giovedì 1 gennaio 2015

Alberto Dipace Free Project - Travelling


Disco ascoltabile al link 


«Il pregio del viaggiare consiste nella paura. Spezza in noi una specie di apparato scenico interno. Non è più possibile barare. Mascherarsi dietro ore d'ufficio o di cantiere, quelle ore contro cui protestiamo tanto e che ci difendono con tanta sicurezza dalla sofferenza d'esser soli. […] Il viaggio ci toglie ogni rifugio. Lontano dai parenti, dalla lingua, strappati a tutti i nostri sostegni, privi delle nostre maschere siamo completamente alla superficie di noi stessi» (A. Camus)


La metafora del viaggio si addice perfettamente alla nuova fatica discografica di Alberto Dipace, pianista e compositore tra i più audaci nell'attuale scena jazzistica italiana. Dipace affronta senza paura la sfida descritta da Camus intraprendendo un coraggioso viaggio musicale e assumendosi la responsabilità delle sue scelte, a partire dai fraintendimenti che la parola ''free'' porta con sé. I più superficiali penseranno all'aspetto deteriore del free jazz, inteso come sinonimo di caos o approssimazione. Niente di tutto ciò potrete trovare in questo disco dalle atmosfere soffuse ma mai rilassate, in cui gli effetti del live electronics di Alessandro Deledda (anche al Rhodes) impreziosiscono il sound di un gruppo già d'alto livello (Andrea Massaria, chitarra; Stefano Senni, contrabbasso, Cristiano Calcagnile, batteria).

Il disco si apre con Reflections, dialogo tra piano e contrabbasso accompagnati dal debole eco delle loro note. Emerge già una chiave di lettura del disco: quello che avviene tra i musicisti è un dialogo prima di tutto con se stessi, una ricerca interiore del proprio suono e del proprio spazio, prima di esporsi agli altri.

Il nervoso drumming di Calcagnile che apre Filled Street interrompe momentaneamente questa ricerca interiore, a cui si associa la chitarra scattosa di Massaria ed il basso solido di Senni. L'ingresso netto del piano di Dipace e del rhodes di Deledda incrementano ulteriormente la tensione del brano, però senza sovrastare gli altri. Ciascun musicista prosegue così in uno spazio ben definito ma mai isolato: come più fili che si intrecciano ne compongono uno solo, così si svolgono le improvvisazioni collettive del gruppo.

Travelling ci riporta all'atmosfera misteriosa dell'inizio. Il tocco di Dipace riesce a farci sentire le infinite sfumature di una singola nota che, come una goccia eternamente ritornante, si discioglie nella nube armonica creata da Deledda. L'improvvisazione collettiva che ne scaturisce può essere definita liquida, nel senso che Bauman ha dato al termine: essa si regge su un tempo «né ciclico né lineare, bensì puntillistico, frammentato in una moltitudine di particelle separate, ciascuna ridotta a un punto che sempre più si avvicina all'idealizzazione geometrica dell'assenza di dimensione» (Z. Bauman, prefazione di Una storia sociale del jazz di G. De Stefano, Mimesis 2014).

In Free for Three il pianismo di Dipace viene esaltato dalla dimensione del trio. Senni e Calcagnile danno vita ad una base ritmica prima oscura e cangiante, poi magmatica ed incandescente da cui Dipace si diverte ad entrare e uscire con frammenti di melodie contrastanti.

Protagonista di Vinyl Contrast è l'accostamento paradossale di passato e presente: il fruscìo dei vecchi vinili ci riporta ad una dimensione d'ascolto lontana. Realtà e finzione si mescolano, fino a quando non ci rendiamo conto dell'artificialità di questo effetto. Ecco allora che la musica smette il vestito della malinconia ''inscatolata'' del passato, tornando alla chiarezza del presente in cui si svolge l'improvvisazione dal retrogusto latino di Dipace.

Somewhere inside riprende il filo interrotto della ricerca interiore resa ancor più fragile ed emozionante grazie alla chitarra (stavolta scarna) di Massaria.

La chiusura del disco è affidata a due coppie di brani speculari, più un'ultima piccola gemma (Glimpsing the Freedom): Change of Road 1 e 2; Into the Noise e Out of the Noise, dove l'attenzione di tutti i musicisti è rivolta ancora al timbro, al suono collettivo in cui improvvisazione elettronica ed acustica si fondono magistralmente, come non si sentiva dai tempi dell'Esbjorn Svensson Trio. È questo uno dei possibili ''viaggi'' che il jazz italiano deve percorrere se vuole evitare l'isolamento o, peggio ancora, di essere ridotto alla dimensione museale a cui tanti ''big'' del nostro Paese lo stanno rilegando.