Doveva abbattersi sul mondo una
pandemia per tornare a scrivere sulle oscure pagine di
questo blog. Tuttavia questi quattro anni di assenza non erano stati
programmati: essendo io fatalista, o meglio destinista, credo che
qualunque cosa ci succeda abbia una sua motivazione, spesso per noi
incomprensibile. O forse questo maledetto COVID-19 doveva arrivare
per indurci a riflettere sulle nostre miserande esistenze e per farci
capire che noi, se pur circondati dagli agi dell'onnipresente tecnica
e dell'onnipotente scienza, siamo niente di più che miseri mortali,
aggrappati alla vita da un sottile filo invisibile.
Messo da parte il
doveroso pippotto pseudofilosofico/ batteriologico, veniamo al quod
di questo mio intervento: parlarvi del nuovo disco di Francesco Cusa,
già apparso sulle pagine di questo blog con il suo libro di aforismi
e freddure ''Ridetti e Contraddetti''. Oggi parliamo di ''Giano
Bifronte'', doppio cd inciso dal nostro con il suo Trio (Gianni
Lenoci, piano; Ferdinando Romano, contrabbasso; feat. Giovanni
Benvenuti, tenor sax) e con il camaleontico progetto degli
''Assassins'' (attualmente Valeria Sturba, violino, theremin,
electronics; ed i già citati Romano e Benvenuti).
Innanzitutto bisogna
notare l'ardire di Cusa nel pubblicare un doppio cd con le stesse
composizioni. Quella che potrebbe sembrare una scomessa ad alto tasso
di fallimento, si rivela vincente: Cusa dimostra la futilità di
accostare al jazz dei nostri giorni il concetto stantìo di
''composizione'': la ragion d'essere della musica che noi amiamo è
infatti l'interpretazione personale ed il poter ammirare l'interplay
tra i musicisti, espostisi a noi senza alcuna ''scorciatoia''
annotata su carta. Questi due dischi, pur contenendo le stesse
composizioni, sono letteralmente agli antipodi tra loro in quanto ad
atmosfere sonore e direzioni improvvisative.
Iniziamo con il
disco del FCTrio.
''Antropophagy'' e
''Cospirology'' prendono avvio da due temi ''beboppari/tristaniani''
di Cusa, che ben presto si sgretolano, inoltrandosi negli abissi
della libera improvvisazione. Lenoci e Benvenuti eseguono
impassibilmente i temi all'unisono. Le loro voci procedono a
braccetto ma sono discordanti: proprio come il doppio sguardo del dio
Giano – uno rivolto verso il passato e l'altro verso il futuro -,
essi seguono due vie diverse ma convergono nella stessa meta. Lo stacco che
prelude all'improvvisazione in ''Antropophagy'' è magistrale:
improvvisamente veniamo catapultati in un groove ossessivo alla
Chicago Underground, su cui Benvenuti si mette in mostra,
degno del miglior Chris Potter. Ben presto l'attenzione delle mie
orecchie viene attirata dal pianoforte: Lenoci centellina i suoi
interventi e tocchi; spesso si incaglia su poche note, creando
un'atmosfera solenne ed ipnotica (non riesco più ad estirpare dalla
mia mente quell'intervallo di seconda minore ascendente).
Con questo
accorgimento che potremmo definire ''prosciugamento zen'', Lenoci ci
inchioda a seguirlo a qualsiasi costo: ad ogni sua minima aggiunta
melodica o modifica ritmica sentiamo mancarci la terra da sotto i
piedi e restiamo in attesa di ogni sua indicazione sulla prossima
direzione da prendere.
Lenoci ha la
capacità di condensare nel suo fraseggio la tradizione eurocolta (a
volte sembra di essere nella Vienna di inizio Novecento dinanzi ad
una sonatina di pianoforte) col linguaggio afroamericano (inteso non
semplicemente come ''jiezz'', ma anche all'avanguardia statunitense
di John Cage e Morton Feldman). Per chiarire meglio cosa avverto
azzardo un confronto: ascoltare Lenoci in azione ricrea in me la
stessa sensazione che ho avuto dinanzi ai dipinti di Mark Rothko.
Così come quest'ultimo aveva rinunciato a qualsiasi tipo di forma,
struttura e convenzione preesistente, scegliendo di aggrapparsi al
colore come unico e potentissimo mezzo di comunicazione con chi
guardava le sue tele, Lenoci si aggrappa unicamente al suono, inteso
nella sua più assoluta purezza ed immediatezza. Un suono privo di
orpelli e tecnicismi, a primo impatto crudo e screziato, ma che
rivela una profonda riflessione e meditazione perchè affonda le sue
radici nel silezio e nell'assenza di schemi e di materia.
Alle spalle di
Lenoci e Benvenuti si muove una macchina ritmica impeccabile: Cusa
sgattaiola suonando i cerchi dei tamburi, accresce la tensione con
lunghe pause inaspettate, riemerge con fragranti esplosioni dei
piatti; Romano, dal canto suo, alterna frasi ritmiche spezzate e
perentorie, assicurando a tutto il gruppo la ''terra'' armonica e
ritmica su cui muoversi a piacimento.
In particolare il
dialogo/duello che si instaura tra Cusa e Lenoci è di rara bellezza:
i due si aspettano e si studiano, lasciano riecheggiare nella loro
memoria le idee dell'altro ma senza fretta: proprio quando sembrano
disperdersi nel mare magnum dell'improvvisazione collettiva, le fanno
riemergere trasfigurate, rimasticate ed arricchite.
L'ultima parte del
disco porta avanti questo schema di alternanza tra i pieni
melodico/ritmici dei temi ''boppari'' con gli svuotamenti zen
post-tematici. Da segnalare, nell'improvvisazione in
''Pharmacology'', un momento di grande intensità: Lenoci percuote le
corde del suo pianoforte, stoppandole lievemente con la mano per poi
abbbassare il pedale della risonanza: ne viene fuori un eco sommesso
che sembra provenire dall'abisso del nostro inconscio.
Nel
secondo disco l'atmosfera cambia drasticamente: merito della new
entry e polistrumentista Valeria Sturba (violino, theremin, voce,
electronics). Le improvvisazioni di Sturba riservano sempre nuove
sorprese e spiazzano anche chi è abituato all'originalità dei suoi
progetti musicali (su tutti il duo ''OoopopoiooO'' con Vincenzo Vasi).
La Sturba spariglia le carte e gli equilibri consolidati nel trio
Cusa-Romano-Benvenuti, diventando il perno del gruppo. Le libere
improvvisazioni che nel precedente disco si nutrivano di silenzi,
attese e spiritualità, adesso si fanno più frenetiche ed acide, con
sonorità elettriche ed oserei dire quasi rock psichedeliche.
Da segnalare, in
particolare, un momento sospeso tra l'ironico ed il terrorizzante in
''Dr. Akagi'': Sturba esegue in solo la melodia del tema con
un'interpretazione che mi ha riportato alla mente il tema di
''Rosemary's Baby'' (firmato da Krzysztof
Komeda).
Altra
segnalazione da fare sull'abilità di Sturba – se mai ce ne fosse
bisogno - è l'intro vocale in ''Pharmacology'', dove la sua voce,
grazie al sapiente uso della loop station, riesce a costruire un
fitto tappeto sonoro melodico e armonico da cui prende avvio il
brano.
Dopo
aver ascoltato questo disco non si può fare a meno di pensare a cosa
altro avrebbe potuto sfornare il sodalizio tra Cusa e Lenoci,
tristemente scomparso il 30 settembre 2019. A me resta il rimpianto
di non aver potuto conoscere di persona il pianista pugliese,
nonostante fosse venuto di recente a suonare a Venezia proprio con il
''Meister'' Cusa. Perciò non mi resta che congedarvi con alcune
bellissime parole dedicategli dal batterista catanese dalle pagine di
''Musica Jazz'' e da una poesia dello stesso Cusa, contenuta nella
raccolta ''Canti Strozzati''.
