lunedì 19 maggio 2014

Deretani in rientro


Ne Le sorgenti della musica, pietra miliare dell'antropologia culturale oltreché della musicologia, Curt Sachs scrive:

Nel senso più ampio del termine, il mutamento culturale è un elemento permanente della civiltà umana; continua dappertutto e in ogni tempo. Può essere indotto da fattori e da forze spontaneamente sorti all'interno della comunità, e può aver luogo attraverso il contatto tra culture differenti. Tutti gli elementi della cultura, arte compresa, debbono cambiare, sotto l'impatto dell'interscambio tribale, del talento o di quella variante spontanea che i biologi chiamano mutazione.

Il cambiamento (evitando di proposito il termine 'progresso') necessita dunque di transumanze, di spostamenti fisici. In questo modo uomini provenienti da luoghi diversi possono incontrarsi (o scontrarsi) perseguendo i propri interessi e realizzando, al contempo, ciò che noi chiamiamo storia, arte, cultura. Per questo motivo accuso una istantanea orticaria quando mi capita sott'occhio il titolo ad effetto della rubrica Cervelli in fuga. In essa ci viene sottoposto sempre lo stesso predicozzo da parte dei nostri connazionali emigrati. Loro, abbandonando l'ingrata Italia che non è riuscita a valorizzarli, “ce l'hanno fatta”. All'immancabile domanda sui rimpianti: il sole o il cibo.

Una semplice domanda sorge spontanea: non essendo più possibile partire con le tasche bucate e la valigia di cartone verso le Americhe, chi pensa di andare a stabilirsi in un Paese estero, qualcosina deve aver messo da parte. E non alludo solo alle risorse economiche ma soprattutto alla formazione e alle competenze professionali. Ergo, l'Italia qualcosa gliel'ha data ai cervelli in fuga. Senz'altro il nostro Paese non spicca certo per meritocrazia e trasparenza; ma questo non implica che chi è 'costretto' (uso il virgolettato perché di fronte a simili scelte non siamo mai costretti, bensì ci autoconvinciamo di esserlo per legittimare il nostro bisogno di ricevere nuovi stimoli) a partire sia nella stessa situazione del condannato alla sedia elettrica.
Infine, un'ultima domanda. Le statistiche, è vero, sono impressionanti (http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/10/emigrazione-lanno-scorso-95mila-italiani-hanno-fatto-le-valigie-55-rispetto-al-2011/980309/), ma per quanti italiani si professano felici lontano dall'Italia, quanti sono quelli che sono stati 'costretti' a ritornare delusi? Perché nessuno parla di loro? Come potremmo chiamarli? Il titolo di questo post vuole essere una provocazione, ma anche una proposta.

Concludo con le parole di qualcuno che la storia d'Italia ed i pregi e difetti dei suoi connazionali li conosceva bene, Benedetto Croce. Tant'è che un suo lavoro del 1948, dal titolo Quando l'Italia era tagliata in due, già ci metteva in guardia dagli idioti separatismi, dedicando la sua fatica letteraria “Alla mia Napoli che non ha chiesto né vagheggiato autonomie e separatismi religiosamente fedele a quella idea dell'unità nazionale che i suoi uomini del 1799 propugnarono tra i primi dedico il diario di un periodo nel quale separati di fatto all'Italia di continuo pensammo anelando di tornare tutt'uno con lei”. Il saggio dal quale ho estratto quanto seguirà è Un paradiso abitato da diavoli, contenuto nell'omonima antologia pubblicata da Adelphi nel 2006. Il paradiso è la città in cui visse e morì Croce, Napoli, ma sono sicuro che ciascuno di noi non potrà fare a meno di sentirsi coinvolto nella disamina crociana del consolidato pregiudizio.

È un proverbio che ora non ha più corso, ma che per più secoli ebbe corso, questo: che Napoli fosse un paradiso abitato da diavoli. […] Una volta, quel proverbio assurse agli onori di una solennità accademica, preso come testo di una pomposa orazione, e illustrato e commentato innanzi a un decoroso uditorio, che era stato convocato apposta per l'occasione. Un giovane dotto tedesco chiamato Giovanni Andrea Buhel, ebbe un'idea di quelle che si sogliono chiamare 'geniali'.
Pensò di celebrare nell'università di Altdorf presso Norimberga (una piccola università sorta ai primi del Seicento e abolita ai primi dell'Ottocento) la presa di Gaeta e la riunione del Regno di Napoli ai domini di casa d'Austria con un'orazione che togliesse ad argomento, e svolgesse e dimostrasse nei particolari, la verità del proverbio volgare, che 'il Regno di Napoli è un paradiso, ma abitato da diavoli'. Detto fatto, l'11 novembre del 1707 il professore di morale, oratoria e poetica dell'università di Altdorf, Daniele Omeis, distribuì il programma, invitando alla cerimonia il magnifico rettore, i venerandi e celeberrimi padri accademici, e i cittadini studiosi; e illustrò il significato di quell'invito con un discorso dal titolo: Proverbium Italorum: Regnum Neapolitanum Paradisus est, sed a Diabolis habitatus, ulterius explicatum.

