferente avere la chiaroveggenza dell'indifferenza; un popolo poco operoso nei commerci e negli affari valer molto nella contemplazione dell'arte e nelle indagini dell'intelletto; un popolo privo di spirito di gloria saper ben cogliere il gonfio e il falso delle umane ambizioni e operare nel riso un lavacro di verità. E via discorrendo.
Sulla logica di queste considerazioni, il popolo napoletano è stato perfino più volte difeso, e il suo atteggiamento verso la vita ha suscitato simpatie, specie negli artisti, nei sentimentali e nei grandi dilettanti; e anche ai giorni nostri, in tanto stridore di cozzanti passioni politiche, Napoli è apparsa come un'oasi nella quale sia possibile ritrarsi per obliare, riposare e respirare in mezzo a un popolo che di politica non cura o, tutt'al più, la prende a mera materia di chiacchiera e, chiacchierandone senza riscaldarsi, spesso la giudica con spregiudicato acume.
Tutto bene: ma ciò non toglie che, quando poi si passa all'altro 'piano di conoscenza', quando si torna a guardare, con interessamento e sollecitudine politica, all'unità e al ritmo generale della vita, la riprovazione si rinnovi; e sempre si rinnoverà fino a quando alle umane società sarà necessaria una robusta vita etico-politica.

Per questa parte, l'antico proverbio italiano non ha ancora perso del tutto la sua verità, sebbene sia uscito di moda e caduto in dimenticanza per la sua forma, che non risponde più al sentire odierno. Non vi risponde per quelle immagini, diventate trite e sbiadite e poco efficaci, di 'paradiso' e di 'diavoli'; non vi risponde per quel suo porre come carattere naturale e immutabile ciò che una lunga educazione mentale ci ha ammaestrati ormai a considerare e a trattare come storico e trasformabile e mutevole. Ma quando qualche odierno sociologo, considerando l'Italia meridionale col termine di confronto non più del suo ruolo o del suo paradiso ma di altri paesi di Europa e di Italia, dice che qui c'è stato 'arresto di sviluppo sociale', e parla per essa, se anche non per essa sola, di un''Italia barbara', che cosa fa se non ripetere, in gergo di scienza moderna, l'antico proverbio?
[…] Non solo anche qui c'è stata, nei secoli, un'alta vita morale e intellettuale, ma ci sono stati anche qui, nei secoli, coloro che hanno amato e sofferto e operato per la loro patria, e anche qui si è compiuta opera di avanzamento civile e politico, che solo gl'ignari di storia possono leggermente disconoscere. E se ancor oggi noi accettiamo senza proteste o per nostro conto rinnoviamo in diversa forma l'antico biasimo, e se, anzi, non lasciamo che ce lo diano gli stranieri o gli altri italiani ma ce lo diamo volentieri noi a noi stessi, è perchè stimiamo che esso valga da sferza e da pungolo, e concorra a mantener viva in noi la coscienza di quello che è il dover nostro. E, sotto questo aspetto, c'importa poco ricercare fino a qual punto il detto proverbiale sia vero, giovandoci tenerlo verissimo per far che sia sempre men vero.

giovedì 6 marzo 2014

DAIMONES. Una breve passeggiata infernale

Padova, Cappella degli Scrovegni. Entro e mi ritrovo lanciato nel Giudizio universale di Giotto.


Due dettagli colpiscono la mia attenzione.

  1. I corpi flaccidi dei dannati, appesi come lenzuoli o ammucchiati con grande efficienza dai diavoli;
  2. Satana che si ingozza con un corpo di cui si vede solo il lato B (forse il lato A è quello che sbuca più sotto dai genitali).






L'impatto con questo capolavoro dovrebbe essere devastante. Eppure non sento ribrezzo, tutt'altro. Sembra d'assistere ad una commedia, con i diavoli costretti a sgobbare per un padrone ingordo qual'è il Satana ritratto da Giotto. Anche da morto un uomo riesce ad essere un peso per gli altri. Impressioni analoghe le ho avute di fronte ad alcune opere di Bosch come La caduta dei dannati ed Il giudizio finale, veri e propri trionfi del terrore e del grottesco. La fantasia del pittore fiammingo sembra infatti sconfinata: i corpi dei dannati vengono fatti a pezzi, morsi da serpi, bruciati in forni o strapazzati come delle uova in padella.