''Lo
scopo dell'artista è quello di generare costantemente nuove utopie.
Per i veri poeti, profeti e veggenti l'accesso alla mitologia non
passa attraverso le categorie della scienza. Gianni era uno di essi:
conservava dell'approccio razionale la necessità metodologica che
traduceva poi in téchne,
ossia in quel misto di sapienza, creatività e tecnica funzionali
alla sua (nietzschiana) volontà di potenza. In realtà egli
continuerà a risuonare perché,
paradossalmente, la deflagrazione muta della sua scomparsa si sta
rivelando immane vibrazione sonora, e il suo essere stato
''inaudito'' in vita, nel senso più profondo della parola, ossia di
''non ascoltato prima'', diviene densità e nucleo di valori
archetipici e, dunque, in larga parte invisibili''.
Descrivere un disco come
The Music of Carla Bley (pubblicato dall'encomiabile etichetta nusica.org e scaricabile gratuitamente al link) esige una premessa. Volendo improvvisarmi ''titolista'' per un attimo potrei dare a questa recensione il sottotitolo: ''Un disco per una rinascita dell'arte
dell'ascoltare''. Ammetto subito che non si tratta di farina del mio sacco. Ecco la vera storia di questo titolo:
''Camminavo
un giorno lungo il lago di Silvaplana attraverso i boschi; presso una
possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlei,
mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero -. Se torno indietro
di un paio di mesi da quel giorno, trovo come segno premonitore un
cambiamento improvviso, profondo, decisivo del mio gusto, soprattutto
in fatto di musica. Forse si può considerare come musica tutto lo
Zarathustra; e certamente un suo presupposto fu la rinascita
nell'arte dell'ascoltare'' (F. Nietzsche, Ecce Homo, p. 344)
Non
vorrei sembrare azzardato ma, così come per leggere Così parlò Zarathustra bisogna spogliarsi delle normali consuetudini del lettore ''linear-logico-occidentale'', analogamente, per accostarsi al
disco di Andrea Massaria e Bruce Ditmas, bisogna mettere da parte
le aspettative dell'ascoltatore ''ben educato dal mercato del jazz''.
Massaria
e Ditmas, come due sfrontati Zarathustra, si inerpicano
per i pericolosi sentieri dell'improvvisazione nella sua accezione più ampia possibile. Forti delle loro identità stilistiche e di sonorità ben riconoscibili, i due prendono spunto da alcuni temi firmati da Carla
Bley per dare vita ad un esaltante dialogo all'insegna di un densissimo, quasi estenuante interplay. Estenuante
perché l'attenzione e l'interazione reciproche sono tali da rendere ostico l'accesso ad un ascoltatore non preparato. Chiunque si aspetti
da questo disco un omaggio ''filologicamente corretto'' alla Bley, non potrà che restare deluso. Chi invece ha
voglia di accogliere le fulminanti intuizioni del duo può dirsi a metà dell'opera.
Ma cosa intendeva realmente Nietzsche per
''rinascita dell'arte dell'ascoltare''? È il filosofo stesso
a chiarirlo quando spiega di non esser stato lui ad aver progettato e scritto quell'opera inaudita come Così
parlò Zarathustra, ma che essa si compì ''da sola'',
grazie ad una fulminea ed irresistibile ispirazione. Nietzsche descrive magistralmente questo stato d'animo e cosa esso provoca in chi è disposto ad assecondarlo:
''Si
ode, non si cerca; si prende, non si domanda da chi ci sia dato; un
pensiero brilla come un lampo, con necessità, senza esitazioni nella
forma – io non ho mai avuto scelta. Tutto avviene in modo
involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di
libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità. Tutto si
offre come l'espressione più vicina, più giusta, più semplice''
(Ecce Homo, p. 348-9)
Sono
sicuro che parole simili suoneranno familiari alle orecchie di improvvisatori estremi come Massaria e
Ditmas, due musicisti che hanno fatto della
ricerca più libera, del superamento di qualsiasi etichetta
o definizione la loro ragion d'essere.
Il
disco si apre con Ida Lupino, uno dei migliori temi della Bley per lirismo e respiro. Massaria lascia scorrere
dolcemente le note della melodia, senza ricorrere ad altro. Ditmas si muove con discrezione negli spazi lasciati dalla chitarra senza mai prevaricarla, e
lo fa con un formidabile lavoro contrappuntistico su piatti e
rullante. Come due monaci buddhisti, Massaria e Ditmas improvvisano senza accumulare caoticamente nuovi materiali, bensì togliendo il superfluo, riducendo così il loro dialogo
all'essenziale. Massaria sviluppa il suo fraseggio attraverso una lunga successione di intervalli e senza cadere nella tentazione di
riempire gli inevitabili vuoti lasciati dall'assenza del
contrabbasso. Ditmas invece continua a dilatare e mischiare tra loro
le sonorità dei soli piatti e rullante. Il brano si conclude col
naturale ritorno del tema, eseguito ancora senza alcun orpello inutile.
Se
in Ida Lupino il duo si era dimostrato fedele interprete del
tema bleyano, ecco che in And now the Queen il loro zampino inizia ad emergere. Massaria, ricorrendo all'effettistica che ha reso inconfondibile il suo sound, cambia
l'intenzione ritmica del tema in un fast swing stralunato ed
ossessivo; Ditmas gli risponde per le rime con un fraseggio
sull'intero set da cui emergono talvolta dei frammenti di ostinato
swing, subito spezzati e ricombinati liberamente. Lo
scambio di idee tra i due è repentino, basti citare
come Massaria riprenda ed allarghi l'idea
ritmica lanciata da Ditmas al minuto 2.17.
Anche
Olhos de gato, ballad
dal retrogusto tangheiro, viene trasfigurata dal duo in chiave
personale: Massaria torna a sonorità più scure e lascia che
riverberi ed effetti si accumulino sotto la melodia creando una fitta nube sonora. Ditmas passa alle spazzole, producendo un delicato ''rumore bianco'' che sostiene ed esalta il fraseggio scarno ed
enigmatico del chitarrista. I due dimostrano nuovamente
come la libera improvvisazione sia l'esatto opposto di quanto pensano i suoi detrattori: la valorizzazione del respiro e del silenzio,
l'essenzialità e la concentrazione su pochi elementi rendono unica
ed irripetibile la loro esecuzione. Il chitarrista triestino rivela inoltre la sua curiosità portando la propria proposta musicale verso direzioni inconsuete: bordoni, loop, effetti si
accavallano gradualmente, generando piani sonori affascinanti e lontani anni luce dal solito fraseggio post-bop proposto
dalla maggior parte dei chitarristi alla ribalta nel jazz contemporaneo.
In Vashkar la ricerca effettistica di Massaria continua, prendendo una direzione più noisy. Anche gli spunti di Ditmas si
fanno più nervosi e scattanti: passato ai mallets, il batterista alterna rapidi crescendo sui piatti ad oscuri e
scattanti fill sui tamburi. Massaria accoglie subito l'invito di
Ditmas verso una direzione più nervosa ed increspata, ritornando agli stilemi che caratterizzano il suo sound.
In
Utviklingssangil
duo torna ad un'esecuzione scarna ed essenziale: Massaria esegue il tema in pulito, analogamente a quanto fa Steve Swallow col
celebre trio della Bley. Ditmas riduce ulteriormente il suo spazio
sonoro percuotendo con le mani i tamburi, mentre il chitarrista
lascia che distorsioni elettroniche e loop si intromettano con
l'andamento della melodia, valorizzandola per contrasto. Dal minuto
3.26 il fraseggio di entrambi si fa sempre più spigoloso, quasi a rimarcare la comune volontà di forzare e rompere le convenzioni dell'improvvisazione jazzistica. Il ritorno del
tema riporta in auge le atmosfere oscure e sospese tanto care a
Carla Bley.
