venerdì 30 dicembre 2016

Massaria / Ditmas - The Music of Carla Bley

Descrivere un disco come The Music of Carla Bley (pubblicato dall'encomiabile etichetta nusica.org e scaricabile gratuitamente al link) esige una premessa. Volendo improvvisarmi ''titolista'' per un attimo potrei dare a questa recensione il sottotitolo: ''Un disco per una rinascita dell'arte dell'ascoltare''. Ammetto subito che non si tratta di farina del mio sacco. Ecco la vera storia di questo titolo:

''Camminavo un giorno lungo il lago di Silvaplana attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlei, mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero -. Se torno indietro di un paio di mesi da quel giorno, trovo come segno premonitore un cambiamento improvviso, profondo, decisivo del mio gusto, soprattutto in fatto di musica. Forse si può considerare come musica tutto lo Zarathustra; e certamente un suo presupposto fu la rinascita nell'arte dell'ascoltare'' (F. Nietzsche, Ecce Homo, p. 344)

Non vorrei sembrare azzardato ma, così come per leggere Così parlò Zarathustra bisogna spogliarsi delle normali consuetudini del lettore ''linear-logico-occidentale'', analogamente, per accostarsi al disco di Andrea Massaria e Bruce Ditmas, bisogna mettere da parte le aspettative dell'ascoltatore ''ben educato dal mercato del jazz''.
Massaria e Ditmas, come due sfrontati Zarathustra, si inerpicano per i pericolosi sentieri dell'improvvisazione nella sua accezione più ampia possibile. Forti delle loro identità stilistiche e di sonorità ben riconoscibili, i due prendono spunto da alcuni temi firmati da Carla Bley per dare vita ad un esaltante dialogo all'insegna di un densissimo, quasi estenuante interplay. Estenuante perché l'attenzione e l'interazione reciproche sono tali da rendere ostico l'accesso ad un ascoltatore non preparato. Chiunque si aspetti da questo disco un omaggio ''filologicamente corretto'' alla Bley, non potrà che restare deluso. Chi invece ha voglia di accogliere le fulminanti intuizioni del duo può dirsi a metà dell'opera.

Ma cosa intendeva realmente Nietzsche per ''rinascita dell'arte dell'ascoltare''? È il filosofo stesso a chiarirlo quando spiega di non esser stato lui ad aver progettato e scritto quell'opera inaudita come Così parlò Zarathustra, ma che essa si compì ''da sola'', grazie ad una fulminea ed irresistibile ispirazione. Nietzsche descrive magistralmente questo stato d'animo e cosa esso provoca in chi è disposto ad assecondarlo:

''Si ode, non si cerca; si prende, non si domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, con necessità, senza esitazioni nella forma – io non ho mai avuto scelta. Tutto avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità. Tutto si offre come l'espressione più vicina, più giusta, più semplice'' (Ecce Homo, p. 348-9)

Sono sicuro che parole simili suoneranno familiari alle orecchie di improvvisatori estremi come Massaria e Ditmas, due musicisti che hanno fatto della ricerca più libera, del superamento di qualsiasi etichetta o definizione la loro ragion d'essere.

Il disco si apre con Ida Lupino, uno dei migliori temi della Bley per lirismo e respiro. Massaria lascia scorrere dolcemente le note della melodia, senza ricorrere ad altro. Ditmas si muove con discrezione negli spazi lasciati dalla chitarra senza mai prevaricarla, e lo fa con un formidabile lavoro contrappuntistico su piatti e rullante. Come due monaci buddhisti, Massaria e Ditmas improvvisano senza accumulare caoticamente nuovi materiali, bensì togliendo il superfluo, riducendo così il loro dialogo all'essenziale. Massaria sviluppa il suo fraseggio attraverso una lunga successione di intervalli e senza cadere nella tentazione di riempire gli inevitabili vuoti lasciati dall'assenza del contrabbasso. Ditmas invece continua a dilatare e mischiare tra loro le sonorità dei soli piatti e rullante. Il brano si conclude col naturale ritorno del tema, eseguito ancora senza alcun orpello inutile.