Il discorso, dopo il saluto d'obbligo, cominciava col rammentare la grave dignità, l'esimia utilità e l'insigne eleganza degli adagi o proverbi. Entrava poi subito nell'amplificare e particolareggiare la prima parte del proverbio oggetto di discussione, guidando gli uditori a un ideale viaggio, non ai Campi Elisi, cui si accede solo dopo la morte, ma a una 'terra fortunata, regio fertilissima, elegantissima Naturae gemma'. Sito georgrafico,venti, monti, fiumi, città, promontori, porti, prodotti del suolo erano fatti passare dinanzi alla fantasia degli uditori con gridi di ammirazione: e le auree messi e i neri grappoli e le selve di cedri e i giardini di fichi; e i gigli e le rose e le vile; e i pesci d'ogni sorta e le ostriche d'ogni varietà; e poi ancora i bovi e i muli e i cavalli, famosi in tutta Europa. 'O mirandam itaque Campaniae foecunditatem! O stupendam Neapolis opulentiam! O insignem Regni huius felicitatem!'.

Ma da queste esclamazioni di rapimento rampollavano, e quasi scoppiavano per contrasto, le altre di ripugnanza e d'orrore con le quali passava a svolgere, con la stessa puntuale diligenza usata per la prima, la seconda parte della sua tesi.
Vi passava, com'egli dice, con lingua tremebonda, tanti erano i Neapolitanorum facinora, di cui gli toccava parlare; giacché l'Inferno non escogitò quasi nessuna scelleratezza di cui cotesta nazione di uomini non sia bruttata. E già gli antichi movevano querele contro di essa, descrivendo le lascivie e il lusso di Capua e di tutta la Campania; e ancor oggi Giovanni Andrea Bosio, uomo chiarissimo, attesta che le donne napoletane, pur dell'infimo popolo, gareggiano nella superbia delle vesti con le principesse, e molte preferiscono soffrire la fame per più giorni pur di fare splendida comparsa in pubblico nelle feste. Ma degli altri loro vizi, eloquar an sileam? Il pudore rattiene dal dire che è tanta la loro lussuria che in Napoli vi ha maggior numero di meretrici che in ogni altra città italiana; che i napoletani sono ambiziosi e cupidissimi di titoli e di onori, amantissimi delle liti, insolenti e vantatori nel parlare, e pieni di vanità, superbi, prepotenti, sospettosi e grandi giocatori, avidi di vendetta, gelosi, dediti all'ozio, amatori di novità a segno che dal tempo dei re normanni fino all'anno 1632 si sono noverate cinquantaquattro ribellioni nel loro paese; che la plebe è così ingannatrice, specie nel giocare, e per solito di così maligno umore, che a buon diritto dai rimanenti popoli d'Italia i napoletani sono giudicati pessimi tra i pessimi, e piena conferma riceve dai fatti la verità del proverbio universalmente ripetuto, il quale quanto esalta quella terra, altrettanto ne vitupera gli abitatori.

[…] L'interpretazione che il Buhel dava dell'antico proverbio italiano, la forma in cui lo svolgeva, è tale da suscitare un largo ed ilare riso e, ad una con questo, il facile rigetto di quel proverbio come di una troppo grossa stupidità. Ma la stupidità è la comune sorte a cui vanno incontro i motti satirici e i giudizi sui popoli.
Siffatti giudizi soffrono di difficoltà obiettive, e perché sono sempre giudizi del 'per lo più', come avrebbe detto Aristotele, giudizi di prevalenza (di una prevalenza a stabilir la quale non soccorrono metodi sicuri), e perché mantengono carattere statico dinanzi alla vita dei popoli, che è dinamica e cangevole; e poi, formolati che siano su talune osservazioni, per taluni tempi e luoghi, con riferenza a taluni aspetti della realtà, soffrono dell'altro malanno di venire irrigiditi, resi assoluti, interpretati fantasticamente, e diventano sostegno di leggende o menzogne convenzionali. Anche la loro origine subiettiva è sovente torbida per passioni, contrasti d'interessi, capricci, leggerezze, favorita da quella mancanza di responsabilità, che rende baldanzosi, appunto perché un popolo non è in grado di ribattere le calunnie come un individuo e alle sofistiche accuse scopre assai più indifeso il fianco che non gl'individui. Gli sciocchi, gl'ingenerosi, i combattitori a vuoto e con poca spesa e con poco rischio, i plebei di cuore e di mente, sono perciò sempre proclivi a ingiuriare i popoli; della qual cosa si sono visti, anche di recente, esempi nauseabondi.
Nondimeno, pur tenendo nel debito conto tutte codeste avvertenze, è un fatto che caratteriologie psicologiche di popoli e nazioni, e giudizi morali intorno ad essi, si sono sempre dati e si danno ancor oggi, e rispondono a una necessità mentale, e debbono avere perciò la loro verità o il loro granello di verità.
E se, come io suppongo, quel proverbio italiano sorse nel Trecento, o anche nel caso che non sia più antico del quattrocento, la sua verità si ritrova facilmente nello spettacolo dell'anarchia feudale che il Regno di Napoli offriva in quei secoli ai cittadini dei Comuni e delle Repubbliche dell'Italia media e superiore, e nell'altro, congiunto, della rozzezza, dei vizi nascenti dalla povertà e dall'ozio, che esso offriva agli alacri mercanti fiorentini e lucchesi e pisani e veneti e genovesi, che qui si recavano per traffici. La sua verità era, insomma, nelle manchevolezze della vita civile e politica di questa parte d'Italia. Né nei secoli seguenti ci fu ragione di lasciarlo cadere in desuetudine, perché brigantaggio e violenza di plebi cittadine e tumulti e persistente rozzezza, e mali abiti, e povertà, e difetto di industrie e di operoso costume gli ridavano a volta a volta un contenuto attuale.

