Per stemperare la massiccia dose di proto-comunismo platonico
propostovi nell’intervento precedente, oggi mi tocca parlarvi di un vero e
proprio biscazziere della filosofia: Max Stirner. Strano destino il suo.
Nonostante dalla sua unica opera, intitolata appunto L’Unico e la sua proprietà (1844), avessero attinto a piene mani due istituzioni dell’Ottocento come
Nietzsche e Dostoevskij, nessuno gli riconobbe il proprio debito intellettuale,
abbandonando Stirner ad un lungo isolamento, brevemente interrotto soltanto
dalle beffe che di lui se ne fecero Marx ed Engels. A ciò bisogna aggiungere la
paradossale investitura ideologica che di Stirner si fece negli ambienti
anarco-insurrezionalisti del Novecento. Paradossale perché, sebbene sia
innegabile una certa affinità tra le istanze anarchiche e le idee di Stirner, a
quest’ultimo non interessò mai dar vita ad un’ideologia o mettersi a capo di
qualche scuola di pensiero, preso com’era da quello che Abbagnano definisce il
suo “egoismo assoluto. L’individuo –
prosegue Abbagnano -, proprio nella sua singolarità, per la quale è unico e
irripetibile, è la misura di tutto. Subordinarlo a Dio, all’umanità, allo
spirito, a un qualsiasi ideale, sia pure a quello stesso dell’uomo, è impossibile,
giacché tutto ciò che è diverso dall’io singolo, ogni realtà che si distingua
da esso e gli si contrapponga, è uno spettro,
di cui egli finisce per essere schiavo”.
Ma violiamo per un attimo i polverosi sigilli della più forte
“polizia filosofica”, ovvero l’indifferenza, ed addentriamoci ne L’Unico e la sua proprietà. Nel capitolo
introduttivo, dall’eloquente titolo di Io
ho fondato la mia causa sul nulla, Stirner scrive:
“Che cosa non dev’essere mai la mia causa! Innanzitutto la
buona causa, poi la causa di Dio, la causa dell’umanità, della verità, della
libertà, della filantropia, della giustizia; inoltre la causa del mio popolo,
del mio principe, della mia patria; infine, addirittura la causa dello spirito
e mille altre cause ancora. Soltanto la mia
causa non dev’essere mai la mia causa. “Che vergogna l’egoista che pensa
soltanto a sé!”.
[…] Ma come stanno le cose per quel che riguarda l’umanità,
la cui causa dovremmo far nostra? Forse che la sua causa è quella di qualcun
altro? L’umanità serve una causa superiore? No, l’umanità guarda solo a sé,
l’umanità vuol far progredire solo l’umanità, l’umanità è a se stessa la
propria causa. Per potersi sviluppare, lascia che popoli e individui si
logorino al suo servizio, e quando essi hanno realizzato ciò di cui l’umanità
aveva bisogno, essa stessa li getta, per tutta riconoscenza, nel letamaio della
storia. Non è forse la causa dell’umanità una – causa puramente egoistica?
[…] Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su
null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono
il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico”.
Sin qui ci siamo limitati a sintetizzare l’esplosiva pars destruens del pensiero stirneriano.
Veniamo al suo sviluppo che, molto eufemisticamente, possiamo definire costruens. Nel capitolo L’individualità propria Stirner così ci
ammonisce:
“Millenni di civiltà hanno oscurato ai vostri occhi ciò che
voi siete, vi hanno fatto credere di non essere egoisti, ma di essere invece chiamati a diventare idealisti (‘uomini
dabbene’). Scuotetevi di dosso queste idee! Non cercate la libertà che vi
deruba di voi stessi con l’’abnegazione’, ma cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga un io onnipotente! O più chiaramente:
tornate finalmente a riconoscere voi stessi, riconoscete infine ciò che siete
veramente e lasciate correre le vostre aspirazioni ipocrite, la vostra stolta
mania di essere qualcos’altro da ciò che siete. Parlo d’ipocrisia perché
nonostante tutto voi siete rimasti, per tutti questi millenni, egoisti, ma
egoisti addormentati, ingannatori di sé, alienati da sé, eautontimorùmenoi, fustigatori di sé. […] Ma siccome si tratta di
un egoismo che non volete confessare neppure a voi stessi, che nascondete a voi
stessi, insomma di un egoismo non aperto o manifesto, ma inconsapevole, non è
in fondo egoismo, ma schiavitù, servitù, rinnegamento di sé.
[…] E non vi ribellate mai, sebbene vi si intenda sempre in
modo diverso da come vorreste voi. No, voi ripetete sempre meccanicamente a voi
stessi la domanda che avete sentito porre: ‘A che cosa sono chiamato? Che cosa devo fare?’. Basta che vi poniate queste
domande e vi farete dire e ordinare ciò
che dovete fare, vi farete prescrivere la vostra
vocazione oppure ve la ordinerete e imporrete voi stessi secondo le
direttive dello spirito. Ciò comporta, per quanto riguarda la volontà, questo
atteggiamento: io voglio ciò che devo”.
Come un vero e proprio ‘demone’, Stirner ci esorta dunque a
prenderci ciò che vogliamo, senza prestare attenzione ad alcun tipo di
legge/istanza/voce a noi superiore perché “un uomo non è ‘chiamato’ a nulla e non ha nessun ‘compito’,
nessuna ‘vocazione’, così come una pianta o un fiore non hanno una ‘missione’.
[…] Io non sono un io accanto ad altri io, bensì l’io esclusivo: io sono unico.
Perciò anche i miei bisogni sono unici e pure le mie azioni, insomma tutto di
me è unico. E io mi approprio di tutto solo in quanto sono questo io unico,
così come agisco e mi sviluppo sono in quanto tale: io non mi sviluppo in
quanto uomo e non sviluppo l’uomo,
ma, in quanto sono io, sviluppo – me stesso.
Questo è il senso dell’ – unico”.
Sin qui, in soldoni, il pensiero di Stirner. Adesso però
vengono i dubbi. Se davvero seguissimo ogni nostro desiderio, che fine faremmo?
Suscitiamo questa domanda non per fare uno scontato moralismo, ma proprio
partendo dalla prospettiva eminentemente egoistica tanto cara a Stirner. Se qualcosa
abbiamo imparato da Freud è stata proprio la necessità di diffidare di noi
stessi e di alcuni nostri impulsi che, se assecondati incondizionatamente, ci
porterebbero alla distruzione, o per mano nostra o altrui. Ma prima ancora di
Freud era stato Hobbes ad impartirci questa lezione col suo celeberrimo homo homini lupus. Abbandonandosi alla
cieca istintualità, gli individui non esiterebbero a distruggersi a vicenda, in
una vera e propria guerra di tutti contro tutti. Così, ipotizza Hobbes, per
evitare una condizione di perenne conflittualità e paura, i singoli uomini stringono
tra loro un patto, rinunciano a buona parte delle loro pretese e riconoscono la
proprietà altrui, pur di assicurarsi una garanzia reciproca di sopravvivenza:
nasce la società.
Sembrerebbe a questo punto che la nostra mini-ricerca
sull’egoismo sia destinata ad arenarsi contro gli scogli di un insormontabile aut-aut esistente tra ciò a cui
l’individuo aspira e le istanze della società. Tuttavia, come vedremo
prossimamente, il contrasto non è così netto come appare. Intanto accontentiamoci
di aver compiuto con Stirner un salutare richiamo al nostro sacrosanto diritto
di essere egoisti.
Nessun commento:
Posta un commento