Disco
ascoltabile al link
«Il
pregio del viaggiare consiste nella paura. Spezza in noi una specie
di apparato scenico interno. Non è più possibile barare.
Mascherarsi dietro ore d'ufficio o di cantiere, quelle ore contro cui
protestiamo tanto e che ci difendono con tanta sicurezza dalla
sofferenza d'esser soli. […] Il viaggio ci toglie ogni rifugio.
Lontano dai parenti, dalla lingua, strappati a tutti i nostri
sostegni, privi delle nostre maschere siamo completamente alla
superficie di noi stessi» (A. Camus)
La metafora del viaggio si addice
perfettamente alla nuova fatica discografica di Alberto Dipace,
pianista e compositore tra i più audaci nell'attuale scena
jazzistica italiana. Dipace affronta senza paura la sfida descritta da Camus intraprendendo un coraggioso viaggio musicale e assumendosi la responsabilità delle sue scelte, a partire dai
fraintendimenti che la parola ''free'' porta con sé. I più
superficiali penseranno all'aspetto deteriore del free jazz, inteso come sinonimo di caos o approssimazione. Niente di tutto ciò
potrete trovare in questo disco dalle atmosfere soffuse ma mai
rilassate, in cui gli effetti del live electronics
di Alessandro Deledda (anche al Rhodes) impreziosiscono il sound di
un gruppo già d'alto livello (Andrea Massaria, chitarra; Stefano
Senni, contrabbasso, Cristiano Calcagnile, batteria).
Il
disco si apre con Reflections,
dialogo tra piano e contrabbasso accompagnati dal debole eco delle loro note. Emerge già una
chiave di lettura del disco: quello che avviene tra i musicisti è un
dialogo prima di tutto con se stessi, una ricerca interiore del
proprio suono e del proprio spazio, prima di esporsi agli altri.
Il
nervoso drumming di Calcagnile che apre Filled Street
interrompe momentaneamente
questa ricerca interiore, a cui si associa la
chitarra scattosa di Massaria ed il basso solido di Senni. L'ingresso
netto del piano di Dipace e del rhodes di Deledda incrementano
ulteriormente la tensione del brano, però senza sovrastare gli altri.
Ciascun musicista prosegue così in uno spazio ben definito ma mai
isolato: come più fili che si intrecciano ne compongono uno solo,
così si svolgono le improvvisazioni collettive del gruppo.
Travelling
ci riporta all'atmosfera
misteriosa dell'inizio. Il tocco di Dipace riesce a farci sentire le
infinite sfumature di una singola nota che, come una goccia eternamente ritornante, si discioglie nella nube armonica creata da Deledda. L'improvvisazione collettiva che ne scaturisce può essere definita liquida,
nel senso che Bauman ha dato al termine: essa si regge su un tempo
«né
ciclico né lineare, bensì puntillistico, frammentato in una
moltitudine di particelle separate, ciascuna ridotta a un punto che
sempre più si avvicina all'idealizzazione geometrica dell'assenza di
dimensione» (Z. Bauman, prefazione di Una storia sociale del jazz di G. De Stefano, Mimesis 2014).
In
Free for Three il
pianismo di Dipace viene esaltato dalla dimensione del trio. Senni e
Calcagnile danno vita ad una base ritmica prima oscura e cangiante,
poi magmatica ed incandescente da cui Dipace si diverte ad entrare e
uscire con frammenti di melodie contrastanti.
Protagonista
di Vinyl
Contrast è
l'accostamento paradossale di passato e presente: il fruscìo dei
vecchi vinili ci riporta ad una dimensione d'ascolto lontana. Realtà e finzione si mescolano, fino a quando non ci
rendiamo conto dell'artificialità di questo effetto. Ecco allora che
la musica smette il vestito della malinconia ''inscatolata'' del
passato, tornando alla chiarezza del presente in cui si svolge l'improvvisazione dal retrogusto latino di Dipace.
Somewhere
inside riprende
il filo interrotto della ricerca interiore resa ancor più fragile ed emozionante grazie alla chitarra (stavolta scarna) di Massaria.
La
chiusura del disco è affidata a due coppie di brani speculari, più
un'ultima piccola gemma (Glimpsing
the Freedom):
Change of Road 1
e
2;
Into the Noise e
Out of the
Noise,
dove l'attenzione di tutti i musicisti è rivolta ancora al timbro,
al suono collettivo in cui improvvisazione elettronica ed acustica si
fondono magistralmente, come non si sentiva dai tempi
dell'Esbjorn Svensson Trio. È questo uno dei possibili ''viaggi'' che il jazz
italiano deve percorrere se vuole evitare l'isolamento o, peggio
ancora, di essere ridotto alla dimensione museale a cui tanti ''big'' del nostro Paese lo stanno rilegando.