Se in Ida Lupino il duo si era dimostrato fedele interprete del tema bleyano, ecco che in And now the Queen il loro zampino inizia ad emergere. Massaria, ricorrendo all'effettistica che ha reso inconfondibile il suo sound, cambia l'intenzione ritmica del tema in un fast swing stralunato ed ossessivo; Ditmas gli risponde per le rime con un fraseggio sull'intero set da cui emergono talvolta dei frammenti di ostinato swing, subito spezzati e ricombinati liberamente. Lo scambio di idee tra i due è repentino, basti citare come Massaria riprenda ed allarghi l'idea ritmica lanciata da Ditmas al minuto 2.17.

Anche Olhos de gato, ballad dal retrogusto tangheiro, viene trasfigurata dal duo in chiave personale: Massaria torna a sonorità più scure e lascia che riverberi ed effetti si accumulino sotto la melodia creando una fitta nube sonora. Ditmas passa alle spazzole, producendo un delicato ''rumore bianco'' che sostiene ed esalta il fraseggio scarno ed enigmatico del chitarrista. I due dimostrano nuovamente come la libera improvvisazione sia l'esatto opposto di quanto pensano i suoi detrattori: la valorizzazione del respiro e del silenzio, l'essenzialità e la concentrazione su pochi elementi rendono unica ed irripetibile la loro esecuzione. Il chitarrista triestino rivela inoltre la sua curiosità portando la propria proposta musicale verso direzioni inconsuete: bordoni, loop, effetti si accavallano gradualmente, generando piani sonori affascinanti e lontani anni luce dal solito fraseggio post-bop proposto dalla maggior parte dei chitarristi alla ribalta nel jazz contemporaneo.

In Vashkar la ricerca effettistica di Massaria continua, prendendo una direzione più noisy. Anche gli spunti di Ditmas si fanno più nervosi e scattanti: passato ai mallets, il batterista alterna rapidi crescendo sui piatti ad oscuri e scattanti fill sui tamburi. Massaria accoglie subito l'invito di Ditmas verso una direzione più nervosa ed increspata, ritornando agli stilemi che caratterizzano il suo sound.

In Utviklingssang il duo torna ad un'esecuzione scarna ed essenziale: Massaria esegue il tema in pulito, analogamente a quanto fa Steve Swallow col celebre trio della Bley. Ditmas riduce ulteriormente il suo spazio sonoro percuotendo con le mani i tamburi, mentre il chitarrista lascia che distorsioni elettroniche e loop si intromettano con l'andamento della melodia, valorizzandola per contrasto. Dal minuto 3.26 il fraseggio di entrambi si fa sempre più spigoloso, quasi a rimarcare la comune volontà di forzare e rompere le convenzioni dell'improvvisazione jazzistica. Il ritorno del tema riporta in auge le atmosfere oscure e sospese tanto care a Carla Bley.

Il tema di Batterie viene lanciato da uno strepitoso Ditmas. Impressionante è la capacità del batterista di coniugare nel suo drumming spunti lirico-melodici con il fraseggio più concitato e libero del free ''vecchio stile''. Massaria si unisce all'esecuzione del tema, per poi tuffarsi in una violenta improvvisazione in cui Ditmas continua ad alzare l'asticella della tensione ritmica. Il chitarrista gli risponde mettendosi in contrapposizione, ossia optando per linee melodiche ''liquide'' e poi sempre più fluttuanti ed oscure. La chiusura del disco è affidata al batterista ed alle sue esplosioni sui piatti.



The music of Carla Bley è un disco profondo che presenta molteplici chiave di lettura e di ascolto: la dimensione ''piratesca'' che lascia libero sfogo agli intrepidi Massaria e Ditmas è solo una delle tante. Oltre ad essa il tema dell'ascolto reciproco e dell'interplay è un altro importante elemento. Grazie alla condivisione di intenti ed interessi i due hanno dato consistenza ad una formazione apparentemente povera ma che, proprio per la sua essenzialità, si rivela continuamente cangiante ed irrequieta. Infine bisogna citare l'inaspettata ricerca lirica e melodica di due musicisti eccezionali, due preziosi ed instancabili improvvisatori da tenere sott'occhio nello statico panorama jazzistico italiano.

giovedì 29 dicembre 2016

Cristiano Calcagnile - Multikulti Cherry On

Quello di cui mi accingo a parlarvi è ben più che un disco: è un prezioso documento di una cerimonia di esaltazione dell'esistente, di un rito di pura gioia musicale a cui ho preso parte nella sera di martedì 20 ottobre 2015. Quella sera, presso il Centro Culturale Candiani di Mestre, l'ottetto di Cristiano Calcagnile tenne uno strepitoso concerto, dal quale nacque proprio il disco ''Multikulti Cherry On'' (Caligola Records).