Il
tema di Batterie viene lanciato da uno strepitoso Ditmas. Impressionante è la
capacità del batterista di coniugare nel suo drumming spunti lirico-melodici con il fraseggio più concitato e libero del free
''vecchio stile''.
Massaria si unisce all'esecuzione del tema, per poi tuffarsi in una violenta improvvisazione in cui Ditmas continua ad alzare
l'asticella della tensione ritmica. Il chitarrista gli
risponde mettendosi in contrapposizione, ossia optando per linee melodiche ''liquide'' e poi sempre più fluttuanti ed
oscure. La chiusura del disco è affidata al batterista ed alle sue
esplosioni sui piatti.
The
music of Carla Bley è
un disco profondo che presenta molteplici chiave di lettura e di
ascolto: la dimensione ''piratesca'' che lascia libero sfogo agli
intrepidi Massaria e Ditmas è solo una delle tante. Oltre ad essa il tema dell'ascolto reciproco e dell'interplay è un altro importante elemento. Grazie alla condivisione di intenti ed interessi i due hanno dato consistenza ad una formazione apparentemente povera ma che, proprio per la sua
essenzialità, si rivela continuamente cangiante ed irrequieta. Infine bisogna citare l'inaspettata ricerca lirica e melodica di due musicisti eccezionali, due preziosi ed instancabili improvvisatori da tenere sott'occhio nello statico panorama jazzistico italiano.
Quello di
cui mi accingo a parlarvi è ben più che un disco: è un prezioso
documento di una cerimonia di esaltazione dell'esistente, di un rito
di pura gioia musicale a cui ho preso parte nella sera di martedì 20
ottobre 2015. Quella sera, presso il Centro Culturale Candiani di
Mestre, l'ottetto di Cristiano Calcagnile tenne uno strepitoso
concerto, dal quale nacque proprio il disco ''Multikulti Cherry On''
(Caligola Records).
Non so
neanch'io perché ho atteso così tanto prima di scrivere queste
righe. Forse perché adesso più che mai sento il bisogno di
ringraziare Cristiano, col quale ho condiviso alcuni momenti
importanti nella mia formazione musicale. Più che un professore,
avevo la sensazione di avere davanti un fratello maggiore, una
persona con la quale è difficile non entrare in sintonia. L'esempio di Cristiano mi ha confermato che essere un musicista non vuol dire intraprendere una professione, bensì seguire una missione. Prima di dedicare la
propria esistenza alla musica non soltanto bisogna essere pronti ad affrontare
tantissime difficoltà, ma bisogna avere qualcosa di importante da
trasmettere agli altri. Il musicista non deve limitarsi ad essere un ottimo strumentista, deve lasciare una traccia di sé in
chi lo ascolta e dargli un buon motivo per andare avanti nella sua
esistenza. E l'unico modo per riuscire in questo è ''amare
profondamente quello che si fa. Nella vita bisogna assolutamente
amare qualcosa. È il solo mezzo per sfuggire alla routine
quotidiana. La musica è ideale per questo scopo. Noi tutti abbiamo
bisogno della musica. La musica spazza via la polvere dalla vita di
tutti i giorni'' (Art Blakey).
Quanto scritto sinora potrebbe sembrarvi una divagazione personale, anche un po' retorica, invece è strettamente funzionale all'ascolto del disco.
''Multikulti Cherry On'' è infatti lo specchio fedele dell'approccio
alla musica e alla vita da parte di Calcagnile. A tal proposito
emblematica è la figura a cui il progetto è dedicato e ispirato: il
trombettista e polistrumentista Don Cherry, uno dei personaggi più
affascinanti quanto sottovalutati nella storia del jazz. Su di lui
Calcagnile scrive nelle note di copertina:
''Don Cherry
ha le fattezze di un folletto africano. […] Imprendibile e
solitario, ma aggregatore di spiriti curiosi ed inquieti. Un
cantastorie autentico e ispirato, avulso dallo ''star system''
nonostante la sua grande caratura ed allo stesso tempo molto
eccentrico. […] In un periodo di importanti sconvolgimenti sociali
ed artistici, questo geniale musicista ha percorso e segnato sentieri
capaci di creare nuove relazioni tra le culture e le etnie di ogni
angolo del pianeta, alla ricerca di una dimensione universale e
ritualistica della musica. Il nostro lavoro vuole riappropriarsi di
quello spazio, di quella forma (mentis) in cui è possibile agire e
dialogare, essere complici o autonomi, sviluppare o interrompere un
processo musicale, conferendo a quella scelta la forza della
complicità e della sua determinazione. In sostanza essere liberi di
applicare il proprio sentire, di dare senso e vita alla musica
nell'istante e nel suo divenire''.
Tra i temi
indicati da Calcagnile come presupposto di questo disco, a mio avviso
quello più importante consiste nella riappropriazione della funzione
rituale della musica. In un periodo come quello attuale, in cui la
musica è sì sempre più presente nella nostra quotidianità, ma
solo come sottofondo ''usa e getta'', come riempitivo illusorio del
tremendo deserto sociale e culturale da cui siamo circondati,
dobbiamo urgentemente recuperarne e proteggerne la dimensione
''viva'' e collettiva. Tutte le culture, tranne quella occidentale,
hanno compreso che con la musica l'uomo può non soltanto ''ammazzare
il tempo'', bensì esaltarlo, viverlo come meglio non potrebbe poiché
solo la musica ci consente di entare in contatto con la nostra
dimensione spirituale e di riscoprire energie nascoste nel nostro
profondo. Basterà citare la credenza della cultura indiana secondo
la quale il dio Brahman ha creato l'esistente attraverso un
canto, scuotendo il nulla cosmico attraverso la propagazione del suo
inno. La musica, nella cultura indù, è perciò un mezzo per
rimettersi in contatto con il divino, per ringraziarlo e soddisfare
''la sete di suono che le divinità hanno e per le quali gli è
assolutamente necessaria l'esistenza dell'uomo'' (Schneider).
La stessa
atmosfera di unione spirituale pervade ''Multikulti Cherry On''.
L'improvvisazione collettiva che apre il disco, Cherry On,
apre le danze del rito di ringraziamento. Anche nei momenti più
concitati l'identità sonora di ciascun musicista rimane ben
distinguibile, producendo così un impasto collettivo coeso ed
omogeneo. Walk The Mountain scorre ironica e squillante come la tromba di Mitelli
giustamente in primo piano. L'improvvisazione di Nino Locatelli al
sax alto accresce il pathos e l'energia collettiva, assicurata
comunque dall'irrequieta batteria di Calcagnile e dal sontuoso
contrabbasso di Evangelista, a cui fa da perfetto contraltare il
vibrafono di Mirra con le sue note lunghe e distensive.
Segue una
lunga suite,East Suite, in cui veniamo introdotti nel lato
più misterioso ed esotico della musica di Cherry. Il violino di
Paolo Botti riesce immediatamente a creare quest'atmosfera onirica,
ben assistito dalle percussioni di Dudu Kouaté (affiancato dal
''capo stregone'' Calcagnile). Ricordo di essere stato completamente
catturato durante l'esecuzione dal vivo di questa suite. Ad
accrescere l'attrattiva di quella musica su di me era la possibilità
di scorgere, negli sguardi di tutti i musicisti coinvolti, la volontà
di raggiungere un obiettivo: costruire assieme quell'atmosfera
onirica, senza mai spiccare o prevaricarsi a vicenda.
