Leggendo gli Aforismi dell’Amarezza di Cioran pensavo, totalmente assorto dalla tensione autodistruttiva della sua riflessione, al fatto che stentiamo a renderci conto della potenza del nostro pensare. Sono sempre più convinto che il pensiero sia una droga: bisogna saperlo dosare, altrimenti si può restarne fregati. Beata ignorantia si suol dire e forse non a torto: se dovessimo fare un calcolo puramente utilitaristico, senza dubbio gettare lo sguardo sui nostri abissi (tanto cari a Nietzsche) non potrà mai essere conveniente e comodo quanto tirare avanti a campare. Eppure non riusciamo a farne a meno: dobbiamo razionalizzare tutto, abbiamo un bisogno insaziabile di certezze e di rassicurazioni che soltanto l’armonia di un sistema (che sia filosofico, religioso, politico-ideologico non cambia la sostanza) riescono ad acquietare, anche se provvisoriamente.
Di tutto questo ne era consapevole anche Henri-Louis Bergson che, nella sua ultima opera, Le due fonti della morale e della religione, scrive:
‘L’uomo è il solo animale la cui azione sia malsicura, che esiti e vada a tentoni, che formuli dei progetti con la speranza di riuscire e il timore di fallire. È il solo che si senta soggetto alla malattia, e il solo che sappia di dover morire. Il resto della natura vive in una perfetta tranquillità. Inoltre, di tutti gli esseri che vivono in una società, l’uomo è il solo che possa deviare dalla linea sociale, cedendo alle preoccupazioni egoiste, quando il bene comune è in causa. Questa duplice imperfezione è il prezzo dell’intelligenza. L’uomo non può esercitare la sua facoltà di pensiero senza rappresentarsi un avvenire incerto, che ridesti il suo timore o la sua speranza. Non può riflettere su ciò che la natura gli domanda, in quanto essa ha fatto di lui un essere socievole, senza dirsi che potrebbe trovare spesso il suo tornaconto nel trascurare gli altri, nell’occuparsi solo di se stesso. E tuttavia la natura ha voluto l’intelligenza, l’ha posta come approdo di una delle due grandi linee dell’evoluzione animale, per far da contrappeso all’istinto più perfetto, punto terminale dell’altra. Ed è impossibile che essa non abbia preso le sue precauzioni affinchè l’ordine, appena turbato dall’intelligenza, tenda a ristabilirsi automaticamente. Di fatto, la funzione fabulatrice, che appartiene all’intelligenza e che tuttavia non è pura intelligenza, ha precisamente questo obiettivo. Essa è una reazione difensiva della natura contro ciò che potrebbe esservi di deprimente per l’individuo, e di disgregatore per la società nell’esercizio dell’intelligenza’.
Bergson svilupperà questo tema in una direzione forse troppo distante dall’economia del nostro discorso, ovvero in un’esaltazione della vita del mistico (per es. Gesù Cristo, Socrate, Buddha), inteso come figura esemplare di comportamento in grado di attirare non solo l’attenzione e la fiducia degli uomini, ma anche di innalzarli dal mero interesse individuale ad un afflato amoroso verso l’intera comunità umana. Ma ciò che mi interessava sottolineare citando Bergson è che, per fortuna o purtroppo, non siamo delle macchine perfette ed unidirezionali; ed oltre a ciò di cui abbiamo parlato come la giustizia, l’amore, la verità, il senso del bello c’è dell’altro in noi. Si tratta di qualcosa che non vogliamo prendere in considerazione perché, come dicevamo prima, temiamo cosa potremmo scoprire: allora scegliamo di prendere la via di fuga. E specialmente la filosofia ha spesso battuto questa strada: si tratta di quelle filosofie, agli occhi di Cioran, troppo sopportabili, ovvero quelle dottrine che ci forniscono una visione rassicurante della realtà ed un modello ideale dell’uomo improntato sul suo dover-essere anziché sul suo essere. Per questo mi propongo l’ardito compito, dal prossimo intervento, di fare le veci dell’indagatore dell’incubo, ovvero di perlustare, accompagnato dalle autorevoli guide che selezionerò di volta in volta per voi, il lato oscuro della forza.
aspetto impaziente!
RispondiEliminaEra ora! (A.M.C.)
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