Non so neanch'io perché ho atteso così tanto prima di scrivere queste righe. Forse perché adesso più che mai sento il bisogno di ringraziare Cristiano, col quale ho condiviso alcuni momenti importanti nella mia formazione musicale. Più che un professore, avevo la sensazione di avere davanti un fratello maggiore, una persona con la quale è difficile non entrare in sintonia. L'esempio di Cristiano mi ha confermato che essere un musicista non vuol dire intraprendere una professione, bensì seguire una missione. Prima di dedicare la propria esistenza alla musica non soltanto bisogna essere pronti ad affrontare tantissime difficoltà, ma bisogna avere qualcosa di importante da trasmettere agli altri. Il musicista non deve limitarsi ad essere un ottimo strumentista, deve lasciare una traccia di sé in chi lo ascolta e dargli un buon motivo per andare avanti nella sua esistenza. E l'unico modo per riuscire in questo è ''amare profondamente quello che si fa. Nella vita bisogna assolutamente amare qualcosa. È il solo mezzo per sfuggire alla routine quotidiana. La musica è ideale per questo scopo. Noi tutti abbiamo bisogno della musica. La musica spazza via la polvere dalla vita di tutti i giorni'' (Art Blakey).

Quanto scritto sinora potrebbe sembrarvi una divagazione personale, anche un po' retorica, invece è strettamente funzionale all'ascolto del disco. ''Multikulti Cherry On'' è infatti lo specchio fedele dell'approccio alla musica e alla vita da parte di Calcagnile. A tal proposito emblematica è la figura a cui il progetto è dedicato e ispirato: il trombettista e polistrumentista Don Cherry, uno dei personaggi più affascinanti quanto sottovalutati nella storia del jazz. Su di lui Calcagnile scrive nelle note di copertina:

''Don Cherry ha le fattezze di un folletto africano. […] Imprendibile e solitario, ma aggregatore di spiriti curiosi ed inquieti. Un cantastorie autentico e ispirato, avulso dallo ''star system'' nonostante la sua grande caratura ed allo stesso tempo molto eccentrico. […] In un periodo di importanti sconvolgimenti sociali ed artistici, questo geniale musicista ha percorso e segnato sentieri capaci di creare nuove relazioni tra le culture e le etnie di ogni angolo del pianeta, alla ricerca di una dimensione universale e ritualistica della musica. Il nostro lavoro vuole riappropriarsi di quello spazio, di quella forma (mentis) in cui è possibile agire e dialogare, essere complici o autonomi, sviluppare o interrompere un processo musicale, conferendo a quella scelta la forza della complicità e della sua determinazione. In sostanza essere liberi di applicare il proprio sentire, di dare senso e vita alla musica nell'istante e nel suo divenire''.

Tra i temi indicati da Calcagnile come presupposto di questo disco, a mio avviso quello più importante consiste nella riappropriazione della funzione rituale della musica. In un periodo come quello attuale, in cui la musica è sì sempre più presente nella nostra quotidianità, ma solo come sottofondo ''usa e getta'', come riempitivo illusorio del tremendo deserto sociale e culturale da cui siamo circondati, dobbiamo urgentemente recuperarne e proteggerne la dimensione ''viva'' e collettiva. Tutte le culture, tranne quella occidentale, hanno compreso che con la musica l'uomo può non soltanto ''ammazzare il tempo'', bensì esaltarlo, viverlo come meglio non potrebbe poiché solo la musica ci consente di entare in contatto con la nostra dimensione spirituale e di riscoprire energie nascoste nel nostro profondo. Basterà citare la credenza della cultura indiana secondo la quale il dio Brahman ha creato l'esistente attraverso un canto, scuotendo il nulla cosmico attraverso la propagazione del suo inno. La musica, nella cultura indù, è perciò un mezzo per rimettersi in contatto con il divino, per ringraziarlo e soddisfare ''la sete di suono che le divinità hanno e per le quali gli è assolutamente necessaria l'esistenza dell'uomo'' (Schneider).

