Sono sempre stato scettico a
proposito dei confronti, specialmente tra quegli inafferrabili personaggi quali
sono i musicisti ed i filosofi. Mai quanto oggi per suscitare l'interesse di chi
ascolta o legge è necessaria una spiccata personalità capace di distinguersi
dall'ammasso informazioni (e note) di cui disponiamo. Dunque, stiamo parlando
di persone sostanzialmente irriducibili ad altro da sé. Eppure eccomi qui a
proporvi questo primo confronto: Blaise Pascal e Steve Lacy. Perché loro due? E
soprattutto, perché loro due insieme?
Due sono gli elementi essenziali
che a mio avviso li accomunano: la predilezione per la dimensione 'in solo' ed
una sottile ironia. Certo, i 'filosofi' in genere non eccellono in
socievolezza, preferendo l'intimità della loro riflessione. Tuttavia, è pur
vero che ben pochi non abbiano mai avvertito l'esigenza di mettere in
discussione le loro certezze venendo a contatto con gli altri. E tra questi
pochi figura sicuramente Blaise Pascal. Leggendo i suoi Pensieri non si può fare a meno di ammirare l'incrollabile serenità
con cui il filosofo francese procede nella sua riflessione. Anche la tanto
vituperata scommessa, fraintesa da molti come un freddo calcolo utilitaristico,
rientra in questa dimensione di irriducibile sicurezza nelle proprie ragioni e nella
propria fede cattolica. Proviamo a riassumere il ragionamento pascaliano (se
siete giocatori di poker quanto segue vi risulterà particolarmente familiare).
Chi scommette al gioco rischia un guadagno o una perdita, secondo il calcolo
delle probabilità; più crescono le probabilità di vincita, più il giocatore è
portato a scommettere. Applicando questa regola al problema del destino
dell'uomo, Pascal esorta l'ateo a scommettere per Dio perché, posta un'infinità
di casi, tra i quali uno solo fosse in nostro favore (l'esistenza di Dio e,
quindi, della Divina provvidenza), noi avremmo torto a non
prendere per vera l'unica probabilità a nostro favore. Cosa avremmo infatti da
perderci?
Ma veniamo a Lacy. Sassofonista
(sopranista). Nato a New York da una famiglia di ebrei emigrati dalla Russia,
debutta nel jazz attraverso il dixieland.
L'incontro col pianista Cecil Taylor gli apre il folgorante orizzonte della
libera improvvisazione. Nella sua carriera Lacy collaborerà con altri grandi
come Gil Evans e, soprattutto,
Thelonious Monk (al quale dedicherà il suo capolavoro Reflections). A proposito dello stile di Lacy, è stato detto:
"Lacy sembra sempre parlare a se stesso, il suo sguardo, pur se fisso
verso l'interlocutore, guarda verso di sé. Un uomo che parla molto con se
stesso, anche musicalmente: non sorprende che il concerto 'solo' gli si addica.
Il dialogo privato si fa pubblico. L'unica differenza è nel pubblico. Ma Lacy
non ha paura del pubblico: gli si dona con molta intensità, perché Lacy è
convinto di ciò che fa, crede molto in sé, non ha paura allora di mostrarsi.
Uomo quieto, introverso, melanconico e attento, estremamente attento. Eppure,
quest'uomo assorto emana una sorta di fluido, specie quando è sul palco, dove
quasi non si muove, sposta ogni tanto il piede in avanti, o flette in alto una
gamba, rattrappendosi per un attimo, come se in quel momento la musica dovesse
fuoriuscire con maggior potenza" (M. Luzzi, Uomini e avanguardie jazz,
Gammalibri, Milano 1980, p. 190).
Pascal. 1. Pensieri sullo spirito e sullo stile
La vera eloquenza si burla
dell'eloquenza; la vera morale si burla della morale; voglio dire che la morale
del giudizio se la ride della morale della mente, che è senza regole. Infatti
al giudizio appartiene il sentimento, come alla mente appartengono le scienze.
La intuizione fa parte del giudizio, la geometria della mente. Ridersela della
filosofia significa filosofare per davvero.
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L'ultima cosa che si pensa
scrivendo un libro è sapere che cosa bisogna mettere in principio.