Dopo il
minuto 7, la voce collettiva dell'ensemble si dirada e ne inizia ad
emergere il vibrafono di Mirra che lancia la melodia, a cui subito si
uniscono gli strumenti a fiato. L'impatto emotivo di quel momento fu
fortissimo. Segue una violenta improvvisazione collettiva, ed il
resto della suite in cui emergono i solisti sul ritmo africaneggiante
sostenuto da Calcagnile, Evangelista e Kouaté. Particolarmente
suggestivo è lo spazio lasciato al banjo di Botti e alle percussioni
di Kouaté: segno questo di una voglia di rischiare con combinazioni
musicali più intimistiche, senza affidarsi esclusivamente alla
potenza collettiva dell'ensemble. Segue l'ultima parte
dell'East Suite, in cui emerge l'importanza della melodia e
della semplicità della musica di Cherry. La semplicità di Cherry
non è mai sinonimo di banalità, bensì di volontà di assecondare
il movimento e la danza. Questo elemento è spesso sottovalutato o
snobbato da tanti jazzisti contemporanei. Per smontare questo
''complesso'' mi basterà citare il pensiero di Ed Blackwell,
eccezionale batterista e collaboratore in tantissimi progetti di
Cherry. Così Blackwell: ''L'obiettivo principale della musica deve
essere far ballare. Quando suono immagino che ci sia una ballerina
davanti a me che debba ballare ciò che suono. Il requisito
essenziale per essere un buon batterista è saper ballare –
dovrebbe essere questa la prima cosa che un batterista dovrebbe
imparare, ancor prima di imparare a suonare il suo strumento''.
Arriviamo
così aCommunion Suite, risultato dell'unione di alcuni brani
a firma di Cherry (Complete communion, Infant Happiness
e Symphony for Improvisers) con altri temi di Dewey Redman
(Dewey's Tune) e Ornette Coleman (Happy House). È
incredibile come tutti questi musicisti, spesso archiviati
superficialmente con l'ambigua etichetta di ''free jazz'' fossero
invece a stretto contatto con le radici più profonde della musica
afroamericana, in questo caso il blues. Ed è ancor più
impressionante la capacità di Calcagnile & Co. di sintonizzarsi
e ridare vita a quello spirito originario del jazz, meglio di tanti
loro colleghi statunitensi. Colpisce inoltre la coesione generale
nelle improvvisazioni collettive e l'estrema unitarietà delle
improvvisazioni solistiche (Mirra, Falascone, Locatelli). Arriviamo
così alla conclusione della suite con il tema di Symphony for
Improvisers che l'ensemble enuncia a più riprese con uno
straordinario crescendo di dinamica fino ad sfociare in un
liberatorio grido di gioia che piano piano si riduce in una
delicatissima ninna nanna.
NellaMoguto Suitetrova spazio nuovamente la cifra ''multikultistica'' della musica di Cherry. Sempre più prezioso è il lavoro di Kouaté, stavolta al canto, per lanciarci in un vero e proprio viaggio attraverso culture e mondi lontani. Sotto di lui si muove il vibrafono di Mirra ed il resto dell'ensemble con sinuose e solenni risposte collettive. L'enunciazione del tema avviene nuovamente per addensamento: prima Botti, segue Falascone e poi tutto il resto dell'ensemble in un crescendo emotivo mozzafiato. In Togo spicca l'improvvisazione di Mitelli, magistralmente incitata dal lavoro percussivo di Calcagnile e Kouaté. Nel momento dell'immancabile improvvisazione solistica della batteria, come si rispetti in ogni brano firmato da Blackwell, Calcagnile da' il meglio di sé, percuotendo i tamburi al massimo della sua forza espressiva. Il suono di Calcagnile va dritto alla pancia di chi ascolta, è impossibile non venirne catturati ed estasiati. Così come nelleUpanishad dove al tamburo viene attribuito un particolare valore magico, lo stesso avviene per la batteria di Calcagnile: ''vac, la parola, una volta sfuggita agli dèi, si rifugiò negli alberi e la sua voce contina a risuonare negli strumenti musicali di legno. […] Questi tamburi o alberi racchiudono la voce degli antenati; ma queste voci possono verificarsi solo quando l'uomo batte il tamburo'' (M. Schneider, La musica primitiva, Adelphi 1992, p. 81).
La
conclusione perfetta del disco è affidata a Malinyè, con la calda voce e lo xalam di
Kouatè, che segna la fine (provvisoria) di questo viaggio musicale,
come il perfetto risveglio da un disco da assumere periodicamente,
come un farmaco indispensabile per la propria salute e felicità.
Un personaggio palesatosi spesso tra le pagine di questo blog ebbe a dire:
Nell'arte
del linguaggio si chiama metafora ciò che ''non si usa in senso
proprio''. Perciò le metafore sono le perversioni del linguaggio e
le perversioni sono le metafore dell’amore (K. Kraus, Detti e contraddetti)
Francesco Cusa è un vero e proprio pervertito del linguaggio. Questo unabomber della parola si diverte a innescare un corto circuito linguistico dietro l'altro, mostrando come anche i termini più logori ed i modi di dire più comuni possano sorprenderci, farci ridere o riflettere. Cusa è dunque molto vicino al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche che scriveva:
Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. – Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là). Naturalmente, quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte e stampate. Infatti il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente, non quando facciamo filosofia! (Ricerche filosofiche, Einaudi 1983, p. 15).
E ancora, sempre Wittgenstein:
Noi
combattiamo contro il linguaggio. Siamo in
lotta contro il linguaggio. Se penso per
me solo, senza voler scrivere un libro, mi metto a saltare intorno al
tema; questo è l’unico modo di pensare che mi sia naturale. È un
tormento per me pensare a lungo in una direzione forzosa. A questo
punto, devo proprio tentarlo??
Io spreco
indicibili fatiche per dare ai miei pensieri un ordine che forse
non ha proprio nessun valore. (Pensieri Diversi, Adelphi 1980, pp. 60-61)
Piccolo aneddoto: Wittgenstein era un discreto pianista nonché fratello di Paul Wittgenstein. Mi piace pensare che questo pensiero sia stato ispirato al filosofo proprio dalla fatica del musicista che, dopo aver improvvisato e trovato qualcosa di interessante, si sente costretto ad incanalare questa sua scoperta in una forma o struttura condivisa e riconoscibile dagli altri. Cusa conosce molto meglio di me tutto questo processo, essendo batterista e compositore. E non è un caso che egli sappia sfruttare l'aforisma con una precisione chirurgica, calibrando ogni singola parola per arrivare all'effetto desiderato. Del resto ''uno che sa scrivere aforismi non dovrebbe disperdersi a fare dei saggi'' (Kraus). Non mi resta che lasciarvi nelle sue mani.
La
grandezza di un filosofo si misura nelle domande che si pone, non
nelle risposte che fornisce. Con una domanda, apparentemente
banale, Nietzsche aprì uno squarcio nel nostro
modo di accostarci alla musica, facendo emergere una questione di cui in
troppi, ancora oggi, faticano a rendersi conto. La domanda, in Nietzsche
contra Wagner,
è la seguente: ''Cosa voglio veramente dalla musica?''
Più
che Wagner, il reale obiettivo nietzschano era la tradizione estetica
occidentale colpevole di aver impostato il suo campo d'azione su
dei binari fuorvianti. Ne La
genealogia della Morale Nietzsche
scrive:
''Kant
pensò di fare onore all'arte quando, fra i predicati del bello,
diede una posizione privilegiata a quelli che costituiscono il vanto
della conoscenza: l'impersonalità e l'universalità. […] Kant,
come tutti i filosofi, invece di considerare il problema estetico
fondandosi sull'esperienza dell'artista (del creatore), ha meditato
sull'arte e sul bello solo come spettatore
e,
insensibilmente, ha introdotto lo spettatore nel concetto: bellezza.