La stessa atmosfera di unione spirituale pervade ''Multikulti Cherry On''. L'improvvisazione collettiva che apre il disco, Cherry On, apre le danze del rito di ringraziamento. Anche nei momenti più concitati l'identità sonora di ciascun musicista rimane ben distinguibile, producendo così un impasto collettivo coeso ed omogeneo. Walk The Mountain scorre ironica e squillante come la tromba di Mitelli giustamente in primo piano. L'improvvisazione di Nino Locatelli al sax alto accresce il pathos e l'energia collettiva, assicurata comunque dall'irrequieta batteria di Calcagnile e dal sontuoso contrabbasso di Evangelista, a cui fa da perfetto contraltare il vibrafono di Mirra con le sue note lunghe e distensive.

Segue una lunga suite, East Suite, in cui veniamo introdotti nel lato più misterioso ed esotico della musica di Cherry. Il violino di Paolo Botti riesce immediatamente a creare quest'atmosfera onirica, ben assistito dalle percussioni di Dudu Kouaté (affiancato dal ''capo stregone'' Calcagnile). Ricordo di essere stato completamente catturato durante l'esecuzione dal vivo di questa suite. Ad accrescere l'attrattiva di quella musica su di me era la possibilità di scorgere, negli sguardi di tutti i musicisti coinvolti, la volontà di raggiungere un obiettivo: costruire assieme quell'atmosfera onirica, senza mai spiccare o prevaricarsi a vicenda.
Dopo il minuto 7, la voce collettiva dell'ensemble si dirada e ne inizia ad emergere il vibrafono di Mirra che lancia la melodia, a cui subito si uniscono gli strumenti a fiato. L'impatto emotivo di quel momento fu fortissimo. Segue una violenta improvvisazione collettiva, ed il resto della suite in cui emergono i solisti sul ritmo africaneggiante sostenuto da Calcagnile, Evangelista e Kouaté. Particolarmente suggestivo è lo spazio lasciato al banjo di Botti e alle percussioni di Kouaté: segno questo di una voglia di rischiare con combinazioni musicali più intimistiche, senza affidarsi esclusivamente alla potenza collettiva dell'ensemble. Segue l'ultima parte dell'East Suite, in cui emerge l'importanza della melodia e della semplicità della musica di Cherry. La semplicità di Cherry non è mai sinonimo di banalità, bensì di volontà di assecondare il movimento e la danza. Questo elemento è spesso sottovalutato o snobbato da tanti jazzisti contemporanei. Per smontare questo ''complesso'' mi basterà citare il pensiero di Ed Blackwell, eccezionale batterista e collaboratore in tantissimi progetti di Cherry. Così Blackwell: ''L'obiettivo principale della musica deve essere far ballare. Quando suono immagino che ci sia una ballerina davanti a me che debba ballare ciò che suono. Il requisito essenziale per essere un buon batterista è saper ballare – dovrebbe essere questa la prima cosa che un batterista dovrebbe imparare, ancor prima di imparare a suonare il suo strumento''.

Arriviamo così a Communion Suite, risultato dell'unione di alcuni brani a firma di Cherry (Complete communion, Infant Happiness e Symphony for Improvisers) con altri temi di Dewey Redman (Dewey's Tune) e Ornette Coleman (Happy House). È incredibile come tutti questi musicisti, spesso archiviati superficialmente con l'ambigua etichetta di ''free jazz'' fossero invece a stretto contatto con le radici più profonde della musica afroamericana, in questo caso il blues. Ed è ancor più impressionante la capacità di Calcagnile & Co. di sintonizzarsi e ridare vita a quello spirito originario del jazz, meglio di tanti loro colleghi statunitensi. Colpisce inoltre la coesione generale nelle improvvisazioni collettive e l'estrema unitarietà delle improvvisazioni solistiche (Mirra, Falascone, Locatelli). Arriviamo così alla conclusione della suite con il tema di Symphony for Improvisers che l'ensemble enuncia a più riprese con uno straordinario crescendo di dinamica fino ad sfociare in un liberatorio grido di gioia che piano piano si riduce in una delicatissima ninna nanna.