A differenza della mia, la reazione di un uomo del Trecento o del Cinquecento di fronte a simili opere non dev'essere stata piacevole. Non a caso la migliore alleata della Chiesa per 'rinsaldare' la fede cristiana era proprio la paura. Scrive Walter Bosing nella sua monografia dedicata a Bosch: “Per noi non è semplice comprendere l'inferno di Bosch così come lo dovettero comprendere i suoi contemporanei. Possiamo immaginare che questi, perfettamente informati dalla letteratura e dalle innumerevoli prediche sulle sofferenze dei dannati, potessero sperimentare direttamente il gelo ed il calore dell'inferno ed avessero il respiro mozzato dal fumo e dai vapori puzzolenti che salivano. Probabilmente potevano udire gli strepiti ed i sibili dei demoni, ma soprattutto le grida dei condannati al supplizio. […] I mistici affermavano che il peggior supplizio che i dannati avrebbero dovuto patire all'inferno sarebbe stata la certezza che lo sguardo divino era loro negato per l'eternità. Per la maggior parte degli uomini però le sofferenze dell'inferno erano soprattutto fisiche, e così immense, che, come dice una predica medievale, quelle di questa vita sarebbero apparse degli unguenti”.


Schopenhauer, nei magistrali paragrafi 57, 58 e 59 del quarto libro de Il mondo come volontà e rappresentazione, compie un'operazione analoga a quelle di Giotto e Bosch. Egli riesce a sintetizzare con poche righe l'ineluttabile destino dell'uomo, consegnato ai suoi mille bisogni, quindi alla sofferenza ed, infine, alla morte.

L'uomo è il più bisognoso fra tutti gli esseri: egli è, completamente, concreto volere e bisogno, è una concrezione di mille necessità. Con queste egli sta sulla terra, abbandonato a se stesso, incerto su tutto, ma non sulla sua indigenza e sul suo bisogno. [...] Volere ed aspirare costituiscono la sua essenza, paragonabili ad una sete inestinguibile. Il fondamento di ogni volere è il bisogno, la mancanza, dunque il dolore, di cui l'uomo, di conseguenza è vittima già in origine. Se invece gli vengono a mancare gli oggetti del volere, dal momento che il troppo facile appagamento glieli riporta subito via; allora egli viene assalito da un terribile vuoto e dalla noia. La sua vita oscilla dunque, come un pendolo, in qua e in là, fra il dolore e la noia, che sono entrambi gli elementi costitutivi di quella. Ciò, molto singolarmente, ha dovuto anche esprimersi attraverso il fatto che, avendo l'uomo trasferito nell'inferno tutte le sofferenze ed i tormenti, per il cielo non rimase nulla se non appunto la noia. [...] Da dove altro Dante ha ricavato la materia per il suo Inferno, se non da questo nostro mondo reale? Tuttavia è riuscito un inferno molto ben strutturato. Al contrario, allorché pervenne al compito di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà insormontabile, appunto perché il nostro mondo non offre assolutamente materiali per qualcosa di simile. […] Invano il tormentato invocherà i suoi dèi per essere aiutato: egli resterà impietosamente abbandonato al suo destino. L'uomo è sempre rimandato a se stesso”.


Tuttavia, la condizione umana può apparire diversa a seconda della prospettiva da cui la si analizza:

La vita di ogni singolo, se la si abbraccia con lo sguardo nella sua totalità e generalità, mettendone in risalto soltanto i tratti importanti, è sempre in verità una tragedia, ma esaminata in particolare, essa ha il carattere di una commedia. Infatti, l'animazione e il tormento quotidiani, l'assillo incessante del momento, i desideri e i timori della settimana, gli incidenti di ogni ora, attraverso il caso che mira costantemente alla burla, sono solo scene di una commedia. Ma i desideri non esauditi, l'aspirare vanificato, le speranze spietatamente calpestate dal destino, gli infelici errori di tutta la vita, con le crescenti sofferenze e la morte alla fine, formano sempre una tragedia. La nostra vita, dunque, deve contenere tutti i dolori, come se il destino avesse voluto aggiungere alla miseria della nostra esistenza anche la derisione, e noi al tempo stesso non possiamo neppure conservare la dignità di personaggi tragici ma, nei diffusi casi particolari della vita, siamo attori da commedia necessariamente ridicoli”.