Se,
almeno, questo spettatore
fosse
stato sufficientemente conosciuto dai filosofi del bello! - se fosse
stato per loro un fatto personale, un'esperienza, il risultato di una
quantità di prove originali e solide, di desideri, di sorprese, di
rapimenti nel territorio del bello! Ma fu sempre – temo –
esattamente il contrario: in modo che, fin dall'inizio, essi ci danno
delle definizioni nelle quali, come nella celebre definizione del
bello di Kant, vi è una mancanza di sottile esperienza personale che
assomiglia molto al grosso verme dell'errore fondamentale. Il bello,
dice Kant, è ciò che piace senza che vi si mischi l'interesse.
Senza interesse! […] Se i nostri professori d'estetica sostengono,
a favore di Kant, che si può guardare in modo disinteressato
anche
una statua femminile priva di veli, ci sarà ben permesso di ridere
un po' alle loro spalle: le esperienze degli artisti sono, se non
altro, molto più
interessanti''.
Nietzsche ci esortava dunque ad una trasvalutazione dei nostri giudizi estetici. Il punto di vista
dell'osservatore, quello privilegiato da Kant, si basa infatti su un
concetto di bellezza depauperato, troppo intellettuale e freddo. La differente prospettiva che Nietzsche ci
invita ad assumere si basa sul tentativo di metterci nei panni dell'artista, sentendo così pulsare la sua e la nostra esistenza nel preciso momento in cui entriamo in contatto attraverso l'opera d'arte. Questo significherebbe riservare ad un secondo momento l'atteggiamento da giudice o studente d'anatomia con cui
dissezioniamo l'opera d'arte per stabilire se ci
piace o
meno. Non che il momento dell'analisi sia inutile: anzi,
esso è necessario per capire come e perché un'opera d'arte ci attira, specialmente in un'epoca come la nostra in cui all'arte sembra affidato il triste compito di fare da sottofondo alle nostre esistenze schiacciate da ben altri valori.
Perciò, alla domanda ''Cosa voglio veramente dalla musica?'' Nietzsche rispondeva: ''Che sia serena e profonda, come
un pomeriggio di ottobre. Che sia singolare, sfrenata, tenera, una
piccola dolce donna fatta di perfidia e di grazia…''.
A
questo punto possiamo far entrare gli altri due protagonisti della
nostra ''storiella'':
Mai
come nel caso di questo batterista, il cambiamento di prospettiva
proposto da Nietzsche è necessario. Pretendere di
analizzare ''musicologicamente'' l'energia vulcanica di Han Bennink
vorrebbe dirne ingabbiarne lo spirito, disarmarlo e renderlo inerme. La
voce di Bennink rischia di essere una voce isolata nel coro di quello
che sta diventando il jazz ''contemporaneo'', una musica sempre più
chiusa in se stessa, noncurante della partecipazione attiva di chi
l'ascolta, autocompiacentesi per il livello di incomunicabilità a
cui è arrivata. Non è un caso che, tra gli addetti ai lavori del
jazz, ci si interroga disperatamente sull'emorragia di pubblico e
consensi e su come fare per invertirne la tendenza. L'unica soluzione
possibile, a mio avviso, sta proprio nell'energia, nell'atteggiamento
con cui chi fa questa musica si espone al pubblico. Se si parte da un
punto di vista di superiorità, di supponenza, di diffidenza nei
confronti di chi ascolta, il jazz ha vita breve. Se invece ci si
sforza di rompere le barriere e si tornerà a
privilegiare la spontaneità, il jazz potrà dire ancora qualcosa. Per questo ho
deciso di raccontare la storia e la musica di Han Bennink,
soprattutto per farlo conoscere a chi non ne ha mai sentito parlare:http://mimesisedizioni.it/libri/arti/musica-contemporanea/la-filosofia-di-han-bennink.html
Un'ultima,
ma non per importanza, voce fuori dal coro rispetto al panorama
musicale nazionale è quella di Paolo Sanna. Ho avuto la fortuna di
conoscere e suonare con Paolo in un momento delicato della mia
''carriera''. Avevo da poco scoperto che le potenzialità del mio
strumento andavano molto oltre rispetto a quello che ci si aspetta dalla batteria, ovvero
niente più che un ''metronomo vivente''. Paolo mi ha fatto capire
l'importanza di ogni minimo gesto con cui sfioro un tamburo o un
piatto e tutte le differenti gradazioni di dinamica e di timbro che ne
vengono fuori. Mi ha proiettato dentro un mondo in cui la batteria,
più che un mezzo
per mettere in mostra la mia conoscenza tecnico/esecutiva, è il
fine,
una sorgente sonora, una voce viva e pulsante attraverso la quale
posso comunicare ciò che sono nell'esatto momento in cui suono. Per dirla con le sue parole: ''Sono quello che suono e suono quello che
sono''.
Ascoltare l'ultimo lavoro di Sanna, ''Miniatura Obliqua''
(http://www.setoladimaiale.net/record.asp?section=audio&id=SM2960)
è un'esperienza abissale, corporea, emozionale, attiva. Paolo mischia i colori e le dinamiche delle sue percussioni con la maestria
di un artigiano d'altri tempi. La precisione delle sue esecuzioni
potrebbe far pensare alla rigorosa scrittura dei migliori compositori
contemporanei (Varèse, Reich, Xenakis, Cage, Gubaidulina) e invece le sue sono pulsanti improvvisazioni. Con ciò non si vuole sminuire il suo lavoro, piuttosto metterne in risalto la preziosità. Tutta la musica di Sanna dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che l'improvvisazione non è sinonimo di approssimazione, poiché anzi vive di una rigorosa e costante ricerca di perfezionamento. Improvvisare con questo spirito vuol dire rendere giustizia alla musica, vuol dire ''chiudere gli occhi e suonare cercando di tirare fuori le
idee dalla nostra testa. Perciò, quando suono, penso solo alla musica. Penso nella
musica. Solo così è possibile capire che la semplicità non coincide per forza con la banalità. Spesso
più un suono è semplice e più è complicato.
Perché per fare le cose più semplici, devi decidere cosa lasciare
fuori e cosa mettere dentro'' (Paul Motian)
«Il
pregio del viaggiare consiste nella paura. Spezza in noi una specie
di apparato scenico interno. Non è più possibile barare.
Mascherarsi dietro ore d'ufficio o di cantiere, quelle ore contro cui
protestiamo tanto e che ci difendono con tanta sicurezza dalla
sofferenza d'esser soli. […] Il viaggio ci toglie ogni rifugio.
Lontano dai parenti, dalla lingua, strappati a tutti i nostri
sostegni, privi delle nostre maschere siamo completamente alla
superficie di noi stessi» (A. Camus)
La metafora del viaggio si addice
perfettamente alla nuova fatica discografica di Alberto Dipace,
pianista e compositore tra i più audaci nell'attuale scena
jazzistica italiana. Dipace affronta senza paura la sfida descritta da Camus intraprendendo un coraggioso viaggio musicale e assumendosi la responsabilità delle sue scelte, a partire dai
fraintendimenti che la parola ''free'' porta con sé. I più
superficiali penseranno all'aspetto deteriore del free jazz, inteso come sinonimo di caos o approssimazione. Niente di tutto ciò
potrete trovare in questo disco dalle atmosfere soffuse ma mai
rilassate, in cui gli effetti del live electronics
di Alessandro Deledda (anche al Rhodes) impreziosiscono il sound di
un gruppo già d'alto livello (Andrea Massaria, chitarra; Stefano
Senni, contrabbasso, Cristiano Calcagnile, batteria).
Il
disco si apre con Reflections,
dialogo tra piano e contrabbasso accompagnati dal debole eco delle loro note. Emerge già una
chiave di lettura del disco: quello che avviene tra i musicisti è un
dialogo prima di tutto con se stessi, una ricerca interiore del
proprio suono e del proprio spazio, prima di esporsi agli altri.
Il
nervoso drumming di Calcagnile che apre Filled Street
interrompe momentaneamente
questa ricerca interiore, a cui si associa la
chitarra scattosa di Massaria ed il basso solido di Senni. L'ingresso
netto del piano di Dipace e del rhodes di Deledda incrementano
ulteriormente la tensione del brano, però senza sovrastare gli altri.
