Padova,
Cappella degli Scrovegni. Entro e mi ritrovo lanciato nel Giudizio
universale di Giotto.
Due dettagli colpiscono la mia attenzione.
- I corpi flaccidi dei dannati, appesi come lenzuoli o ammucchiati con grande efficienza dai diavoli;
- Satana che si ingozza con un corpo di cui si vede solo il lato B (forse il lato A è quello che sbuca più sotto dai genitali).
L'impatto
con questo capolavoro dovrebbe essere devastante. Eppure non sento
ribrezzo, tutt'altro. Sembra d'assistere ad una commedia, con i
diavoli costretti a sgobbare per un padrone ingordo qual'è il Satana
ritratto da Giotto. Anche da morto un uomo riesce ad essere un peso
per gli altri. Impressioni analoghe le ho avute di fronte ad alcune
opere di Bosch come La caduta dei dannati ed
Il giudizio finale, veri
e propri trionfi del terrore e del grottesco. La fantasia del pittore fiammingo sembra infatti sconfinata: i corpi dei dannati vengono fatti a pezzi, morsi da serpi, bruciati in forni o strapazzati come delle uova in padella.
A differenza della mia, la reazione di un uomo del Trecento o del Cinquecento di fronte a
simili opere non dev'essere stata piacevole. Non a caso la migliore
alleata della Chiesa per 'rinsaldare' la fede cristiana era proprio
la paura. Scrive Walter Bosing nella sua monografia dedicata a Bosch:
“Per noi non è semplice comprendere l'inferno di Bosch
così come lo dovettero comprendere i suoi contemporanei. Possiamo
immaginare che questi, perfettamente informati dalla letteratura e
dalle innumerevoli prediche sulle sofferenze dei dannati, potessero
sperimentare direttamente il gelo ed il calore dell'inferno ed
avessero il respiro mozzato dal fumo e dai vapori puzzolenti che
salivano. Probabilmente potevano udire gli strepiti ed i sibili dei
demoni, ma soprattutto le grida dei condannati al supplizio. […]
I mistici affermavano che il peggior supplizio che i
dannati avrebbero dovuto patire all'inferno sarebbe stata la certezza
che lo sguardo divino era loro negato per l'eternità. Per la maggior
parte degli uomini però le sofferenze dell'inferno erano soprattutto
fisiche, e così immense, che, come dice una predica medievale,
quelle di questa vita sarebbero apparse degli unguenti”.
Schopenhauer,
nei magistrali paragrafi 57, 58 e 59 del quarto libro de Il mondo come
volontà e rappresentazione,
compie un'operazione analoga a quelle di Giotto e Bosch. Egli riesce
a sintetizzare con poche righe l'ineluttabile destino dell'uomo,
consegnato ai suoi mille bisogni, quindi alla sofferenza ed, infine, alla morte.
“L'uomo è il più bisognoso fra tutti gli esseri: egli è, completamente, concreto volere e bisogno, è una concrezione di mille necessità. Con queste egli sta sulla terra, abbandonato a se stesso, incerto su tutto, ma non sulla sua indigenza e sul suo bisogno. [...] Volere ed aspirare costituiscono la sua essenza, paragonabili ad una sete inestinguibile. Il fondamento di ogni volere è il bisogno, la mancanza, dunque il dolore, di cui l'uomo, di conseguenza è vittima già in origine. Se invece gli vengono a mancare gli oggetti del volere, dal momento che il troppo facile appagamento glieli riporta subito via; allora egli viene assalito da un terribile vuoto e dalla noia. La sua vita oscilla dunque, come un pendolo, in qua e in là, fra il dolore e la noia, che sono entrambi gli elementi costitutivi di quella. Ciò, molto singolarmente, ha dovuto anche esprimersi attraverso il fatto che, avendo l'uomo trasferito nell'inferno tutte le sofferenze ed i tormenti, per il cielo non rimase nulla se non appunto la noia. [...] Da
dove altro Dante ha ricavato la materia per il suo Inferno,
se non da questo nostro mondo reale? Tuttavia è riuscito un inferno
molto ben strutturato. Al contrario, allorché pervenne al compito di
descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una
difficoltà insormontabile, appunto perché il nostro mondo non offre
assolutamente materiali per qualcosa di simile. […] Invano il
tormentato invocherà i suoi dèi per essere aiutato: egli resterà
impietosamente abbandonato al suo destino. L'uomo è sempre rimandato
a se stesso”.
Tuttavia,
la condizione umana può apparire diversa a seconda della prospettiva
da cui la si analizza:
“La
vita di ogni singolo, se la si abbraccia con lo sguardo nella sua
totalità e generalità, mettendone in risalto soltanto i tratti
importanti, è sempre in verità una tragedia, ma esaminata in
particolare, essa ha il carattere di una commedia. Infatti,
l'animazione e il tormento quotidiani, l'assillo incessante del
momento, i desideri e i timori della settimana, gli incidenti di ogni
ora, attraverso il caso che mira costantemente alla burla, sono solo
scene di una commedia. Ma i desideri non esauditi, l'aspirare
vanificato, le speranze spietatamente calpestate dal destino, gli
infelici errori di tutta la vita, con le crescenti sofferenze e la
morte alla fine, formano sempre una tragedia. La nostra vita, dunque,
deve contenere tutti i dolori, come se il destino avesse voluto
aggiungere alla miseria della nostra esistenza anche la derisione, e
noi al tempo stesso non possiamo neppure conservare la dignità di
personaggi tragici ma, nei diffusi casi particolari della vita, siamo
attori da commedia necessariamente ridicoli”.
A
questo punto l'uomo cerca di reagire, non sapendo però di stare
peggiorando la propria condizione:
“Non
ancora contento di preoccupazioni, di afflizioni e di occupazioni,
che il mondo reale gli addossa, […] l'uomo si crea, a propria
immagine, demoni, dèi e santi, ai quali devono essere
incessantemente offerti sacrifici, preghiere, ornamenti dei templi,
voti ed il loro adempimento, pellegrinaggi, accoglienze, abbellimento
delle immagini ecc. Il loro culto s'intreccia ovunque con la realtà,
anzi la oscura: ogni avvenimento della vita è allora accettato come
un effetto dell'azione di quegli esseri; i rapporti con loro
riempiono la metà della vita, mantengono costantemente la speranza
e, mediante lo stimolo dell'illusione, diventano spesso più
interessanti di quelli con la vita reale. Essi sono l'espressione ed
il simbolo del doppio bisogno dell'uomo, in parte di aiuto e di
assistenza, e in parte di occupazione e passatempo; e quantunque egli
addirittura contrasti spesso il primo bisogno, mentre, negli
incidenti e pericoli che si presentano, sono spesi inutilmente tempo
prezioso ed energie in preghiere e sacrifici, al posto di impedirli;
tanto meglio egli si mette al servizio del secondo bisogno, mediante
quel rapporto immaginario con un onirico mondo degli spiriti: e
questo è il profitto, niente affatto disprezzabile, di tutte le
superstizioni".
In memoria di Manlio Sgalambro
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