Venezia è invasa. Il carrozzone della 55° Biennale d’arte è
partito inarrestabile. Lo noti appena esci di casa: le calli sono piene di eccentrici
stramboidi, ancor più di quanto non lo siano già nel resto dell’anno. Tuttavia,
pur non impazzendo per l’eccesso di glamour
che la più famosa mostra d’arte contemporanea al mondo porta con sé,
difficilmente riesco a resistere alla tentazione di gironzolare per i suoi
padiglioni. Specialmente per quelli sparsi nella città, dato che si tratta dell’unica
occasione per poter entrare nei tesori nascosti dei palazzi storici veneziani.
Con questo spirito arrivo questo pomeriggio a Palazzo Falier
che ospita una mostra personale di Pedro Cabrita Reis. Entro e mi ritrovo in un
labirinto di travi di alluminio che sorreggono degli immancabili neon bianchi.
In qualche stanza c’è addirittura un dipinto, completamente nero con qualche
macchia marrone. Ecco realizzarsi, inizio allora a pensare, la solita truffa
dell’arte contemporanea. Cerco di consolarmi con la vista del Canal Grande,
quando noto che c’è un’ultima stanza che m’era sfuggita.
Entro e c’è lui. Ludwig Wittgenstein mi guarda serio ma anche
un po’ canzonatorio. Sulle pareti un trionfo di
fogli, schizzi, appunti. In alcuni di essi vi sono citazioni del suo Tractatus Logico-Philosophicus. Senza soffermarmi
a leggerli tutti, d’improvviso capisco. Così come Wittgenstein invitava a “rompere
in modo radicale con l’idea che il linguaggio funzioni sempre in un unico modo, serva sempre allo stesso
modo: trasmettere pensieri – siano questi pensieri intorno a case, a dolori, al
bene e al male, o a qualunque altra cosa” (Ricerche filosofiche, § 304), quello
di Cabrita Reis era un messaggio analogo: smettila di vedere ciò che ti circonda
con gli occhi dell’ordinarietà e osserva meglio.
Torno alle travi di alluminio. Vi guardo dentro e tra una
trave e l’altra iniziano a crearsi giochi prospettici, come in un caleidoscopio.
Così, quello che prima m’era sembrato niente più che un sostegno, si rivela
essere tutt’altro. Ritorno nella stanza dove imperava la foto di Wittgenstein. Voglio salutarlo come si deve. Prendo le sue “Ricerche filosofiche”
che quasi per caso avevo messo in borsa stamattina e inizio a sfogliarle.
Un concetto sfumato è
davvero un concetto? Una fotografia sfocata è davvero il ritratto di una
persona? È sempre possibile sostituire vantaggiosamente un’immagine sfocata con
una nitida? Spesso non è proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?
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In logica non può
esserci nulla di vago. Ora viviamo con quest’idea: che l’ideale ‘deve’ trovarsi
nella realtà. Invece non si vede ancora come vi si trovi, e non si comprende la
natura di questo ‘deve’. Crediamo che essa debba essere conficcato nella
realtà; infatti crediamo di scorgerlo già in essa.
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L’ideale, nel nostro
pensiero, sta saldo e inamovibile. Non puoi uscirne. Devi sempre tornare
indietro. Non c’è alcun fuori; fuori manca l’aria per respirare. – Di dove
proviene ciò? L’idea è come un paio di occhiali posati sul naso, e ciò che
vediamo lo vediamo attraverso essi. Non ci viene mai in mente di toglierli.
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Si predica della cosa
ciò che è insito nel modo di rappresentarla.
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Ogni spiegazione deve
essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto. E
questa descrizione riceve la sua luce, cioè il suo scopo, dai problemi
filosofici. Questi non sono, naturalmente, problemi empirici, ma problemi che
si risolvono penetrando l’operare del nostro linguaggio in modo da
riconoscerlo: contro una forte tendenza a fraintenderlo. I problemi si
risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da
tempo ci è noto. La filosofia è una battaglia contro l’incatenamento del nostro
intelletto, per mezzo del nostro linguaggio.
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I risultati della
filosofia sono la scoperta di un qualche schietto non-senso e di bernoccoli che
l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio. Essi, i
bernoccoli, ci fanno comprendere il valore di quella scoperta.
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Nell’impiego effettivo
delle espressioni facciamo, per così dire, lunghi giri, percorriamo strade
secondarie. Vediamo bensì davanti a noi la strada larga e diritta, ma non
possiamo certo servircene, perché è permanentemente chiusa.
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Qual è il tuo scopo in
filosofia? – Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola.
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Ciò che mi propongo di
insegnare è: passare da un non-senso occulto a un non-senso palese.
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Non pensare che sia
cosa ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procurano
piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori
dell’ordinario.
(‘Non pensare che sia
cosa ovvia’ – questo vuol dire: Meravigliatene, come fai per altre cose che ti procurano
turbamento. Allora ciò che v’è di problematico scomparirà, per il fatto che tu
accetti questo fatto così come accetti quegli altri).
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Gli aspetti per noi più
importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. (Non
ce ne possiamo accorgere, - perché li abbiamo sempre sotto gli occhi). Gli
autentici fondamenti di una ricerca non danno affatto nell’occhio a chi vi è
impegnato; a meno che non sia stato colpito una volta da questo fatto. – E
questo vuol dire: ciò che, una volta visto, è il più evidente, e il più forte,
questo non ci colpisce.
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Non credere sempre di
ricavare le tue parole dalla lettura dei fatti; di raffigurare i fatti in
parole, secondo certe regole! Perché l’applicazione della regola al caso
particolare dovrai farla tu, senza alcuna guida.
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