La
grandezza di un filosofo si misura nelle domande che si pone, non
nelle risposte che fornisce. Con una domanda, apparentemente
banale, Nietzsche aprì uno squarcio nel nostro
modo di accostarci alla musica, facendo emergere una questione di cui in
troppi, ancora oggi, faticano a rendersi conto. La domanda, in Nietzsche
contra Wagner,
è la seguente: ''Cosa voglio veramente dalla musica?''
Più
che Wagner, il reale obiettivo nietzschano era la tradizione estetica
occidentale colpevole di aver impostato il suo campo d'azione su
dei binari fuorvianti. Ne La
genealogia della Morale Nietzsche
scrive:
''Kant
pensò di fare onore all'arte quando, fra i predicati del bello,
diede una posizione privilegiata a quelli che costituiscono il vanto
della conoscenza: l'impersonalità e l'universalità. […] Kant,
come tutti i filosofi, invece di considerare il problema estetico
fondandosi sull'esperienza dell'artista (del creatore), ha meditato
sull'arte e sul bello solo come spettatore
e,
insensibilmente, ha introdotto lo spettatore nel concetto: bellezza.
Se,
almeno, questo spettatore
fosse
stato sufficientemente conosciuto dai filosofi del bello! - se fosse
stato per loro un fatto personale, un'esperienza, il risultato di una
quantità di prove originali e solide, di desideri, di sorprese, di
rapimenti nel territorio del bello! Ma fu sempre – temo –
esattamente il contrario: in modo che, fin dall'inizio, essi ci danno
delle definizioni nelle quali, come nella celebre definizione del
bello di Kant, vi è una mancanza di sottile esperienza personale che
assomiglia molto al grosso verme dell'errore fondamentale. Il bello,
dice Kant, è ciò che piace senza che vi si mischi l'interesse.
Senza interesse! […] Se i nostri professori d'estetica sostengono,
a favore di Kant, che si può guardare in modo disinteressato
anche
una statua femminile priva di veli, ci sarà ben permesso di ridere
un po' alle loro spalle: le esperienze degli artisti sono, se non
altro, molto più
interessanti''.
Nietzsche ci esortava dunque ad una trasvalutazione dei nostri giudizi estetici. Il punto di vista
dell'osservatore, quello privilegiato da Kant, si basa infatti su un
concetto di bellezza depauperato, troppo intellettuale e freddo. La differente prospettiva che Nietzsche ci
invita ad assumere si basa sul tentativo di metterci nei panni dell'artista, sentendo così pulsare la sua e la nostra esistenza nel preciso momento in cui entriamo in contatto attraverso l'opera d'arte. Questo significherebbe riservare ad un secondo momento l'atteggiamento da giudice o studente d'anatomia con cui
dissezioniamo l'opera d'arte per stabilire se ci
piace o
meno. Non che il momento dell'analisi sia inutile: anzi,
esso è necessario per capire come e perché un'opera d'arte ci attira, specialmente in un'epoca come la nostra in cui all'arte sembra affidato il triste compito di fare da sottofondo alle nostre esistenze schiacciate da ben altri valori.
Perciò, alla domanda ''Cosa voglio veramente dalla musica?'' Nietzsche rispondeva: ''Che sia serena e profonda, come
un pomeriggio di ottobre. Che sia singolare, sfrenata, tenera, una
piccola dolce donna fatta di perfidia e di grazia…''.
A
questo punto possiamo far entrare gli altri due protagonisti della
nostra ''storiella'':
Mai
come nel caso di questo batterista, il cambiamento di prospettiva
proposto da Nietzsche è necessario. Pretendere di
analizzare ''musicologicamente'' l'energia vulcanica di Han Bennink
vorrebbe dirne ingabbiarne lo spirito, disarmarlo e renderlo inerme. La
voce di Bennink rischia di essere una voce isolata nel coro di quello
che sta diventando il jazz ''contemporaneo'', una musica sempre più
chiusa in se stessa, noncurante della partecipazione attiva di chi
l'ascolta, autocompiacentesi per il livello di incomunicabilità a
cui è arrivata. Non è un caso che, tra gli addetti ai lavori del
jazz, ci si interroga disperatamente sull'emorragia di pubblico e
consensi e su come fare per invertirne la tendenza. L'unica soluzione
possibile, a mio avviso, sta proprio nell'energia, nell'atteggiamento
con cui chi fa questa musica si espone al pubblico. Se si parte da un
punto di vista di superiorità, di supponenza, di diffidenza nei
confronti di chi ascolta, il jazz ha vita breve. Se invece ci si
sforza di rompere le barriere e si tornerà a
privilegiare la spontaneità, il jazz potrà dire ancora qualcosa. Per questo ho
deciso di raccontare la storia e la musica di Han Bennink,
soprattutto per farlo conoscere a chi non ne ha mai sentito parlare:http://mimesisedizioni.it/libri/arti/musica-contemporanea/la-filosofia-di-han-bennink.html
Ascoltare l'ultimo lavoro di Sanna, ''Miniatura Obliqua''
(http://www.setoladimaiale.net/record.asp?section=audio&id=SM2960)
è un'esperienza abissale, corporea, emozionale, attiva. Paolo mischia i colori e le dinamiche delle sue percussioni con la maestria
di un artigiano d'altri tempi. La precisione delle sue esecuzioni
potrebbe far pensare alla rigorosa scrittura dei migliori compositori
contemporanei (Varèse, Reich, Xenakis, Cage, Gubaidulina) e invece le sue sono pulsanti improvvisazioni. Con ciò non si vuole sminuire il suo lavoro, piuttosto metterne in risalto la preziosità. Tutta la musica di Sanna dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che l'improvvisazione non è sinonimo di approssimazione, poiché anzi vive di una rigorosa e costante ricerca di perfezionamento. Improvvisare con questo spirito vuol dire rendere giustizia alla musica, vuol dire ''chiudere gli occhi e suonare cercando di tirare fuori le
idee dalla nostra testa. Perciò, quando suono, penso solo alla musica. Penso nella
musica. Solo così è possibile capire che la semplicità non coincide per forza con la banalità. Spesso
più un suono è semplice e più è complicato.
Perché per fare le cose più semplici, devi decidere cosa lasciare
fuori e cosa mettere dentro'' (Paul Motian)