Ne
Le sorgenti della musica, pietra
miliare dell'antropologia culturale oltreché della musicologia, Curt
Sachs scrive:
Nel
senso più ampio del termine, il mutamento culturale è un elemento
permanente della civiltà umana; continua dappertutto e in ogni
tempo. Può essere indotto da fattori e da forze spontaneamente sorti
all'interno della comunità, e può aver luogo attraverso il contatto
tra culture differenti. Tutti gli elementi della cultura, arte
compresa, debbono cambiare, sotto l'impatto dell'interscambio
tribale, del talento o di quella variante spontanea che i biologi
chiamano mutazione.
Il
cambiamento (evitando di proposito il termine 'progresso') necessita
dunque di transumanze, di spostamenti fisici. In questo modo uomini
provenienti da luoghi diversi possono incontrarsi (o scontrarsi)
perseguendo i propri interessi e realizzando, al contempo, ciò che
noi chiamiamo storia, arte, cultura. Per questo motivo accuso una
istantanea orticaria quando mi capita sott'occhio il titolo ad
effetto della rubrica Cervelli in fuga.
In essa ci viene sottoposto sempre lo stesso predicozzo da parte dei
nostri connazionali emigrati. Loro, abbandonando l'ingrata Italia che
non è riuscita a valorizzarli, “ce l'hanno fatta”.
All'immancabile domanda sui rimpianti: il sole o il cibo.
Una semplice domanda sorge spontanea: non essendo più
possibile partire con le tasche bucate e la valigia di cartone verso
le Americhe, chi pensa di andare a stabilirsi in un Paese estero,
qualcosina deve aver messo da parte. E non alludo solo alle risorse
economiche ma soprattutto alla formazione e alle competenze
professionali. Ergo, l'Italia qualcosa gliel'ha data ai cervelli in
fuga. Senz'altro il nostro Paese non spicca certo per meritocrazia e
trasparenza; ma questo non implica che chi è 'costretto' (uso il
virgolettato perché di fronte a simili scelte non siamo mai
costretti, bensì ci autoconvinciamo di esserlo per legittimare il
nostro bisogno di ricevere nuovi stimoli) a partire sia nella stessa
situazione del condannato alla sedia elettrica.
Infine, un'ultima domanda. Le statistiche, è vero, sono
impressionanti
(http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/10/emigrazione-lanno-scorso-95mila-italiani-hanno-fatto-le-valigie-55-rispetto-al-2011/980309/),
ma per quanti italiani si professano felici lontano dall'Italia,
quanti sono quelli che sono stati 'costretti' a ritornare delusi?
Perché nessuno parla di loro? Come potremmo chiamarli? Il titolo di
questo post vuole essere una provocazione, ma anche una proposta.
Concludo
con le parole di qualcuno che la storia d'Italia ed i pregi e difetti
dei suoi connazionali li conosceva bene, Benedetto Croce. Tant'è che
un suo lavoro del 1948, dal titolo Quando l'Italia era
tagliata in due, già ci metteva
in guardia dagli idioti separatismi, dedicando la sua fatica
letteraria “Alla mia Napoli che non ha chiesto né
vagheggiato autonomie e separatismi religiosamente fedele a quella
idea dell'unità nazionale che i suoi uomini del 1799 propugnarono
tra i primi dedico il diario di un periodo nel quale separati di
fatto all'Italia di continuo pensammo anelando di tornare tutt'uno
con lei”. Il saggio dal quale
ho estratto quanto seguirà è Un paradiso abitato da
diavoli, contenuto nell'omonima
antologia pubblicata da Adelphi nel 2006. Il paradiso è la città in
cui visse e morì Croce, Napoli, ma sono sicuro che ciascuno di noi
non potrà fare a meno di sentirsi coinvolto nella disamina crociana
del consolidato pregiudizio.
È
un proverbio che ora non ha più corso, ma che per più secoli ebbe
corso, questo: che Napoli fosse un paradiso abitato da diavoli. […]
Una volta, quel proverbio assurse agli onori di una
solennità accademica, preso come testo di una pomposa orazione, e
illustrato e commentato innanzi a un decoroso uditorio, che era stato
convocato apposta per l'occasione. Un giovane dotto tedesco chiamato
Giovanni Andrea Buhel, ebbe un'idea di quelle che si sogliono
chiamare 'geniali'.
Pensò
di celebrare nell'università di Altdorf presso Norimberga (una
piccola università sorta ai primi del Seicento e abolita ai primi
dell'Ottocento) la presa di Gaeta e la riunione del Regno di Napoli
ai domini di casa d'Austria con un'orazione che togliesse ad
argomento, e svolgesse e dimostrasse nei particolari, la verità del
proverbio volgare, che 'il Regno di Napoli è un paradiso, ma abitato
da diavoli'. Detto fatto, l'11 novembre del 1707 il professore di
morale, oratoria e poetica dell'università di Altdorf, Daniele
Omeis, distribuì il programma, invitando alla cerimonia il magnifico
rettore, i venerandi e celeberrimi padri accademici, e i cittadini
studiosi; e illustrò il significato di quell'invito con un discorso
dal titolo: Proverbium Italorum:
Regnum Neapolitanum Paradisus est, sed a Diabolis habitatus, ulterius
explicatum.
