Siamo sinceri: ci aspettavamo tutti molto di più dal governo
Monti. Illusi dagli iniziali proclami all’insegna dell’equità (l’unica “equità”
sinora riscontrata è stata quella di Equitalia), oltreché dalle tante e importanti
riforme annunciate (liberalizzazioni economiche, lotta alla corruzione, tagli alle
caste e ai “rimborsi” dei partiti, riforme del lavoro e della giustizia), abbiamo
pensato che si potessero finalmente sradicare le lobby che strozzano l’Italia. Purtroppo
Monti ed i suoi ministri non possiedono la forza necessaria per riuscire in
quest’impresa, e dei loschi figuri che
scalpitano alle loro spalle in attesa delle prossime elezioni è inutile
parlare.
A nostra parziale discolpa, bisogna però dire che eravamo delle
prede facili dell’eccessiva fiducia, per almeno due motivi. Primo: abbiamo
creduto che il peggio, ossia i disastri e le figuracce berlusconiane, fosse
passato (cosa parzialmente vera, peccato non basti un po’ di sobrietà per
risollevare le sorti del nostro Paese). Secondo: ci siamo sentiti rassicurati
in partenza dal fatto che la gestione della cosa pubblica veniva affidata ad esperti, ossia ai tecnici. Ma, guardando a quanto fatto sin qui dal governo Monti,
viene da chiedersi: la conoscenza è davvero sinonimo di affidabilità? Il sapere
comporta automaticamente il saper fare?
Proviamo ad allargare la nostra prospettiva per cercare una
risposta. Per il Platone della Repubblica,
forse la massima opera filosofica incentrata sulla gestione del potere
politico, la suddetta questione non potrebbe neanche essere posta. Egli infatti
definisce i sapienti, ossia i filosofi, come
coloro che, amando "una scienza in grado di rivelar loro ciò che è
eterno e non errante sotto la vicenda del nascere e del perire" (Repubblica, libro VI), non possono fare
a meno di concretizzare i temi delle loro speculazioni, giustizia e verità in
primis, pena la caduta in astratti
sofismi. Tuttavia, constatando la derisione che il popolo-volgo è solita riservar loro, Platone
così rilevava:
"A meno che o i filosofi non regnino nelle città, o
quelli che oggi han nome di re e di sovrani non prendano a nobilmente e
acconciamente filosofare, e non vengano a coincidere la forza politica e la
filosofia, e i vari tipi che ora tendono separatamente a un dei due campi non
ne siano per forza esclusi; a meno che ciò non succeda non avran tregua alcuna
dai mali le città, anzi credo neppure il genere umano […]. Ciò appunto è quanto
da un pezzo mi rende dubitoso a parlare, vedendo quanto sia paradossale a
dirsi: che è infatti arduo il vedere come nessun’altra città, né in privato né
in pubblico, potrà mai esser felice" (Rep, libro V).
Sembrerebbe dunque delinearsi in Platone la linea del
disimpegno: il filosofo potrebbe accontentarsi di "starsene tranquillo e
farsi i fatti suoi, come uno che nella bufera si tragga al riparo sotto un
muricciolo da polvere e grandine trasportata dal vento", ma in realtà si
tratterebbe di una sconfitta, dato che all’interno di "un reggimento
politico adatto, egli stesso avrà maggior incremento, e con i suoi interessi
personali salverà anche quelli comuni" (Rep, VI).
Perciò Platone non rinuncia a proporre il suo ideale di uno
Stato affidato ai reggitori-filosofi. Consapevole delle difficoltà a cui andrà
incontro, egli stesso definisce la sua proposta un’utopia, nel senso, come
scrive Francesco Adorno, di "qualcosa che non può avere luogo se non
come la presenza di una mancanza; essa si pone così come dover essere, come
termine di realizzazione all’infinito, come ricerca sempre aperta, che deve
ogni volta rinnovarsi nel quotidiano e faticoso coraggio di essere
uomini". Incalzato dai suoi interlocutori su quale sarebbe la forma di
governo adeguata al suo progetto, Platone, per bocca del suo daimon Socrate, risponde che nessuna
delle forme di governo vigenti sarebbe all’altezza, specialmente la democrazia.