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L'eloquenza è un ritratto del
pensiero; perciò, quelli che dopo aver dipinto aggiungono ancora qualcosa,
fanno un quadro invece di un ritratto.
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Quando siamo di fronte a uno
stile naturale, restiamo stupiti e incantati, perché ci aspettavamo di vedere
un autore e troviamo invece un uomo.
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Volete che gli altri pensino bene
di voi? Non parlatene.
2. Miseria dell'uomo senza Dio
Non si insegna agli uomini a
essere onesti, però si insegna loro tutto il resto; e intanto questi non si
vantano tanto di sapere tutto il resto quanto di essere onesti. Si vantano di
sapere soltanto quello che non hanno mai imparato.
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Troppo vino e troppo poco vino.
Non gliene date, e non potrà trovare la verità; dategliene troppo, e avrete lo
stesso risultato.
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Rendiamoci conto delle nostre
possibilità; noi siamo qualcosa, ma non siamo tutto; quel tanto di essere che
possediamo ci toglie la conoscenza dei primi principi che nascono dal nulla, e
quel poco di essere che possediamo ci nasconde la vista dell'infinito. Che
cos'è in fondo l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto
rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto.
[...] Noi navighiamo in un vasto
mare, sempre incerti e instabili, sballottati da un capo all'altro. Qualunque
scoglio a cui pensiamo di attaccarci e restar saldi, vien meno e ci abbandona,
e se l'inseguiamo sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una
fuga eterna. Per noi nulla si ferma. Questa è la nostra naturale condizione,
che tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione; desideriamo ardentemente
di trovare un assetto stabile, e una base ultima per edificarvi una torre che
si levi fino all'infinito; ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra
s'apre in abissi.
Nulla può fissare il finito in
mezzo ai due infiniti che lo incarcerano e lo fuggono. Quando si è ben capito
questo, credo che ognuno potrà tenersi pago dello stato in cui la natura l'ha
posto.
[...] Il colmo della nostra
impotenza nel conoscere le cose sta nel fatto che queste sono semplici in se
stesse mentre noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso:
l'anima e il corpo. L'uomo è per se stesso il più prodigioso oggetto della
natura; perché non può concepire che cosa sia corpo, e meno ancora che cosa sia
spirito, e molto meno ancora come un corpo possa essere unito a uno spirito.
Sta qui la sua maggiore difficoltà, e intanto è proprio questo il suo essere:
Modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab hominibus non potest, et
hoc tamen homo est (Gli uomini non posso capire la maniera con cui l'anima si
unisce al corpo, e tuttavia l'uomo è proprio questo. S. Agostino, De Civitate
dei, XXI, 10).
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È deplorevole vedere tutti gli
uomini deliberare soltanto sui mezzi e mai sul fine. Ognuno pensa come
assolvere agli obblighi della propria condizione; ma la scelta della condizione
e della patria ci viene dalla sorte. E' pietoso vedere tanti turchi, tanti
eretici, tanti infedeli seguire le abitudini dei loro padri, per il solo fatto
che ognuno di essi è stato prevenuto che quelle sono le migliori.
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Toccando l'uomo, crediamo di
toccare un organo ordinario. A dir vero, gli uomini sono organi, ma bizzarri,
mutevoli, variabili (le cui canne non si susseguono in una gradazione
continua). Quelli che sanno toccare soltanto organi ordinari non riuscirebbero
a trarre armonie dagli altri. Bisogna sapere dove sono i tasti.
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Noi consideriamo le cose non
soltanto sotto altri aspetti ma anche con altri occhi; non ci interessa
trovarle uguali.
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Descrizione dell'uomo:
dipendenza, desiderio d'indipendenza, bisogno.
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Nulla è tanto insopportabile per
l'uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza
preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il
suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il
suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la
tetraggine, la tristezza, l'affanno, il dispetto, la disperazione.
Niente ci piace tanto quanto la
lotta, ma non la vittoria: ci piace veder lottare gli animali tra loro ma non
il vincitore accanirsi sul vinto; che cosa volevamo vedere se non la fine della
vittoria? Ed ecco, appena arriva, ne siamo stufi. Così è nel gioco, così è
nella ricerca della verità. Nelle polemiche prendiamo gusto a vedere il
contrasto delle opinioni; ma non ci interessa contemplare la verità ritrovata;
per farla notare con piacere, bisogna farla veder nascere dalla polemica. Così
nelle passioni; ci piace veder il contrasto di due passioni, ma se una prende
il sopravvento, non è che brutalità. Non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca
delle cose.