Ciascun musicista prosegue così in uno spazio ben definito ma mai
isolato: come più fili che si intrecciano ne compongono uno solo,
così si svolgono le improvvisazioni collettive del gruppo.
Travellingci riporta all'atmosfera
misteriosa dell'inizio. Il tocco di Dipace riesce a farci sentire le
infinite sfumature di una singola nota che, come una goccia eternamente ritornante, si discioglie nella nube armonica creata da Deledda. L'improvvisazione collettiva che ne scaturisce può essere definita liquida,
nel senso che Bauman ha dato al termine: essa si regge su un tempo
«né
ciclico né lineare, bensì puntillistico, frammentato in una
moltitudine di particelle separate, ciascuna ridotta a un punto che
sempre più si avvicina all'idealizzazione geometrica dell'assenza di
dimensione» (Z. Bauman, prefazione di Una storia sociale del jazz di G. De Stefano, Mimesis 2014).
In
Free for Threeil
pianismo di Dipace viene esaltato dalla dimensione del trio. Senni e
Calcagnile danno vita ad una base ritmica prima oscura e cangiante,
poi magmatica ed incandescente da cui Dipace si diverte ad entrare e
uscire con frammenti di melodie contrastanti.
Protagonista
di Vinyl
Contrast è
l'accostamento paradossale di passato e presente: il fruscìo dei
vecchi vinili ci riporta ad una dimensione d'ascolto lontana. Realtà e finzione si mescolano, fino a quando non ci
rendiamo conto dell'artificialità di questo effetto. Ecco allora che
la musica smette il vestito della malinconia ''inscatolata'' del
passato, tornando alla chiarezza del presente in cui si svolge l'improvvisazione dal retrogusto latino di Dipace.
Somewhere
insideriprende
il filo interrotto della ricerca interiore resa ancor più fragile ed emozionante grazie alla chitarra (stavolta scarna) di Massaria.
La
chiusura del disco è affidata a due coppie di brani speculari, più
un'ultima piccola gemma (Glimpsing
the Freedom):
Change of Road 1
e
2;
Into the Noise e
Out of the
Noise,
dove l'attenzione di tutti i musicisti è rivolta ancora al timbro,
al suono collettivo in cui improvvisazione elettronica ed acustica si
fondono magistralmente, come non si sentiva dai tempi
dell'Esbjorn Svensson Trio. È questo uno dei possibili ''viaggi'' che il jazz
italiano deve percorrere se vuole evitare l'isolamento o, peggio
ancora, di essere ridotto alla dimensione museale a cui tanti ''big'' del nostro Paese lo stanno rilegando.
Sono sempre stato scettico a
proposito dei confronti, specialmente tra quegli inafferrabili personaggi quali
sono i musicisti ed i filosofi. Mai quanto oggi per suscitare l'interesse di chi
ascolta o legge è necessaria una spiccata personalità capace di distinguersi
dall'ammasso informazioni (e note) di cui disponiamo. Dunque, stiamo parlando
di persone sostanzialmente irriducibili ad altro da sé. Eppure eccomi qui a
proporvi questo primo confronto: Blaise Pascal e Steve Lacy. Perché loro due? E
soprattutto, perché loro due insieme?
Due sono gli elementi essenziali
che a mio avviso li accomunano: la predilezione per la dimensione 'in solo' ed
una sottile ironia. Certo, i 'filosofi' in genere non eccellono in
socievolezza, preferendo l'intimità della loro riflessione. Tuttavia, è pur
vero che ben pochi non abbiano mai avvertito l'esigenza di mettere in
discussione le loro certezze venendo a contatto con gli altri. E tra questi
pochi figura sicuramente Blaise Pascal. Leggendo i suoi Pensieri non si può fare a meno di ammirare l'incrollabile serenità
con cui il filosofo francese procede nella sua riflessione. Anche la tanto
vituperata scommessa, fraintesa da molti come un freddo calcolo utilitaristico,
rientra in questa dimensione di irriducibile sicurezza nelle proprie ragioni e nella
propria fede cattolica. Proviamo a riassumere il ragionamento pascaliano (se
siete giocatori di poker quanto segue vi risulterà particolarmente familiare).
Chi scommette al gioco rischia un guadagno o una perdita, secondo il calcolo
delle probabilità; più crescono le probabilità di vincita, più il giocatore è
portato a scommettere. Applicando questa regola al problema del destino
dell'uomo, Pascal esorta l'ateo a scommettere per Dio perché, posta un'infinità
di casi, tra i quali uno solo fosse in nostro favore (l'esistenza di Dio e,
quindi, della Divina provvidenza), noi avremmo torto a non
prendere per vera l'unica probabilità a nostro favore. Cosa avremmo infatti da
perderci?
Ma veniamo a Lacy. Sassofonista
(sopranista). Nato a New York da una famiglia di ebrei emigrati dalla Russia,
debutta nel jazz attraverso il dixieland.
L'incontro col pianista Cecil Taylor gli apre il folgorante orizzonte della
libera improvvisazione. Nella sua carriera Lacy collaborerà con altri grandi
come Gil Evans e, soprattutto,
Thelonious Monk (al quale dedicherà il suo capolavoro Reflections). A proposito dello stile di Lacy, è stato detto:
"Lacy sembra sempre parlare a se stesso, il suo sguardo, pur se fisso
verso l'interlocutore, guarda verso di sé. Un uomo che parla molto con se
stesso, anche musicalmente: non sorprende che il concerto 'solo' gli si addica.
Il dialogo privato si fa pubblico. L'unica differenza è nel pubblico. Ma Lacy
non ha paura del pubblico: gli si dona con molta intensità, perché Lacy è
convinto di ciò che fa, crede molto in sé, non ha paura allora di mostrarsi.
Uomo quieto, introverso, melanconico e attento, estremamente attento. Eppure,
quest'uomo assorto emana una sorta di fluido, specie quando è sul palco, dove
quasi non si muove, sposta ogni tanto il piede in avanti, o flette in alto una
gamba, rattrappendosi per un attimo, come se in quel momento la musica dovesse
fuoriuscire con maggior potenza" (M. Luzzi, Uomini e avanguardie jazz,
Gammalibri, Milano 1980, p. 190).
Pascal. 1. Pensieri sullo spirito e sullo stile
La vera eloquenza si burla
dell'eloquenza; la vera morale si burla della morale; voglio dire che la morale
del giudizio se la ride della morale della mente, che è senza regole. Infatti
al giudizio appartiene il sentimento, come alla mente appartengono le scienze.
La intuizione fa parte del giudizio, la geometria della mente. Ridersela della
filosofia significa filosofare per davvero.
--
L'ultima cosa che si pensa
scrivendo un libro è sapere che cosa bisogna mettere in principio.
--
L'eloquenza è un ritratto del
pensiero; perciò, quelli che dopo aver dipinto aggiungono ancora qualcosa,
fanno un quadro invece di un ritratto.
--
Quando siamo di fronte a uno
stile naturale, restiamo stupiti e incantati, perché ci aspettavamo di vedere
un autore e troviamo invece un uomo.
--
Quando si legge troppo alla svelta o troppo lentamente, non si capisce nulla.
--
Volete che gli altri pensino bene
di voi? Non parlatene.
2. Miseria dell'uomo senza Dio
Non si insegna agli uomini a
essere onesti, però si insegna loro tutto il resto; e intanto questi non si
vantano tanto di sapere tutto il resto quanto di essere onesti. Si vantano di
sapere soltanto quello che non hanno mai imparato.
--
Troppo vino e troppo poco vino.
Non gliene date, e non potrà trovare la verità; dategliene troppo, e avrete lo
stesso risultato.
