Per Liberareggio.org
"Al rapimento estasiante ricercato dalle belle arti ora ci si contrappone drasticamente rendendo l’opera d’arte centro di uno scandalo. La nuova esigenza dell’opera d’arte diventa suscitare la pubblica indignazione".
Queste parole di Walter Benjamin (pubblicate nel 1936 nel celebre saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”) mi aiutano non poco per introdurvi in questo breve reportage della Biennale, rassegna internazionale d’arte che si tiene dal 1907 a Venezia. Il gusto di provocare può essere infatti preso come il filo rosso che lega tra loro tutti i padiglioni della Biennale 2011. Niente può sfuggire al caustico sguardo dell’arte contemporanea: dalla “sete di mattone” di chi vuole possedere a tutti i costi una propria abitazione, anche se di formato extra-small (foto 1 e 2), al bisogno disperato di un impiego fisso, per quanto monotono e logorante possa essere (3 e 4), obiettivo indispensabile per sentirci nel nostro piccolo onnipotenti quando preleveremo il nostro stipendio al bancomat-organo che accompagna ogni operazione con una sinfonia aulica (5) e per poter soddisfare i nostri capricci consumistici all’insegna dell’hi-tech (6 e 7).
Quanto a provocazione non è stato da meno il padiglione Italia, dal titolo “L’arte non è cosa nostra”, sia per il suo formato monstre in occasione del 150° anniversario dell’unità nazionale (più di 200 opere esposte), sia per i contenuti proposti. Al di là dell’immancabile satira politica e di costume (8, 9, 10, 11), non poteva mancare uno sguardo alla storia e alle sorti italiche: ecco così Garibaldi che diventa un feticcio da oltraggiare (mettendo insolitamente d’accordo Nord e Sud) (12), e l’Italia che viene vista come una martire crocifissa e ancora sanguinante (13).
Ma a colpire particolarmente l’attenzione generale è stato il Museo della Mafia, curato da Cesare Inzerillo e Vittorio Sgarbi. Al suo oscuro interno i visitatori si ritrovano (metaforicamente) faccia a faccia con i ritratti (14, 15) e le gigantografie dei più pericolosi boss d’Italia, tra cui alcune star reggine (16, 17); possono inoltre osservare la ferocia delle esecuzioni militari dei mafiosi con una galleria di foto per stomaci forti (18, 19, 20); possono far loro visita nelle anguste cabine per le visite in carcere (21); possono infine ricordarsi la sorte di chi ha cercato di ostacolarli (22, 23). Ma, per fortuna, essere meridionali non vuol dire per forza essere mafiosi. Queste ultime due opere che vi propongo colgono due simboli universali della meridionalità e soprattutto della ‘rriggitanità: da un lato la fatica sul volto e sulle mani di chi tira avanti a campare (24), e dall’altro il sacro ozio di chi si ferma a guardare il vuoto di fronte a sé (25). Insomma, se tutti siamo un po’ artisti, i ‘rriggitani lo sono ad honoris causa.