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Basta poco per consolarci, perché
basta poco per affliggerci.
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La nostra natura sta nel
movimento; il completo riposo è la morte.
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La vanità è così radicata nel
cuore dell'uomo che un soldato, un manovale, un cuoco, un facchino si vanta e
può avere i suoi ammiratori; gli stessi filosofi ne vogliono; e quelli che
scrivono contro la gloria vogliono avere la gloria d'aver scritto bene; e
quelli che li leggono vogliono avere la gloria di averli letti; e forse anch'io
che scrivo queste cose ne ho voglia; e forse anche quelli che mi leggeranno...
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Curiosità non è che vanità.
Spessissimo si vuol sapere solo per parlarne. Diversamente chi viaggerebbe sul
mare, per non parlarne mai e per il solo piacere di vedere, senza mai la
speranza di comunicarlo ad altri?
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Chi volesse conoscere a fondo la
vanità dell'uomo non ha che da considerare le cause e gli effetti dell'amore.
La causa è un non so che (Corneille), e gli effetti sono spaventevoli. Questo
non so che, una cosa tanto da nulla che non si può neppure determinare,
sconvolge tutta la terra, i principi, gli eserciti, il mondo intero.
Il naso di Cleopatra: se fosse
stato più corto, la faccia della terra sarebbe cambiata.
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Gli uomini, non avendo potuto
guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per
rendersi felici.
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Non stiamo mai nei limiti del
tempo presente. Anticipiamo l'avvenire come se fosse troppo lento ad arrivare,
quasi per affrettare il suo corso; oppure rievochiamo il passato per fermarlo,
quasi troppo precipitoso; siamo così imprudenti da scorazzare in tempi che non
ci appartengono, e da non pensare all'unico tempo che ci appartiene; siamo così
fatui che sogniamo i tempi che non esistono più, e sfuggiamo senza rifletterci
il solo che sussiste. Perché, di solito, il presente ci tormenta. Lo
nascondiamo alla nostra vista perché ci affligge; e se è piacevole, ci
lamentiamo di vederlo fuggire. Cerchiamo di sostenerlo con l'avvenire, e
pensiamo di disporre le cose che non sono ancora in nostro potere, in un tempo
a cui non abbiamo alcuna sicurezza di arrivare.
Ognuno esamini i propri pensieri,
e li troverà occupati nel passato e nell'avvenire. Non pensiamo quasi mai al
presente; e, se ci pensiamo, l'è soltanto per prenderne lume a disporre
dell'avvenire. Il presente non è mai il nostro scopo; il passato e il presente
sono i nostri mezzi; soltanto l'avvenire è il nostro scopo. Per questo, non
viviamo mai, ma speriamo di vivere; e disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile
che non lo diverremo giammai.
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Corriamo senza curarci del
precipizio, dopo d'aver messo qualcosa davanti a noi per impedircene la vista.
3. Necessità della scommessa
È un dovere indispensabile
cercare quando si è nel dubbio; e per questo, chi dubita e non cerca è insieme
abbastanza infelice e abbastanza ingiusto. E se costui rimane tranquillo e
soddisfatto di ciò, se se ne vanta e se infine ne fa un motivo di gioia e di
vanità, allora non trovo un termine adatto per una creatura così stravagante.
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La sensibilità dell'uomo per le
piccole cose e l'insensibilità per le grandi è segno di uno strano
pervertimento.
Quando considero la breve durata
della mia vita, assorbita nell'eternità che precede e che segue il piccolo
spazio che occupo e che vedo inabissato nell'infinita immensità degli spazi che
ignoro e che m'ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che
là, perché non c'è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che
allora. Chi mi ci ha messo? Per comando e per opera di chi mi sono stati
destinati questo luogo e questo tempo? Memoria hospitis unius diei
praetereuntis (La speranza dell'empio dilegua come la memoria dell'avventore d'un
sol giorno - Sapienza, V, 14).
