La vita accademica è fatta di formalità, responsabilità, scadenze. Fra queste non si può non noverare la tesi di laurea. Chiunque ne ha dovuto scriverne una ha avuto la fortuna di vivere sulla propria pelle una contraddizione irrisolvibile. La scrittura, intesa come sentiero di esplorazione o come un modo per fare ordine dentro e fuori di sé, non si concilia molto bene con imposizioni e necessità a lei eteronome. Lo sapeva bene Kraus, che non a caso ce l'aveva a morte con i giornalisti, colpevoli di aver assassinato la pregnanza artistica della parola scritta con la loro retorica a buon mercato. E lo sapeva altrettanto bene Adorno. Per questo ho deciso di dedicare la mia seconda, per restare in tema, tesi di laurea a loro. E per questo ho deciso di sfruttare questo intervento per ricordare a me stesso qualche "dritta" da non dimenticare mai quando ci si sottopone a quello splendido travaglio-tortura ch'è la scrittura. Dico tortura nel pieno rispetto dell'etimologia latina della parola, ossia il trabàlium o trabàculum, strumento di tortura fatto appunto di travi. Le seguenti riflessioni le potrete trovare in Minima Moralia, da tanti (forse troppi) ritenuto il capolavoro di Adorno.
- Dietro lo specchio -
Prima regola di prudenza dello scrittore: esaminare ogni testo, ogni brano, ogni periodo e chiedersi se il motivo centrale emerge con sufficiente chiarezza. Uno è talmente preso da quello che vuol dire, che si lascia trasportare senza riflettere: è troppo vicino all'intenzione, è troppo "nei suoi pensieri", e dimentica di dire quello che vuole.
Non c'è correzione, per quanto marginale e insignificante, che non valga la pena di effettuare. Di cento correzioni, ognuna può sembrare meschina e pedante; insieme, possono determinare un nuovo livello di testo.
Non essere mai avari nelle cancellature. La lunghezza di un testo non conta, e il timore di non aver scritto abbastanza è puerile. Nulla va ritenuto degno di esistere perché c'è già, perché è già stato scritto. Proposizioni che formulano diversamente lo stesso pensiero, non sono spesso che tentativi di afferrare qualcosa di cui l'autore non è ancora in possesso. In questo caso bisogna scegliere la formulazione migliore ed elaborarla ulteriormente. La tecnica letteraria impone di rinunciare anche a pensieri fecondi, se la costruzione lo richiede. I pensieri soppressi contribuiscono alla sua forza e alla sua ricchezza. Come a tavola, non bisogna inghiottire l'ultimo boccone, o vuotare il bicchiere fino in fondo. Altrimenti ci si rende sospetti di povertà.
Chi vuol evitare i clichés, non deve limitarsi alle singole parole, se non vuol cadere nella civetteria volgare. La grande prosa francese del secolo decimonono era particolarmente sensibile a questo pericolo. La parola singola di rado è banale: anche nella musica il singolo suono non si presta al commercio al minuto. I clichés più detestabili sono combinazioni di parole del genere di quelle infilzate da Karl Kraus: chiaro e tondo; ora e sempre; per la vita e per la morte. In essi, se così si può dire, ristagna il pigro fiume della lingua stantia, mentre lo scrittore, con la precisione dell'espressione, dovrebbe opporre quelle resistenze che sono necessarie perché emerga l'oggetto. E questo non vale solo per singole locuzioni, ma per intere strutture formali. Se un dialettico, per esempio, sottolineasse ogni volta l'inversione del pensiero con un "ma", lo schema letterario confuterebbe l'intenzione antischematica della meditazione.
Diffidare dell'obiezione, sollevata spesso e volentieri, secondo la quale un testo, una formulazione sarebbero "troppo belli". Dietro il rispetto della cosa, o perfino della sofferenza, si nasconde facilmente il rancore contro chi non tollera, nella forma reificata del linguaggio, il segno dell'umiliazione dell'uomo. Il sogno di un'esistenza senza vergogna, che non è più possibile rappresentare come contenuto, custodito dalla passione linguistica: ed è questo sogno che si vorrebbe perfidamente strangolare. Lo scrittore non deve accondiscendere alla distinzione tra espressione bella ed espressione adeguata. Non deve credere al critico premuroso che la formula, né tollerarla presso di sè. Quando gli è riuscito di dire tutto quel che voleva dire, ciò che ha scritto è bello. La bellezza dell'espressione che è fine a se stessa non è "troppo bella", ma ornamentale, artigianale, brutta. Ma chi, col pretesto di santificare tutto alla cosa, rinuncia alla purezza dell'espressione, tradisce anche la cosa.
I testi elaborati come si conviene sono come ragnatale: fitti, concentrici, trasparenti, solidi e ben connessi. Essi attirano a sè tutto ciò che si aggira nei dintorni. Metafore che li attraversano per caso, diventano una preda nutriente. Materiali affluiscono da ogni parte. Per giudicare della solidità di un abbozzo, basta vedere se evoca le citazioni. Il pensiero che ha dischiuso una cellula della realtà, penetra, senza violenza del soggetto, nella cellula accanto. Dimostra di essere in rapporto con l'oggetto quando altri oggetti si cristallizzano intorno ad esso. Nella luce che dirige sul proprio oggetto, altri cominciano a scintillare.
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