Nella Moguto Suite trova spazio nuovamente la cifra ''multikultistica'' della musica di Cherry. Sempre più prezioso è il lavoro di Kouaté, stavolta al canto, per lanciarci in un vero e proprio viaggio attraverso culture e mondi lontani. Sotto di lui si muove il vibrafono di Mirra ed il resto dell'ensemble con sinuose e solenni risposte collettive. L'enunciazione del tema avviene nuovamente per addensamento: prima Botti, segue Falascone e poi tutto il resto dell'ensemble in un crescendo emotivo mozzafiato. In Togo spicca l'improvvisazione di Mitelli, magistralmente incitata dal lavoro percussivo di Calcagnile e Kouaté. Nel momento dell'immancabile improvvisazione solistica della batteria, come si rispetti in ogni brano firmato da Blackwell, Calcagnile da' il meglio di sé, percuotendo i tamburi al massimo della sua forza espressiva. Il suono di Calcagnile va dritto alla pancia di chi ascolta, è impossibile non venirne catturati ed estasiati. Così come nelle Upanishad dove al tamburo viene attribuito un particolare valore magico, lo stesso avviene per la batteria di Calcagnile: ''vac, la parola, una volta sfuggita agli dèi, si rifugiò negli alberi e la sua voce contina a risuonare negli strumenti musicali di legno. […] Questi tamburi o alberi racchiudono la voce degli antenati; ma queste voci possono verificarsi solo quando l'uomo batte il tamburo'' (M. Schneider, La musica primitiva, Adelphi 1992, p. 81).

La conclusione perfetta del disco è affidata a Malinyè, con la calda voce e lo xalam di Kouatè, che segna la fine (provvisoria) di questo viaggio musicale, come il perfetto risveglio da un disco da assumere periodicamente, come un farmaco indispensabile per la propria salute e felicità.








domenica 20 marzo 2016

Con Chi Ridetti (e Ricontraddetti)? Francesco Cusa

Un personaggio palesatosi spesso tra le pagine di questo blog ebbe a dire:


Nell'arte del linguaggio si chiama metafora ciò che ''non si usa in senso proprio''. Perciò le metafore sono le perversioni del linguaggio e le perversioni sono le metafore dell’amore  (K. Kraus, Detti e contraddetti)


Francesco Cusa è un vero e proprio pervertito del linguaggio. Questo unabomber della parola si diverte a innescare un corto circuito linguistico dietro l'altro, mostrando come anche i termini più logori ed i modi di dire più comuni possano sorprenderci, farci ridere o riflettere. Cusa è dunque molto vicino al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche che scriveva:


Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. – Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là). Naturalmente, quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte e stampate. Infatti il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente, non quando facciamo filosofia! (Ricerche filosofiche, Einaudi 1983, p. 15).


E ancora, sempre Wittgenstein:


Noi combattiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta contro il linguaggio. Se penso per me solo, senza voler scrivere un libro, mi metto a saltare intorno al tema; questo è l’unico modo di pensare che mi sia naturale. È un tormento per me pensare a lungo in una direzione forzosa. A questo punto, devo proprio tentarlo??
Io spreco indicibili fatiche per dare ai miei pensieri un ordine che forse non ha proprio nessun valore. (Pensieri Diversi, Adelphi 1980, pp. 60-61)


Piccolo aneddoto: Wittgenstein era un discreto pianista nonché fratello di Paul Wittgenstein. Mi piace pensare che questo pensiero sia stato ispirato al filosofo proprio dalla fatica del musicista che, dopo aver improvvisato e trovato qualcosa di interessante, si sente costretto ad incanalare questa sua scoperta in una forma o struttura condivisa e riconoscibile dagli altri. Cusa conosce molto meglio di me tutto questo processo, essendo batterista e compositore. E non è un caso che egli sappia sfruttare l'aforisma con una precisione chirurgica, calibrando ogni singola parola per arrivare all'effetto desiderato. Del resto ''uno che sa scrivere aforismi non dovrebbe disperdersi a fare dei saggi'' (Kraus). Non mi resta che lasciarvi nelle sue mani.










Inanismo: Vacuità esistenziale nel nano.