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Il silenzio eterno degli spazi
infiniti mi sgomenta.
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Il fluire. E' orribile accorgersi
che dilegua tutto quello che possediamo.
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Tra noi da una parte e l'inferno
o il cielo dall'altra non c'è che la vita, che è la cosa più fragile che
esista.
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Dialogo: Infinito. Niente.- Cominciamo col dire: 'Dio
esiste oppure non esiste?'. Da che parte ci decideremo? La ragione non può
decidere nulla; c'è di mezzo un caos infinito. Si gioca una partita,
all'estremità di questa distanza infinita, dove risulterà capo o croce. Su che
cosa puntate? Secondo ragione, non potete scegliere né l'uno né l'altro;
secondo ragione, non potete escludere nessuno dei due. Dunque non accusate di
falsità coloro che hanno fatto una scelta; perché non ne sapete niente.
- No, ma io li biasimo d'aver
fatto non già questa scelta, ma una scelta; perché, anche se tanto colui che
sceglie croce quanto l'altro incorrano in un errore analogo, sono sempre tutti
e due in errore; la cosa migliore è di non scommettere.
- Si, ma bisogna scommettere.
Questa non è una cosa volontaria; voi siete imbarcato. Quale dei due
sceglierete? Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa
meno. Voi avete da perdere due cose: il vero e il bene, e due cose da
impegnare; la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la
vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la
miseria. La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l'uno piuttosto
che l'altro, perché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto assodato.
Ma la vostra beatitudine? Valutiamo allora il guadagno e la perdita, scegliendo
croce, cioè l'esistenza di Dio. Se guadagnate, guadagnate tutto; se perdete,
non perdete nulla. Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare.
4. I mezzi per credere
Esistono tre categorie di
individui: quelli che servono Dio dopo di averlo cercato; quelli che si
sforzano di cercarlo senza ancora trovarlo; quelli che vivono senza cercarlo e
senza averlo trovato. I primi sono ragionevoli e felici, gli ultimi sono pazzi
e infelici, quelli di mezzo sono infelici e ragionevoli.
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Il dover mangiare e dormire tutti
i giorni non ci annoia perché la fame rinasce, e così il sonno; se non fosse
così, ci annoieremmo. Similmente, senza la fame delle cose spirituali, ne
sentiamo disgusto. Fame della giustizia: ottava beatitudine.
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L’ultimo passo della ragione è di
riconoscere che c’è un’ infinità di cose che la sorpassano; essa è debole se
non arriva a conoscere questo. Se le cose naturali la sorpassano, che dire
delle cose soprannaturali?
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Il cuore ha le sue ragioni che la
ragione non conosce; lo vediamo in mille cose. Io dico che il cuore ama l’essere
universale naturalmente e se stesso naturalmente, a seconda a chi dei due si
attacca; e s’indura contro l’uno o l’altro a sua scelta. Voi avete respinto l’uno
e conservato l’altro: è forse seguendo la ragione che amate il vostro io?
--
Ragione degli effetti. La
debolezza dell’uomo è la causa di tante virtuosità convenzionali, come il saper
suonare bene il liuto. Questo è un male soltanto a causa della nostra
debolezza.
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Non si riesce a immaginare
Platone e Aristotele se non con gran vesti di pedanti. Erano invece delle
persone comuni e ridevano, come gli altri, con i loro amici; e quando si sono
divertiti a scrivere le Leggi e la Politica, l’hanno fatto per divertirsi;
questa era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita, mentre la più
filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente. Se hanno scritto di
politica, l’han fatto come per dar norme per un manicomio; e se hanno finto di
parlarne come di cosa seria, l’hanno fatto perché i pazzi a cui si rivolgevano
credevano di essere re e imperatori, ed essi si immedesimavano dei princìpi di
costoro per rendere la loro follia meno dannosa possibile.
5. I filosofi
L’uomo non è che una canna, la
più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo
s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma,
anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo
uccide, perché sa di morire e sa la superiorità dell’universo su di lui; l’universo
invece non ne sa niente.
Tutta la nostra dignità consiste
dunque nel pensiero. È con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo
spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensar bene:
questo è il principio della morale.