[…] Accade, d'altra parte, che, pur nella poco alacre vita civile e politica, l'umana virtù si affermi nei particolari, contrastando al generale, e talora negli episodi, e perfino essa sorga dal mezzo stesso dei vizi, come loro correlativo. Onde un popolo che non ha bastevole affetto per la cosa pubblica potrà avere assai vivo quello per la famiglia, per la quale sarà disposto ogni sacrificio; un popolo indifferente avere la chiaroveggenza dell'indifferenza; un popolo poco operoso nei commerci e negli affari valer molto nella contemplazione dell'arte e nelle indagini dell'intelletto; un popolo privo di spirito di gloria saper ben cogliere il gonfio e il falso delle umane ambizioni e operare nel riso un lavacro di verità. E via discorrendo.
Sulla logica di queste considerazioni, il popolo napoletano è stato perfino più volte difeso, e il suo atteggiamento verso la vita ha suscitato simpatie, specie negli artisti, nei sentimentali e nei grandi dilettanti; e anche ai giorni nostri, in tanto stridore di cozzanti passioni politiche, Napoli è apparsa come un'oasi nella quale sia possibile ritrarsi per obliare, riposare e respirare in mezzo a un popolo che di politica non cura o, tutt'al più, la prende a mera materia di chiacchiera e, chiacchierandone senza riscaldarsi, spesso la giudica con spregiudicato acume.
Tutto bene: ma ciò non toglie che, quando poi si passa all'altro 'piano di conoscenza', quando si torna a guardare, con interessamento e sollecitudine politica, all'unità e al ritmo generale della vita, la riprovazione si rinnovi; e sempre si rinnoverà fino a quando alle umane società sarà necessaria una robusta vita etico-politica.

Per questa parte, l'antico proverbio italiano non ha ancora perso del tutto la sua verità, sebbene sia uscito di moda e caduto in dimenticanza per la sua forma, che non risponde più al sentire odierno. Non vi risponde per quelle immagini, diventate trite e sbiadite e poco efficaci, di 'paradiso' e di 'diavoli'; non vi risponde per quel suo porre come carattere naturale e immutabile ciò che una lunga educazione mentale ci ha ammaestrati ormai a considerare e a trattare come storico e trasformabile e mutevole. Ma quando qualche odierno sociologo, considerando l'Italia meridionale col termine di confronto non più del suo ruolo o del suo paradiso ma di altri paesi di Europa e di Italia, dice che qui c'è stato 'arresto di sviluppo sociale', e parla per essa, se anche non per essa sola, di un''Italia barbara', che cosa fa se non ripetere, in gergo di scienza moderna, l'antico proverbio?
[…] Non solo anche qui c'è stata, nei secoli, un'alta vita morale e intellettuale, ma ci sono stati anche qui, nei secoli, coloro che hanno amato e sofferto e operato per la loro patria, e anche qui si è compiuta opera di avanzamento civile e politico, che solo gl'ignari di storia possono leggermente disconoscere. E se ancor oggi noi accettiamo senza proteste o per nostro conto rinnoviamo in diversa forma l'antico biasimo, e se, anzi, non lasciamo che ce lo diano gli stranieri o gli altri italiani ma ce lo diamo volentieri noi a noi stessi, è perchè stimiamo che esso valga da sferza e da pungolo, e concorra a mantener viva in noi la coscienza di quello che è il dover nostro. E, sotto questo aspetto, c'importa poco ricercare fino a qual punto il detto proverbiale sia vero, giovandoci tenerlo verissimo per far che sia sempre men vero.