Come un qualsiasi general
manager di una holding internazionale, Papa Benedetto XVI s’è dimesso. Come
interpretare queste dimissioni? Come un segno dei frenetici tempi che corriamo?
Oppure come un gesto di insospettabile modernità per un Papa unanimemente
considerato ultra-conservatore?
Durante l’omelia dell’ultimo Natale, Benedetto XVI disse: “Sempre meno tempo abbiamo a disposizione per
Dio. La questione che riguarda lui non sembra mai urgente. Il nostro tempo è
già completamente riempito. Ma le cose vanno ancora più in profondità. Dio ha
veramente un posto nel nostro pensiero? La metodologia del nostro pensare è
impostata in modo che Egli, in fondo, non debba esistere. Anche se sembra
bussare alla porta del nostro pensiero, Egli dev’essere allontanato con qualche
ragionamento”.
Forse, da un lato, le dimissioni di Benedetto XVI non sono
altro che l’immediata conseguenza della “lettera di licenziamento” con cui
abbiamo liquidato Dio; oppure, più semplicemente, possiamo interpretarle come
la reazione di un uomo sentitosi inadeguato rispetto a tutto un contesto,
quello del Vaticano, sempre più impastoiato in “affari” che poco hanno a che
vedere con la spiritualità. Ecco allora presentarsi un problema antico quanto
il mondo: il confronto dell’uomo con se stesso ed i suoi limiti.
Il celebre libro di Qòelet
così recita: “Quale utilità ricava
l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una
generazione viene ma la terra resta sempre la stessa. […] Tutte le cose sono in travaglio e nessuno
potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai
l’orecchio è sazio di udire. Ciò che è stato sarà e ciò che è fatto si rifarà;
non c’è niente di nuovo sotto il sole”. (1.3 – 1.10)
Tuttavia, parafrasando Foucault, spesso il limite non è che
il preludio all’illimitato, per non dire al divino. E la religione cristiana,
come tutti i culti in genere, non ha “sfruttato” l’umano bisogno di certezze,
proponendo una forma di ricompensa ultraterrena alle fatiche e alle sofferenze
mondane, per costruire il suo impero spirituale e, soprattutto, temporale?
“Tutti i giorni
dell’uomo non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa
neppure di notte. (2.22) […] Ho
concluso che non c’è nulla di meglio per gli uomini, che godere e agire bene
nella loro vita; ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di
Dio. Riconosco che qualunque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da
aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché si abbia timore di lui.
Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c’è l’iniquità e al
posto della giustizia c’è l’empietà. Ho pensato: Dio giudicherà il giusto e
l’empio, perché c’è un tempo per ogni cosa e per ogni azione” (3.12 –
3.18).
Certamente essersi emancipati da una simile concezione
dell’esistenza gravata del timore di Dio è stata una conquista. Ma se il
prodotto di questa conquista è stato l’iper-concreto e sfrontato uomo d’oggi,
la cui “metodologia di pensiero” esclude risolutamente qualsiasi cosa che
presenti la minima implicazione spirituale, forse il prezzo pagato è stato
troppo alto.
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