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Canna pensante. Non devo chiedere
la mia dignità allo spazio ma al retto uso del mio pensiero. Non otterrei nulla
di più col possesso delle terre; mediante lo spazio, l’universo mi circonda e
mi inghiotte come un punto; mediante il pensiero, io lo comprendo.
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La natura dell’uomo non è di
avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi. La febbre ha i suoi brividi e i suoi
ardori; il freddo mostra, tanto quanto il caldo, l’intensità dell’ardore della
febbre. Le invenzioni degli uomini procedono di secolo in secolo allo stesso
modo. La bontà e la malizia del mondo, in genere, fanno lo stesso.
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L’eloquenza continua annoia. I
principi e i re talvolta giuocano. Non stanno sempre sul trono; vi si annoiano:
la grandezza ha bisogno di essere lasciata per essere sentita. La continuità
disgusta sempre: il freddo è piacevole perché dopo ci si riscalda. La natura
agisce per progressi, itus et reditus. Passa e ritorna, poi va più lontana, poi
due volte meno, poi più lontano ancora, ecc. Il flusso del mare procede così,
il sole sembra avanzare così.
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Il caso dà i pensieri e il caso
li toglie; non c’è nessun’arte per conservarli o per acquistarli. Pensiero
sfuggito: lo volevo scrivere; scrivo invece che mi è sfuggito.
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Ho visto che tutti i paesi e
tutti gli uomini mutano; e così, dopo molti mutamenti di giudizio riguardanti
la vera giustizia, ho conosciuto che la nostra natura non era che un continuo
cambiamento, e da allora non ho più cambiato; e se cambiassi, confermerei la
mia opinione.
Non è un bene essere troppo libero. Non è un bene
sentire tutte le necessità.
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La grandezza dell’uomo è grande
in questo: che si riconosce miserabile. Un albero non sa di essere miserabile.
Dunque essere miserabile equivale a conoscersi miserabile; ma essere grande
equivale a conoscere di essere miserabile.
Gli uomini sono così
necessariamente folli che il non essere folle equivarrebbe a essere soggetto a
un’altra specie di follia.
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È pericoloso mostrar troppo all’uomo
quanto è simile alle bestie, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è ancora
pericoloso mostrargli troppo la sua grandezza senza la sua bassezza. È ancor
più pericoloso lasciargli ignorare l’una e l’altra. Ma è utilissimo
prospettargli l’una e l’altra. Non bisogna far credere all’uomo di essere
uguale alle bestie o agli angeli, né bisogna fargli ignorare l’una e l’altra
cosa, ma è necessario che conosca l’una e l’altra cosa.
6. La morale e la dottrina
L’uomo non sa in qual posto collocarsi.
Egli è visibilmente sviato, ed è caduto dal suo vero posto senza poterlo
ritrovare. Lo cerca dappertutto con inquietudine e senza successo tra tenebre
impenetrabili. Ma c’è abbastanza luce per coloro che desiderano vedere e c’è
abbastanza oscurità per coloro che hanno una disposizione contraria.
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Poiché spesso si sogna di sognare
inserendo un sogno nell’altro, la vita potrebbe essere essa stessa un sogno,
sul quale si innestano gli altri e da cui ci svegliamo con la morte; inoltre
durante questa vita possediamo pochi principi del vero e del bene come durante il
sonno naturale, e questi differenti pensieri che in essa ci agitano non sono
forse che illusioni, simili al trascorrere del tempo e alle vane fantasie dei
nostri sogni.
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Noi siamo pieni di cose che ci
spingono fuori di noi. Il nostro istinto ci fa sentire che bisogna cercare la
felicità fuori di noi. Le nostre passioni ci spingono verso l’esterno, anche
quando non ci si offrono degli oggetti esterni per eccitarle; gli oggetti
esterni ci tentano da sé e ci invitano, anche quando non ci pensiamo. E così i
filosofi hanno voglia di dire: ‘Ritiratevi in voi stessi e troverete il vostro
bene’; nessuno ci crede, e coloro che ci credono sono i più vuoti e i più
stupidi.
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Tutti errano, e tanto più
pericolosamente in quanto ognuno di essi segue una verità. Il loro errore non
consiste nel seguire una cosa falsa, ma nel non seguire un’altra verità.