Delirio speculativo nel commercialista: Critica della Ragioneria Pura.



Ovviamente: dire palesemente bugie.



Piatto cannibale: L'inguine alle vongole.



Chi disprezza compàra.



Il contrario di Entropia è Escosacrilega.



Un'orata ci vuole per cucinare un pesce.




Ipertrofie al pesto: pantagruelico piatto ligure.



- ''Ciao sei un jazzista mainstream medio italiano?''
- ''What man?''.
- ''Dico, sei italiano, suoni jazz moderno, ti piace Sun Ra?
- ''Sorry man, I don't understandard''.



Vivere costantemente sull'orlo della contraddizione, con la dignità del faro e del mare in tempesta.


Non si può invidiare ciò che non si conosce. Si conosce ciò che non si invidia.


Forsennato: folle alla frenetica ricerca di una conferma della sua medesima (o di qualche natività).


''E' tutto un magma magma'' (considerazioni fra vulcani sullo stato clientelare delle cose).


Stress e nevrosi nelle carni bianche. ''Mi dia un'angoscia di pollo''.



Filosofo tormentato e nichilista: ''Gianni Vittima''.



Leggere tra le righe è qualità intermittente.

domenica 10 gennaio 2016

Allora, ci sono Nietzsche, Kant, Han Bennink e Paolo Sanna...

La grandezza di un filosofo si misura nelle domande che si pone, non nelle risposte che fornisce. Con una domanda, apparentemente banale, Nietzsche aprì uno squarcio nel nostro modo di accostarci alla musica, facendo emergere una questione di cui in troppi, ancora oggi, faticano a rendersi conto. La domanda, in Nietzsche contra Wagner, è la seguente: ''Cosa voglio veramente dalla musica?''

Più che Wagner, il reale obiettivo nietzschano era la tradizione estetica occidentale colpevole di aver impostato il suo campo d'azione su dei binari fuorvianti. Ne La genealogia della Morale Nietzsche scrive:

''Kant pensò di fare onore all'arte quando, fra i predicati del bello, diede una posizione privilegiata a quelli che costituiscono il vanto della conoscenza: l'impersonalità e l'universalità. […] Kant, come tutti i filosofi, invece di considerare il problema estetico fondandosi sull'esperienza dell'artista (del creatore), ha meditato sull'arte e sul bello solo come spettatore e, insensibilmente, ha introdotto lo spettatore nel concetto: bellezza. Se, almeno, questo spettatore fosse stato sufficientemente conosciuto dai filosofi del bello! - se fosse stato per loro un fatto personale, un'esperienza, il risultato di una quantità di prove originali e solide, di desideri, di sorprese, di rapimenti nel territorio del bello! Ma fu sempre – temo – esattamente il contrario: in modo che, fin dall'inizio, essi ci danno delle definizioni nelle quali, come nella celebre definizione del bello di Kant, vi è una mancanza di sottile esperienza personale che assomiglia molto al grosso verme dell'errore fondamentale. Il bello, dice Kant, è ciò che piace senza che vi si mischi l'interesse. Senza interesse! […] Se i nostri professori d'estetica sostengono, a favore di Kant, che si può guardare in modo disinteressato anche una statua femminile priva di veli, ci sarà ben permesso di ridere un po' alle loro spalle: le esperienze degli artisti sono, se non altro, molto più interessanti''.

Nietzsche ci esortava dunque ad una trasvalutazione dei nostri giudizi estetici. Il punto di vista dell'osservatore, quello privilegiato da Kant, si basa infatti su un concetto di bellezza depauperato, troppo intellettuale e freddo. La differente prospettiva che Nietzsche ci invita ad assumere si basa sul tentativo di metterci nei panni dell'artista, sentendo così pulsare la sua e la nostra esistenza nel preciso momento in cui entriamo in contatto attraverso l'opera d'arte. Questo significherebbe riservare ad un secondo momento l'atteggiamento da giudice o studente d'anatomia con cui dissezioniamo l'opera d'arte per stabilire se ci piace o meno. Non che il momento dell'analisi sia inutile: anzi, esso è necessario per capire come e perché un'opera d'arte ci attira, specialmente in un'epoca come la nostra in cui all'arte sembra affidato il triste compito di fare da sottofondo alle nostre esistenze schiacciate da ben altri valori.
Perciò, alla domanda ''Cosa voglio veramente dalla musica?'' Nietzsche rispondeva: ''Che sia serena e profonda, come un pomeriggio di ottobre. Che sia singolare, sfrenata, tenera, una piccola dolce donna fatta di perfidia e di grazia…''.


