domenica 10 gennaio 2016

Allora, ci sono Nietzsche, Kant, Han Bennink e Paolo Sanna...

La grandezza di un filosofo si misura nelle domande che si pone, non nelle risposte che fornisce. Con una domanda, apparentemente banale, Nietzsche aprì uno squarcio nel nostro modo di accostarci alla musica, facendo emergere una questione di cui in troppi, ancora oggi, faticano a rendersi conto. La domanda, in Nietzsche contra Wagner, è la seguente: ''Cosa voglio veramente dalla musica?''

Più che Wagner, il reale obiettivo nietzschano era la tradizione estetica occidentale colpevole di aver impostato il suo campo d'azione su dei binari fuorvianti. Ne La genealogia della Morale Nietzsche scrive:

''Kant pensò di fare onore all'arte quando, fra i predicati del bello, diede una posizione privilegiata a quelli che costituiscono il vanto della conoscenza: l'impersonalità e l'universalità. […] Kant, come tutti i filosofi, invece di considerare il problema estetico fondandosi sull'esperienza dell'artista (del creatore), ha meditato sull'arte e sul bello solo come spettatore e, insensibilmente, ha introdotto lo spettatore nel concetto: bellezza. Se, almeno, questo spettatore fosse stato sufficientemente conosciuto dai filosofi del bello! - se fosse stato per loro un fatto personale, un'esperienza, il risultato di una quantità di prove originali e solide, di desideri, di sorprese, di rapimenti nel territorio del bello! Ma fu sempre – temo – esattamente il contrario: in modo che, fin dall'inizio, essi ci danno delle definizioni nelle quali, come nella celebre definizione del bello di Kant, vi è una mancanza di sottile esperienza personale che assomiglia molto al grosso verme dell'errore fondamentale. Il bello, dice Kant, è ciò che piace senza che vi si mischi l'interesse. Senza interesse! […] Se i nostri professori d'estetica sostengono, a favore di Kant, che si può guardare in modo disinteressato anche una statua femminile priva di veli, ci sarà ben permesso di ridere un po' alle loro spalle: le esperienze degli artisti sono, se non altro, molto più interessanti''.

Nietzsche ci esortava dunque ad una trasvalutazione dei nostri giudizi estetici. Il punto di vista dell'osservatore, quello privilegiato da Kant, si basa infatti su un concetto di bellezza depauperato, troppo intellettuale e freddo. La differente prospettiva che Nietzsche ci invita ad assumere si basa sul tentativo di metterci nei panni dell'artista, sentendo così pulsare la sua e la nostra esistenza nel preciso momento in cui entriamo in contatto attraverso l'opera d'arte. Questo significherebbe riservare ad un secondo momento l'atteggiamento da giudice o studente d'anatomia con cui dissezioniamo l'opera d'arte per stabilire se ci piace o meno. Non che il momento dell'analisi sia inutile: anzi, esso è necessario per capire come e perché un'opera d'arte ci attira, specialmente in un'epoca come la nostra in cui all'arte sembra affidato il triste compito di fare da sottofondo alle nostre esistenze schiacciate da ben altri valori.
Perciò, alla domanda ''Cosa voglio veramente dalla musica?'' Nietzsche rispondeva: ''Che sia serena e profonda, come un pomeriggio di ottobre. Che sia singolare, sfrenata, tenera, una piccola dolce donna fatta di perfidia e di grazia…''.


A questo punto possiamo far entrare gli altri due protagonisti della nostra ''storiella'':



Mai come nel caso di questo batterista, il cambiamento di prospettiva proposto da Nietzsche è necessario. Pretendere di analizzare ''musicologicamente'' l'energia vulcanica di Han Bennink vorrebbe dirne ingabbiarne lo spirito, disarmarlo e renderlo inerme. La voce di Bennink rischia di essere una voce isolata nel coro di quello che sta diventando il jazz ''contemporaneo'', una musica sempre più chiusa in se stessa, noncurante della partecipazione attiva di chi l'ascolta, autocompiacentesi per il livello di incomunicabilità a cui è arrivata. Non è un caso che, tra gli addetti ai lavori del jazz, ci si interroga disperatamente sull'emorragia di pubblico e consensi e su come fare per invertirne la tendenza. L'unica soluzione possibile, a mio avviso, sta proprio nell'energia, nell'atteggiamento con cui chi fa questa musica si espone al pubblico. Se si parte da un punto di vista di superiorità, di supponenza, di diffidenza nei confronti di chi ascolta, il jazz ha vita breve. Se invece ci si sforza di rompere le barriere e si tornerà a privilegiare la spontaneità, il jazz potrà dire ancora qualcosa. Per questo ho deciso di raccontare la storia e la musica di Han Bennink, soprattutto per farlo conoscere a chi non ne ha mai sentito parlare:http://mimesisedizioni.it/libri/arti/musica-contemporanea/la-filosofia-di-han-bennink.html



Un'ultima, ma non per importanza, voce fuori dal coro rispetto al panorama musicale nazionale è quella di Paolo Sanna. Ho avuto la fortuna di conoscere e suonare con Paolo in un momento delicato della mia ''carriera''. Avevo da poco scoperto che le potenzialità del mio strumento andavano molto oltre rispetto a quello che ci si aspetta dalla batteria, ovvero niente più che un ''metronomo vivente''. Paolo mi ha fatto capire l'importanza di ogni minimo gesto con cui sfioro un tamburo o un piatto e tutte le differenti gradazioni di dinamica e di timbro che ne vengono fuori. Mi ha proiettato dentro un mondo in cui la batteria, più che un mezzo per mettere in mostra la mia conoscenza tecnico/esecutiva, è il fine, una sorgente sonora, una voce viva e pulsante attraverso la quale posso comunicare ciò che sono nell'esatto momento in cui suono. Per  dirla con le sue parole: ''Sono quello che suono e suono quello che sono''.



Ascoltare l'ultimo lavoro di Sanna, ''Miniatura Obliqua'' (http://www.setoladimaiale.net/record.asp?section=audio&id=SM2960) è un'esperienza abissale, corporea, emozionale, attiva. Paolo mischia i colori e le dinamiche delle sue percussioni con la maestria di un artigiano d'altri tempi. La precisione delle sue esecuzioni potrebbe far pensare alla rigorosa scrittura dei migliori compositori contemporanei (Varèse, Reich, Xenakis, Cage, Gubaidulina) e invece le sue sono pulsanti improvvisazioni. Con ciò non si vuole sminuire il suo lavoro, piuttosto metterne in risalto la preziosità. Tutta la musica di Sanna dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che l'improvvisazione non è sinonimo di approssimazione, poiché anzi vive di una rigorosa e costante ricerca di perfezionamento. Improvvisare con questo spirito vuol dire rendere giustizia alla musica, vuol dire ''chiudere gli occhi e suonare cercando di tirare fuori le idee dalla nostra testa. Perciò, quando suono, penso solo alla musica. Penso nella musica. Solo così è possibile capire che la semplicità non coincide per forza con la banalità. Spesso più un suono è semplice e più è complicato. Perché per fare le cose più semplici, devi decidere cosa lasciare fuori e cosa mettere dentro'' (Paul Motian)