--
Rendiamoci conto delle nostre
possibilità; noi siamo qualcosa, ma non siamo tutto; quel tanto di essere che
possediamo ci toglie la conoscenza dei primi principi che nascono dal nulla, e
quel poco di essere che possediamo ci nasconde la vista dell'infinito. Che
cos'è in fondo l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto
rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto.
[...] Noi navighiamo in un vasto
mare, sempre incerti e instabili, sballottati da un capo all'altro. Qualunque
scoglio a cui pensiamo di attaccarci e restar saldi, vien meno e ci abbandona,
e se l'inseguiamo sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una
fuga eterna. Per noi nulla si ferma. Questa è la nostra naturale condizione,
che tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione; desideriamo ardentemente
di trovare un assetto stabile, e una base ultima per edificarvi una torre che
si levi fino all'infinito; ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra
s'apre in abissi.
Nulla può fissare il finito in
mezzo ai due infiniti che lo incarcerano e lo fuggono. Quando si è ben capito
questo, credo che ognuno potrà tenersi pago dello stato in cui la natura l'ha
posto.
[...] Il colmo della nostra
impotenza nel conoscere le cose sta nel fatto che queste sono semplici in se
stesse mentre noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso:
l'anima e il corpo. L'uomo è per se stesso il più prodigioso oggetto della
natura; perché non può concepire che cosa sia corpo, e meno ancora che cosa sia
spirito, e molto meno ancora come un corpo possa essere unito a uno spirito.
Sta qui la sua maggiore difficoltà, e intanto è proprio questo il suo essere:
Modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab hominibus non potest, et
hoc tamen homo est(Gli uomini non posso capire la maniera con cui l'anima si
unisce al corpo, e tuttavia l'uomo è proprio questo. S. Agostino, De Civitate
dei, XXI, 10).
--
È deplorevole vedere tutti gli
uomini deliberare soltanto sui mezzi e mai sul fine. Ognuno pensa come
assolvere agli obblighi della propria condizione; ma la scelta della condizione
e della patria ci viene dalla sorte. E' pietoso vedere tanti turchi, tanti
eretici, tanti infedeli seguire le abitudini dei loro padri, per il solo fatto
che ognuno di essi è stato prevenuto che quelle sono le migliori.
--
Toccando l'uomo, crediamo di
toccare un organo ordinario. A dir vero, gli uomini sono organi, ma bizzarri,
mutevoli, variabili (le cui canne non si susseguono in una gradazione
continua). Quelli che sanno toccare soltanto organi ordinari non riuscirebbero
a trarre armonie dagli altri. Bisogna sapere dove sono i tasti.
--
Noi consideriamo le cose non
soltanto sotto altri aspetti ma anche con altri occhi; non ci interessa
trovarle uguali.
Nulla è tanto insopportabile per
l'uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza
preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il
suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il
suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la
tetraggine, la tristezza, l'affanno, il dispetto, la disperazione.
Niente ci piace tanto quanto la
lotta, ma non la vittoria: ci piace veder lottare gli animali tra loro ma non
il vincitore accanirsi sul vinto; che cosa volevamo vedere se non la fine della
vittoria? Ed ecco, appena arriva, ne siamo stufi. Così è nel gioco, così è
nella ricerca della verità. Nelle polemiche prendiamo gusto a vedere il
contrasto delle opinioni; ma non ci interessa contemplare la verità ritrovata;
per farla notare con piacere, bisogna farla veder nascere dalla polemica. Così
nelle passioni; ci piace veder il contrasto di due passioni, ma se una prende
il sopravvento, non è che brutalità. Non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca
delle cose.
--
Basta poco per consolarci, perché
basta poco per affliggerci.
--
La nostra natura sta nel
movimento; il completo riposo è la morte.
--
La vanità è così radicata nel
cuore dell'uomo che un soldato, un manovale, un cuoco, un facchino si vanta e
può avere i suoi ammiratori; gli stessi filosofi ne vogliono; e quelli che
scrivono contro la gloria vogliono avere la gloria d'aver scritto bene; e
quelli che li leggono vogliono avere la gloria di averli letti; e forse anch'io
che scrivo queste cose ne ho voglia; e forse anche quelli che mi leggeranno...
--
Curiosità non è che vanità.
Spessissimo si vuol sapere solo per parlarne. Diversamente chi viaggerebbe sul
mare, per non parlarne mai e per il solo piacere di vedere, senza mai la
speranza di comunicarlo ad altri?
--
Chi volesse conoscere a fondo la
vanità dell'uomo non ha che da considerare le cause e gli effetti dell'amore.
La causa è un non so che (Corneille), e gli effetti sono spaventevoli. Questo
non so che, una cosa tanto da nulla che non si può neppure determinare,
sconvolge tutta la terra, i principi, gli eserciti, il mondo intero.
Il naso di Cleopatra: se fosse
stato più corto, la faccia della terra sarebbe cambiata.
--
Gli uomini, non avendo potuto
guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per
rendersi felici.
--
Non stiamo mai nei limiti del
tempo presente. Anticipiamo l'avvenire come se fosse troppo lento ad arrivare,
quasi per affrettare il suo corso; oppure rievochiamo il passato per fermarlo,
quasi troppo precipitoso; siamo così imprudenti da scorazzare in tempi che non
ci appartengono, e da non pensare all'unico tempo che ci appartiene; siamo così
fatui che sogniamo i tempi che non esistono più, e sfuggiamo senza rifletterci
il solo che sussiste. Perché, di solito, il presente ci tormenta. Lo
nascondiamo alla nostra vista perché ci affligge; e se è piacevole, ci
lamentiamo di vederlo fuggire. Cerchiamo di sostenerlo con l'avvenire, e
pensiamo di disporre le cose che non sono ancora in nostro potere, in un tempo
a cui non abbiamo alcuna sicurezza di arrivare.
Ognuno esamini i propri pensieri,
e li troverà occupati nel passato e nell'avvenire. Non pensiamo quasi mai al
presente; e, se ci pensiamo, l'è soltanto per prenderne lume a disporre
dell'avvenire. Il presente non è mai il nostro scopo; il passato e il presente
sono i nostri mezzi; soltanto l'avvenire è il nostro scopo. Per questo, non
viviamo mai, ma speriamo di vivere; e disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile
che non lo diverremo giammai.
--
Corriamo senza curarci del
precipizio, dopo d'aver messo qualcosa davanti a noi per impedircene la vista.
3. Necessità della scommessa
È un dovere indispensabile
cercare quando si è nel dubbio; e per questo, chi dubita e non cerca è insieme
abbastanza infelice e abbastanza ingiusto. E se costui rimane tranquillo e
soddisfatto di ciò, se se ne vanta e se infine ne fa un motivo di gioia e di
vanità, allora non trovo un termine adatto per una creatura così stravagante.
--
La sensibilità dell'uomo per le
piccole cose e l'insensibilità per le grandi è segno di uno strano
pervertimento.
--
Quando considero la breve durata
della mia vita, assorbita nell'eternità che precede e che segue il piccolo
spazio che occupo e che vedo inabissato nell'infinita immensità degli spazi che
ignoro e che m'ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che
là, perché non c'è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che
allora. Chi mi ci ha messo? Per comando e per opera di chi mi sono stati
destinati questo luogo e questo tempo? Memoria hospitis unius diei
praetereuntis (La speranza dell'empio dilegua come la memoria dell'avventore d'un
sol giorno - Sapienza, V, 14).
--
Il silenzio eterno degli spazi
infiniti mi sgomenta.
--
Il fluire. E' orribile accorgersi
che dilegua tutto quello che possediamo.
--
Tra noi da una parte e l'inferno
o il cielo dall'altra non c'è che la vita, che è la cosa più fragile che
esista.