Il
discorso, dopo il saluto d'obbligo, cominciava col rammentare la
grave dignità, l'esimia utilità e l'insigne eleganza degli adagi o
proverbi. Entrava poi subito nell'amplificare e particolareggiare la
prima parte del proverbio oggetto di discussione, guidando gli
uditori a un ideale viaggio, non ai Campi Elisi, cui si accede solo
dopo la morte, ma a una 'terra
fortunata, regio fertilissima, elegantissima Naturae gemma'.
Sito georgrafico,venti, monti, fiumi, città, promontori, porti,
prodotti del suolo erano fatti passare dinanzi alla fantasia degli
uditori con gridi di ammirazione: e le auree messi e i neri grappoli
e le selve di cedri e i giardini di fichi; e i gigli e le rose e le
vile; e i pesci d'ogni sorta e le ostriche d'ogni varietà; e poi
ancora i bovi e i muli e i cavalli, famosi in tutta Europa. 'O
mirandam itaque Campaniae foecunditatem! O stupendam Neapolis
opulentiam! O insignem Regni huius felicitatem!'.
Ma
da queste esclamazioni di rapimento rampollavano, e quasi scoppiavano
per contrasto, le altre di ripugnanza e d'orrore con le quali passava
a svolgere, con la stessa puntuale diligenza usata per la prima, la
seconda parte della sua tesi.
Vi
passava, com'egli dice, con lingua tremebonda, tanti erano i
Neapolitanorum facinora,
di cui gli toccava parlare; giacché l'Inferno non escogitò quasi
nessuna scelleratezza di cui cotesta nazione di uomini non sia
bruttata. E già gli antichi movevano querele contro di essa,
descrivendo le lascivie e il lusso di Capua e di tutta la Campania; e
ancor oggi Giovanni Andrea Bosio, uomo chiarissimo, attesta che le
donne napoletane, pur dell'infimo popolo, gareggiano nella superbia
delle vesti con le principesse, e molte preferiscono soffrire la fame
per più giorni pur di fare splendida comparsa in pubblico nelle
feste. Ma degli altri loro vizi, eloquar
an sileam? Il pudore rattiene dal dire che è tanta la loro
lussuria che in Napoli vi ha maggior numero di meretrici che in ogni
altra città italiana; che i napoletani sono ambiziosi e cupidissimi
di titoli e di onori, amantissimi delle liti, insolenti e vantatori
nel parlare, e pieni di vanità, superbi, prepotenti, sospettosi e
grandi giocatori, avidi di vendetta, gelosi, dediti all'ozio, amatori
di novità a segno che dal tempo dei re normanni fino all'anno 1632
si sono noverate cinquantaquattro ribellioni nel loro paese; che la
plebe è così ingannatrice, specie nel giocare, e per solito di così
maligno umore, che a buon diritto dai rimanenti popoli d'Italia i
napoletani sono giudicati pessimi tra i pessimi, e piena conferma
riceve dai fatti la verità del proverbio universalmente ripetuto, il
quale quanto esalta quella terra, altrettanto ne vitupera gli
abitatori.
[…]
L'interpretazione che il Buhel dava dell'antico proverbio italiano,
la forma in cui lo svolgeva, è tale da suscitare un largo ed ilare
riso e, ad una con questo, il facile rigetto di quel proverbio come
di una troppo grossa stupidità. Ma la stupidità è la comune sorte
a cui vanno incontro i motti satirici e i giudizi sui popoli.
Siffatti
giudizi soffrono di difficoltà obiettive, e perché sono sempre
giudizi del 'per lo più', come avrebbe detto Aristotele, giudizi di
prevalenza (di una prevalenza a stabilir la quale non soccorrono
metodi sicuri), e perché mantengono carattere statico dinanzi alla
vita dei popoli, che è dinamica e cangevole; e poi, formolati che
siano su talune osservazioni, per taluni tempi e luoghi, con
riferenza a taluni aspetti della realtà, soffrono dell'altro malanno
di venire irrigiditi, resi assoluti, interpretati fantasticamente, e
diventano sostegno di leggende o menzogne convenzionali. Anche la
loro origine subiettiva è sovente torbida per passioni, contrasti
d'interessi, capricci, leggerezze, favorita da quella mancanza di
responsabilità, che rende baldanzosi, appunto perché un popolo non
è in grado di ribattere le calunnie come un individuo e alle
sofistiche accuse scopre assai più indifeso il fianco che non
gl'individui. Gli sciocchi, gl'ingenerosi, i combattitori a vuoto e
con poca spesa e con poco rischio, i plebei di cuore e di mente, sono
perciò sempre proclivi a ingiuriare i popoli; della qual cosa si
sono visti, anche di recente, esempi nauseabondi.