Quest’ultima infatti viene definita dal filosofo come "la più bella di
tutte le costituzioni; come un abito variopinto e svariato d’ogni sorta di
fiori, così questa, svariata d’ogni sorta di costumi, apparirebbe
bellissima". Peccato che essa sia strutturalmente destinata a sfociare "nell’insolenza e nell’anarchia, nella dissolutezza e
nell’impudenza poiché l’eccesso della libertà in niente altro
sembra convertirsi se non nell’eccesso della servitù, per l’individuo e per lo
stato" (Rep, VIII).
Arriviamo così al punto più discusso della concezione
platonica dello Stato e della società. Quest’ultima, per essere gestita al
meglio dalla sapientocrazia dei
reggitori-filosofi, dovrebbe costituirsi
secondo un ordine ed una gerarchia inviolabili, pena l’ingovernabilità e la
ricaduta nel caos. Ingovernabilità e caos che legittimavano anche il ricorso
alla forza, ossia la tirannide. Certo, quella a cui pensava Platone era una
tirannide “illuminata” dalle direttive dei filosofi, ma pur sempre di tirannide
si trattava. E, se guardiamo anche alle direttive proto-marxiste proposte da
Platone, possiamo capire il motivo di questo ricorso all’autorità.
"È necessario che nessuno possegga una sostanza
propria, salvo assoluta necessità. Poi che nessuno abbia un’abitazione e una
dispensa, a cui non possa avere accesso chiunque lo voglia; e il necessario
sostentamento, quanto può abbisognare a campioni di guerra temperati e coraggiosi,
lo ricevano secondo un accordo dagli altri cittadini, qual mercede della
custodia, tale che in un anno né loro sopravanzi né faccia difetto; che vivano
in comune, come accampati, frequentando pasti comuni; oro e argento, dir loro
che ne hanno sempre nell’anima uno divino, ricevuto dagli dei, e non hanno
nessun bisogno di quello umano, e che non è lecito mescolare e contaminare il
possesso del primo con quello dell’oro mortale, poiché molte ed empie cose sono
accadute per il denaro corrente del volgo, mentre il metallo che è in loro è
incorrotto; ma anzi ad essi soli fra quanti sono nella città non è lecito
trattare e toccare oro ed argento, né di andare a star con essi sotto lo stesso
tetto, né di metterseli addosso, né di bere da recipienti d’argento o d’oro. E
così essi saran salvi, e salveranno la città. Ma quando si acquistassero una
propria terra in privato possesso, e case e denari, diverranno amministratori e
agricoltori anziché guardiani, e odiosi padroni anziché alleati degli altri
cittadini, e passeran tutta la vita a odiare ed essere odiati, a insidiare ed
essere insidiati, tenendo assai più e maggiormente i nemici di dentro che
quelli di fuori, e correndo ormai allora vicinissimi alla rovina, loro e tutto
il resto della città. Per tutte queste ragioni, conclusi, diciamo che così
bisogna sian fatti i guardiani, circa le abitazioni e il resto, e questo
prescriveremo per legge" (Rep, III).
Certamente, bisogna contestualizzare le rigide direttive
platoniche nel periodo storico in cui vennero concepite: un periodo caratterizzato
da continue guerre, tensioni interne, carestie ed epidemie e che, dunque,
richiedeva un governo saldo ed autoritario. Tuttavia non è forse un caso che l’unica
esperienza politica di Platone a fianco dei tiranni siracusani Dioniso I e
Dioniso II si rivelò fallimentare, tant’è che il filosofo, sospettato da
Dionisio II di complottare contro di lui, fu costretto a fuggire dalla Sicilia
nel 361 a.C. Almeno all’epoca non ci si poteva permettere di restare ancorati
alla propria “poltrona” politica…
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