--
Dialogo: Infinito. Niente.- Cominciamo col dire: 'Dio
esiste oppure non esiste?'. Da che parte ci decideremo? La ragione non può
decidere nulla; c'è di mezzo un caos infinito. Si gioca una partita,
all'estremità di questa distanza infinita, dove risulterà capo o croce. Su che
cosa puntate? Secondo ragione, non potete scegliere né l'uno né l'altro;
secondo ragione, non potete escludere nessuno dei due. Dunque non accusate di
falsità coloro che hanno fatto una scelta; perché non ne sapete niente.
- No, ma io li biasimo d'aver
fatto non già questa scelta, ma una scelta; perché, anche se tanto colui che
sceglie croce quanto l'altro incorrano in un errore analogo, sono sempre tutti
e due in errore; la cosa migliore è di non scommettere.
- Si, ma bisogna scommettere.
Questa non è una cosa volontaria; voi siete imbarcato. Quale dei due
sceglierete? Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa
meno. Voi avete da perdere due cose: il vero e il bene, e due cose da
impegnare; la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la
vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la
miseria. La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l'uno piuttosto
che l'altro, perché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto assodato.
Ma la vostra beatitudine? Valutiamo allora il guadagno e la perdita, scegliendo
croce, cioè l'esistenza di Dio. Se guadagnate, guadagnate tutto; se perdete,
non perdete nulla. Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare.
4. I mezzi per credere
Esistono tre categorie di
individui: quelli che servono Dio dopo di averlo cercato; quelli che si
sforzano di cercarlo senza ancora trovarlo; quelli che vivono senza cercarlo e
senza averlo trovato. I primi sono ragionevoli e felici, gli ultimi sono pazzi
e infelici, quelli di mezzo sono infelici e ragionevoli.
--
Il dover mangiare e dormire tutti
i giorni non ci annoia perché la fame rinasce, e così il sonno; se non fosse
così, ci annoieremmo. Similmente, senza la fame delle cose spirituali, ne
sentiamo disgusto. Fame della giustizia: ottava beatitudine.
--
L’ultimo passo della ragione è di
riconoscere che c’è un’ infinità di cose che la sorpassano; essa è debole se
non arriva a conoscere questo. Se le cose naturali la sorpassano, che dire
delle cose soprannaturali?
--
Il cuore ha le sue ragioni che la
ragione non conosce; lo vediamo in mille cose. Io dico che il cuore ama l’essere
universale naturalmente e se stesso naturalmente, a seconda a chi dei due si
attacca; e s’indura contro l’uno o l’altro a sua scelta. Voi avete respinto l’uno
e conservato l’altro: è forse seguendo la ragione che amate il vostro io?
--
Ragione degli effetti. La
debolezza dell’uomo è la causa di tante virtuosità convenzionali, come il saper
suonare bene il liuto. Questo è un male soltanto a causa della nostra
debolezza.
--
Non si riesce a immaginare
Platone e Aristotele se non con gran vesti di pedanti. Erano invece delle
persone comuni e ridevano, come gli altri, con i loro amici; e quando si sono
divertiti a scrivere le Leggi e la Politica, l’hanno fatto per divertirsi;
questa era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita, mentre la più
filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente. Se hanno scritto di
politica, l’han fatto come per dar norme per un manicomio; e se hanno finto di
parlarne come di cosa seria, l’hanno fatto perché i pazzi a cui si rivolgevano
credevano di essere re e imperatori, ed essi si immedesimavano dei princìpi di
costoro per rendere la loro follia meno dannosa possibile.
5. I filosofi
L’uomo non è che una canna, la
più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo
s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma,
anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo
uccide, perché sa di morire e sa la superiorità dell’universo su di lui; l’universo
invece non ne sa niente.
Tutta la nostra dignità consiste
dunque nel pensiero. È con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo
spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensar bene:
questo è il principio della morale.
--
Canna pensante. Non devo chiedere
la mia dignità allo spazio ma al retto uso del mio pensiero. Non otterrei nulla
di più col possesso delle terre; mediante lo spazio, l’universo mi circonda e
mi inghiotte come un punto; mediante il pensiero, io lo comprendo.
--
La natura dell’uomo non è di
avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi. La febbre ha i suoi brividi e i suoi
ardori; il freddo mostra, tanto quanto il caldo, l’intensità dell’ardore della
febbre. Le invenzioni degli uomini procedono di secolo in secolo allo stesso
modo. La bontà e la malizia del mondo, in genere, fanno lo stesso.
--
L’eloquenza continua annoia. I
principi e i re talvolta giuocano. Non stanno sempre sul trono; vi si annoiano:
la grandezza ha bisogno di essere lasciata per essere sentita. La continuità
disgusta sempre: il freddo è piacevole perché dopo ci si riscalda. La natura
agisce per progressi, itus et reditus. Passa e ritorna, poi va più lontana, poi
due volte meno, poi più lontano ancora, ecc. Il flusso del mare procede così,
il sole sembra avanzare così.
--
Il caso dà i pensieri e il caso
li toglie; non c’è nessun’arte per conservarli o per acquistarli. Pensiero
sfuggito: lo volevo scrivere; scrivo invece che mi è sfuggito.
--
Ho visto che tutti i paesi e
tutti gli uomini mutano; e così, dopo molti mutamenti di giudizio riguardanti
la vera giustizia, ho conosciuto che la nostra natura non era che un continuo
cambiamento, e da allora non ho più cambiato; e se cambiassi, confermerei la
mia opinione.
--
Non è un bene essere troppo libero. Non è un bene
sentire tutte le necessità.
--
La grandezza dell’uomo è grande
in questo: che si riconosce miserabile. Un albero non sa di essere miserabile.
Dunque essere miserabile equivale a conoscersi miserabile; ma essere grande
equivale a conoscere di essere miserabile.
--
Gli uomini sono così
necessariamente folli che il non essere folle equivarrebbe a essere soggetto a
un’altra specie di follia.
--
È pericoloso mostrar troppo all’uomo
quanto è simile alle bestie, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è ancora
pericoloso mostrargli troppo la sua grandezza senza la sua bassezza. È ancor
più pericoloso lasciargli ignorare l’una e l’altra. Ma è utilissimo
prospettargli l’una e l’altra. Non bisogna far credere all’uomo di essere
uguale alle bestie o agli angeli, né bisogna fargli ignorare l’una e l’altra
cosa, ma è necessario che conosca l’una e l’altra cosa.
6. La morale e la dottrina
L’uomo non sa in qual posto collocarsi.
Egli è visibilmente sviato, ed è caduto dal suo vero posto senza poterlo
ritrovare. Lo cerca dappertutto con inquietudine e senza successo tra tenebre
impenetrabili. Ma c’è abbastanza luce per coloro che desiderano vedere e c’è
abbastanza oscurità per coloro che hanno una disposizione contraria.
--
Poiché spesso si sogna di sognare
inserendo un sogno nell’altro, la vita potrebbe essere essa stessa un sogno,
sul quale si innestano gli altri e da cui ci svegliamo con la morte; inoltre
durante questa vita possediamo pochi principi del vero e del bene come durante il
sonno naturale, e questi differenti pensieri che in essa ci agitano non sono
forse che illusioni, simili al trascorrere del tempo e alle vane fantasie dei
nostri sogni.
--
Noi siamo pieni di cose che ci
spingono fuori di noi. Il nostro istinto ci fa sentire che bisogna cercare la
felicità fuori di noi. Le nostre passioni ci spingono verso l’esterno, anche
quando non ci si offrono degli oggetti esterni per eccitarle; gli oggetti
esterni ci tentano da sé e ci invitano, anche quando non ci pensiamo. E così i
filosofi hanno voglia di dire: ‘Ritiratevi in voi stessi e troverete il vostro
bene’; nessuno ci crede, e coloro che ci credono sono i più vuoti e i più
stupidi.
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Tutti errano, e tanto più
pericolosamente in quanto ognuno di essi segue una verità. Il loro errore non
consiste nel seguire una cosa falsa, ma nel non seguire un’altra verità.