A questo punto possiamo far entrare gli altri due protagonisti della nostra ''storiella'':



Mai come nel caso di questo batterista, il cambiamento di prospettiva proposto da Nietzsche è necessario. Pretendere di analizzare ''musicologicamente'' l'energia vulcanica di Han Bennink vorrebbe dirne ingabbiarne lo spirito, disarmarlo e renderlo inerme. La voce di Bennink rischia di essere una voce isolata nel coro di quello che sta diventando il jazz ''contemporaneo'', una musica sempre più chiusa in se stessa, noncurante della partecipazione attiva di chi l'ascolta, autocompiacentesi per il livello di incomunicabilità a cui è arrivata. Non è un caso che, tra gli addetti ai lavori del jazz, ci si interroga disperatamente sull'emorragia di pubblico e consensi e su come fare per invertirne la tendenza. L'unica soluzione possibile, a mio avviso, sta proprio nell'energia, nell'atteggiamento con cui chi fa questa musica si espone al pubblico. Se si parte da un punto di vista di superiorità, di supponenza, di diffidenza nei confronti di chi ascolta, il jazz ha vita breve. Se invece ci si sforza di rompere le barriere e si tornerà a privilegiare la spontaneità, il jazz potrà dire ancora qualcosa. Per questo ho deciso di raccontare la storia e la musica di Han Bennink, soprattutto per farlo conoscere a chi non ne ha mai sentito parlare:http://mimesisedizioni.it/libri/arti/musica-contemporanea/la-filosofia-di-han-bennink.html



Un'ultima, ma non per importanza, voce fuori dal coro rispetto al panorama musicale nazionale è quella di Paolo Sanna. Ho avuto la fortuna di conoscere e suonare con Paolo in un momento delicato della mia ''carriera''. Avevo da poco scoperto che le potenzialità del mio strumento andavano molto oltre rispetto a quello che ci si aspetta dalla batteria, ovvero niente più che un ''metronomo vivente''. Paolo mi ha fatto capire l'importanza di ogni minimo gesto con cui sfioro un tamburo o un piatto e tutte le differenti gradazioni di dinamica e di timbro che ne vengono fuori. Mi ha proiettato dentro un mondo in cui la batteria, più che un mezzo per mettere in mostra la mia conoscenza tecnico/esecutiva, è il fine, una sorgente sonora, una voce viva e pulsante attraverso la quale posso comunicare ciò che sono nell'esatto momento in cui suono. Per  dirla con le sue parole: ''Sono quello che suono e suono quello che sono''.



Ascoltare l'ultimo lavoro di Sanna, ''Miniatura Obliqua'' (http://www.setoladimaiale.net/record.asp?section=audio&id=SM2960) è un'esperienza abissale, corporea, emozionale, attiva. Paolo mischia i colori e le dinamiche delle sue percussioni con la maestria di un artigiano d'altri tempi. La precisione delle sue esecuzioni potrebbe far pensare alla rigorosa scrittura dei migliori compositori contemporanei (Varèse, Reich, Xenakis, Cage, Gubaidulina) e invece le sue sono pulsanti improvvisazioni. Con ciò non si vuole sminuire il suo lavoro, piuttosto metterne in risalto la preziosità. Tutta la musica di Sanna dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che l'improvvisazione non è sinonimo di approssimazione, poiché anzi vive di una rigorosa e costante ricerca di perfezionamento. Improvvisare con questo spirito vuol dire rendere giustizia alla musica, vuol dire ''chiudere gli occhi e suonare cercando di tirare fuori le idee dalla nostra testa. Perciò, quando suono, penso solo alla musica. Penso nella musica. Solo così è possibile capire che la semplicità non coincide per forza con la banalità. Spesso più un suono è semplice e più è complicato. Perché per fare le cose più semplici, devi decidere cosa lasciare fuori e cosa mettere dentro'' (Paul Motian)