A questo punto l'uomo cerca di reagire, non sapendo però di stare peggiorando la propria condizione: 

Non ancora contento di preoccupazioni, di afflizioni e di occupazioni, che il mondo reale gli addossa, […] l'uomo si crea, a propria immagine, demoni, dèi e santi, ai quali devono essere incessantemente offerti sacrifici, preghiere, ornamenti dei templi, voti ed il loro adempimento, pellegrinaggi, accoglienze, abbellimento delle immagini ecc. Il loro culto s'intreccia ovunque con la realtà, anzi la oscura: ogni avvenimento della vita è allora accettato come un effetto dell'azione di quegli esseri; i rapporti con loro riempiono la metà della vita, mantengono costantemente la speranza e, mediante lo stimolo dell'illusione, diventano spesso più interessanti di quelli con la vita reale. Essi sono l'espressione ed il simbolo del doppio bisogno dell'uomo, in parte di aiuto e di assistenza, e in parte di occupazione e passatempo; e quantunque egli addirittura contrasti spesso il primo bisogno, mentre, negli incidenti e pericoli che si presentano, sono spesi inutilmente tempo prezioso ed energie in preghiere e sacrifici, al posto di impedirli; tanto meglio egli si mette al servizio del secondo bisogno, mediante quel rapporto immaginario con un onirico mondo degli spiriti: e questo è il profitto, niente affatto disprezzabile, di tutte le superstizioni".

In memoria di Manlio Sgalambro

lunedì 3 febbraio 2014

Un amaro

Leggere Cioran è per me come bere un amaro. Ne conosco in anticipo il sapore sferzante, ma allo stesso tempo so che ne vorrò un altro, e un altro ancora.


Nell'ordine dello spirito, ogni produzione priva di necessità è un peccato contro lo spirito. Lo scrittore in quanto tale si trova in stato di peccato mortale.


Nei paesaggi che amiamo le nostre infermità assumono un colore diverso. Qui l'insonnia non è un male, ma soltanto una certa impossibilità.


Non ho conosciuto nessuna gioia che non abbia, in un modo o nell'altro, espiato.
(Ho espiato ogni gioia, ho pagato per ogni piacere. Sono pari con la sorte, ho saldato tutti i conti con Dio).


Ascoltare il vento dispensa dalla poesia, è poesia.


Poiché non sappiamo quanto ci resta da vivere, il dovere verso noi stessi ci impone di fare solo ciò che interessa particolarmente il nostro essere. Non ricerche: ma cercare prima di tutto noi stessi. Che importano gli altri! E' dal centro di noi stessi che potremo risolvere i loro problemi, ammesso che si possano risolvere i problemi altrui.
D'altronde quaggiù nulla è risolto, perché nessuno si prende la briga di sapere a che punto è rispetto a se stesso.


Ci vogliono compensazioni ai nostri dolori. E non c'è niente di più triste che affrontare delle prove in uno scenario qualunque.


Acquistiamo in coscienza ciò che perdiamo in esistenza. Quello che i nostri mali ci fanno perdere in essere lo acquistiamo in coscienza.
Il vuoto che le nostre infermità suscitano nel nostro essere è colmato dalla presenza della coscienza, anzi, questo vuoto è la coscienza stessa.


Avere genio significa riuscire a digerire le influenze fino a farne perdere le tracce.


24 Agosto. Talamanca. Andare un'ultima volta a contemplare il tramonto dal mulino a vento. Nessuno nei paraggi, silenzio. Il cielo e il mare. Ibiza di fronte. [...] Vivere lontano dal Mediterraneo è un errore. Come ho potuto per tanto tempo sacrificare al pregiudizio del Nord? Tutte le mie sventure, diciamo delusioni, vengono da lì.


Mentre facevo ogni sorta di amare riflessioni, guardavo quei pini, quelle rocce, quelle onde 'visitate' dalla luna, e improvvisamente ho sentito fino a che punto sono inchiodato a questo bell'universo maledetto.


"Non posso fare distinzione tra la musica e le lacrime" (Nietzsche). Chi non lo capisce istantaneamente non ha mai vissuto nell'intimità della musica. Ogni vera musica è sgorgata dalle lacrime, nata com'è dal rimpianto del paradiso.


La morte non ha senso se non per coloro che hanno amato appassionatamente la vita. Morire senza avere niente da lasciare! Il distacco è negazione della vita come della morte. Chi ha vinto la paura di morire ha anche trionfato della vita, che è solo l'altro nome di questa paura.
I vagabondi, che si rifiutano di morire nel loro letto, si potrebbe dire che non muoiano affatto. Si muore soltanto distesi, in quella lunga preparazione con la quale chi vive sconta, goccia a goccia, la propria morte. Quando non c'è niente che ci leghi a un posto, che rimpianti si possono avere negli ultimi istanti?