Nondimeno,
pur tenendo nel debito conto tutte codeste avvertenze, è un fatto
che caratteriologie psicologiche di popoli e nazioni, e giudizi
morali intorno ad essi, si sono sempre dati e si danno ancor oggi, e
rispondono a una necessità mentale, e debbono avere perciò la loro
verità o il loro granello di verità.
E
se, come io suppongo, quel proverbio italiano sorse nel Trecento, o
anche nel caso che non sia più antico del quattrocento, la sua
verità si ritrova facilmente nello spettacolo dell'anarchia feudale
che il Regno di Napoli offriva in quei secoli ai cittadini dei Comuni
e delle Repubbliche dell'Italia media e superiore, e nell'altro,
congiunto, della rozzezza, dei vizi nascenti dalla povertà e
dall'ozio, che esso offriva agli alacri mercanti fiorentini e
lucchesi e pisani e veneti e genovesi, che qui si recavano per
traffici. La sua verità era, insomma, nelle manchevolezze della vita
civile e politica di questa parte d'Italia. Né nei secoli seguenti
ci fu ragione di lasciarlo cadere in desuetudine, perché
brigantaggio e violenza di plebi cittadine e tumulti e persistente
rozzezza, e mali abiti, e povertà, e difetto di industrie e di
operoso costume gli ridavano a volta a volta un contenuto attuale.
[…]
Accade, d'altra parte, che, pur nella poco alacre vita civile e
politica, l'umana virtù si affermi nei particolari, contrastando al
generale, e talora negli episodi, e perfino essa sorga dal mezzo
stesso dei vizi, come loro correlativo. Onde un popolo che non ha
bastevole affetto per la cosa pubblica potrà avere assai vivo quello
per la famiglia, per la quale sarà disposto ogni sacrificio; un
popolo indifferente avere la chiaroveggenza dell'indifferenza; un
popolo poco operoso nei commerci e negli affari valer molto nella
contemplazione dell'arte e nelle indagini dell'intelletto; un popolo
privo di spirito di gloria saper ben cogliere il gonfio e il falso
delle umane ambizioni e operare nel riso un lavacro di verità. E via
discorrendo.
Sulla
logica di queste considerazioni, il popolo napoletano è stato
perfino più volte difeso, e il suo atteggiamento verso la vita ha
suscitato simpatie, specie negli artisti, nei sentimentali e nei
grandi dilettanti; e anche ai giorni nostri, in tanto stridore di
cozzanti passioni politiche, Napoli è apparsa come un'oasi nella
quale sia possibile ritrarsi per obliare, riposare e respirare in
mezzo a un popolo che di politica non cura o, tutt'al più, la prende
a mera materia di chiacchiera e, chiacchierandone senza riscaldarsi,
spesso la giudica con spregiudicato acume.
Tutto
bene: ma ciò non toglie che, quando poi si passa all'altro 'piano di
conoscenza', quando si torna a guardare, con interessamento e
sollecitudine politica, all'unità e al ritmo generale della vita, la
riprovazione si rinnovi; e sempre si rinnoverà fino a quando alle
umane società sarà necessaria una robusta vita etico-politica.
Per
questa parte, l'antico proverbio italiano non ha ancora perso del
tutto la sua verità, sebbene sia uscito di moda e caduto in
dimenticanza per la sua forma, che non risponde più al sentire
odierno. Non vi risponde per quelle immagini, diventate trite e
sbiadite e poco efficaci, di 'paradiso' e di 'diavoli'; non vi
risponde per quel suo porre come carattere naturale e immutabile ciò
che una lunga educazione mentale ci ha ammaestrati ormai a
considerare e a trattare come storico e trasformabile e mutevole. Ma
quando qualche odierno sociologo, considerando l'Italia meridionale
col termine di confronto non più del suo ruolo o del suo paradiso ma
di altri paesi di Europa e di Italia, dice che qui c'è stato
'arresto di sviluppo sociale', e parla per essa, se anche non per
essa sola, di un''Italia barbara', che cosa fa se non ripetere, in
gergo di scienza moderna, l'antico proverbio?
[…]
Non solo anche qui c'è stata, nei secoli, un'alta vita morale e
intellettuale, ma ci sono stati anche qui, nei secoli, coloro che
hanno amato e sofferto e operato per la loro patria, e anche qui si è
compiuta opera di avanzamento civile e politico, che solo gl'ignari
di storia possono leggermente disconoscere. E se ancor oggi noi
accettiamo senza proteste o per nostro conto rinnoviamo in diversa
forma l'antico biasimo, e se, anzi, non lasciamo che ce lo diano gli
stranieri o gli altri italiani ma ce lo diamo volentieri noi a noi
stessi, è perchè stimiamo che esso valga da sferza e da pungolo, e
concorra a mantener viva in noi la coscienza di quello che è il
dover nostro. E, sotto questo aspetto, c'importa poco ricercare fino
a qual punto il detto proverbiale sia vero, giovandoci tenerlo
verissimo per far che sia sempre men vero.
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