Soltanto il paradiso o il mare potrebbero farmi rinunciare alla musica.


Chi ha vinto la paura di morire può credersi immortale, ma chi non la conosce lo è. La paura è una morte di ogni istante.


Si crede in Dio soltanto per evitare il monologo tormentoso della solitudine.


Troppo manchiamo di saggezza per non amare il destino con dolorosa passione.


Avrò in me abbastanza musica da non scomparire mai? Vi sono adagi dopo i quali non si può imputridire.


Il vino ha fatto più della teologia per avvicinare gli uomini a Dio.


Credere nella filosofia è segno di buona salute. Non lo è, invece, mettersi a pensare.


Ci incuriosiscono tra i filosofi soltanto quelli che, esasperati dei sistemi, sono partiti alla ricerca della felicità. Nascono così le filosofie crepuscolari, più consolanti delle religioni perché ci liberano da ogni interdetto.


Che la musica non sia in alcun modo di essenza umana ne è prova il fatto che essa non suscita mai la rappresentazione dell'inferno. Nemmeno le marce funebri ci riescono. L'inferno è un attualità, e questo significa che noi serbiamo memoria soltanto del paradiso.


Capire i poeti è una grande maledizione, perché ci insegnano a non avere più niente da perdere.


Tra il niente e Dio c'è meno di un passo, perché Dio è l'espressione positiva del niente.


Ogni ricordo è un sintomo malsano. La vita come stato puro, come fenomeno non alterato, è attualità assoluta. La memoria è negazione dell'istinto e la sua ipertrofia una malattia incurabile.


Chi non pensa a Dio rimane estraneo a se stesso.


La meditazione musicale dovrebbe essere il prototipo del pensiero in genere. Soltanto nella musica si dà un pensiero compiuto. Dopo aver letto i filosofi più profondi sentiamo il bisogno di ricominciare da zero. Soltanto la musica ci dà risposta definitive.


Esiste, in arte, un criterio che non sia l'avvicinarsi al cielo?


I bambini, come gli amanti, hanno il presentimento dei limiti della felicità.


Avere sempre amato le lacrime, l'innocenza e il nichilismo. Gli esseri che sanno tutto e quelli che non sanno niente. I falliti e i bambini.


Il fallimento è un parossismo della lucidità; il mondo diventato trasparente all'occhio implacabile di chi, chiaroveggente e sterile, non aderisce più a niente. Anche se incolto, il fallito sa tutto, vede attraverso le cose, smaschera e annulla l'intera creazione.


Perché si è voluto a ogni costo aggiungere qualcosa all'Ecclesiaste che contiene già tutto? Anzi, ciò che non è nell'Ecclesiaste è inficiato di errore. "Allora il mio cuore si è rivolto verso la disperazione. Verso la verità.
Una saggezza eccessiva accresce la nostra amarezza e troppo sapere aumenta la nostra sofferenza".
L'Ecclesiaste è un'esibizione, una rivelazione di verità alle quali la vita, complice di tutto ciò che è 'vano', resiste con accanimento estremo.


"La sofferenza è la causa unica e sola della coscienza" (Dostoevskij). Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che lo hanno capito, e gli altri.


Quando siamo per strada il mondo sembra più o meno esistere. Ma se guardiamo dalla finestra, tutto diventa irreale. Com'è possibile che la trasparenza di un vetro basti a separarci fino a questo punto dalla vita? In realtà, una finestra ci allontana dal mondo più del muro di una prigione. A forza di guardare la vita, si finisce per dimenticarla.


Più leggo i pessimisti, più amo la vita. Dopo una lettura di Schopenhauer reagisco come un fidanzato. Schopenhauer ha ragione di sostenere che la vita è soltanto un sogno. Ma dà prova di grave incoerenza quando, invece di incoraggiare le illusioni, le smaschera facendo credere che al di là di esse ci sia qualcosa.
Chi potrebbe sopportare la vita se fosse reale? Sogno, essa è una mescolanza di terrore e di incantamento alla quale si cede.


Leggere giorno e notte, divorare tomi su tomi, questi sonniferi, perché nessuno legge per imparare ma per dimenticare, risalire alla fonte dell'umor nero esaurendo il divenire e le sue fissazioni!


In mezzo alla gente civile mi scopro come un intruso, come un troglodita innamorato della caducità, sprofondato in preghiere sovversive, in preda a un panico che non emana da una visione del mondo, ma dagli spasmi della carne e dalle tenebre del sangue.