giovedì 15 dicembre 2011

P come Perversione

Quest'intervento è tristemente suggerito da una tremenda strage che è solo l'ultima di una lunghissima serie. Solitamente, quando si cerca di comprendere il motivo di una simile follia, ci si sente rispondere che si trattava di un "pazzo isolato", il cui gesto è inutile da comprendere. Così facendo, però, lo spazio per una riflessione che cerchi di andare alle radici di un evidente disagio che serpeggia nella nostra progredita e acculturata civiltà si contrae sempre più. Per tentare allora di fare un po' di luce in questa fitta ombra mi sono rivolto ad uno scrittore che come pochi è riuscito ad analizzare e narrare i nostri (ben radicati) demoni: Edgar Allan Poe. La riflessione che vi propongo è presente nel racconto intitolato "Il demone della Perversione".


Esiste nell’uomo una propensione primitiva e inalienabile, che tuttavia è stata ignorata da moralisti e filosofi. Tutti noi, per arroganza della ragione, l’abbiamo trascurata. L’idea di questa tendenza non ci è mai venuta proprio per la sua stessa evidenza. Non si può negare che ogni tipo di metafisica sia stata costruita a priori. L’uomo intellettuale e logico, più che l’uomo intelligente e osservatore, ha provato a immaginare grandi disegni, addirittura a suggerire a Dio delle finalità. Avendo in tal modo scandagliato, con sua grande soddisfazione, le proprie intenzioni, sulla base di queste ha costruito i suoi innumerevoli sistemi mentali.


[…] Sarebbe stato più saggio e più sicuro classificare sulla base di quello che l’uomo normalmente e occasionalmente ha fatto, e sempre occasionalmente continua a fare, piuttosto che sulla base di quanto si pensava egli dovesse fare. L’induzione a posteriori ci potrebbe condurre ad ammettere, come innato e primordiale principio delle azioni umane, un qualcosa di paradossale che, per ora, possiamo definire come perversione, in mancanza di un termine migliore. Nel senso che gli attribuisco io questo è di fatto un mobile senza movente, un motivo non motivato. Sotto il suo impulso noi agiamo senza uno scopo apparente, oppure, se questo ci può sembrare una contraddizione, possiamo affermare che a causa di questi impulsi, noi agiamo per la ragione che non dovremmo. In teoria non c’è ragione più irragionevole, eppure non ce n’è, di fatto, una più forte e, per alcune menti in determinate condizioni, questa diviene assolutamente irresistibile.


[...] Questa incontenibile tendenza a fare il male solo per il gusto di farlo, non ammette altri elementi di analisi o altre soluzioni: è un impulso radicale primitivo ed elementare. Nessuno che consulti lealmente e interroghi a fondo la propria anima, sarà disposto a negare la radicalità della propensione di cui parliamo. Essa è tanto incomprensibile quanto spiccata. L’impulso diventa subito volontà, la volontà desiderio e il desiderio incontrollabile anelito, anelito a cui ci si abbandona a dispetto di tutte le possibili conseguenze.


Abbiamo di fronte un compito che dobbiamo eseguire prontamente, la più importante crisi della nostra vita ci richiede un’azione immediata. Bisogna cominciare oggi, eppure rimandiamo a domani. Ma perché? Non sappiamo rispondere, se non dicendo che ci sentiamo perversi, usando questa parola senza capirne il senso. Il momento ultimo per agire è vicino. La violenza del conflitto che è in noi ci fa tremare, la battaglia del definito con l’indefinito, della sostanza con le ombre, ma se la contesa è stata rimandata così tanto alla fine è l’ombra che vince. Lottiamo invano.


[...] Siamo in piedi sull’orlo di un baratro, gettiamo uno sguardo giù nell’abisso e ci sentiamo sofferenti e storditi. Il primo impulso è quello di scappare, evitare il pericolo, ma senza motivi apparenti restiamo. Pian piano il nostro malessere, lo stordimento e il terrore si confondono in una massa indefinita di sensazioni. A poco a poco, sempre più impercettibilmente, questa nuvola prende forma. È solo un pensiero, anche se così spaventoso da farci rabbrividire fino al midollo delle ossa grazie al fascino feroce del suo orrore. È solo una pallida idea di quello che sentiremmo veramente nella rovinosa caduta da una altezza così alta. Questo cadere, questo travolgente annullarsi suscita le più odiose e terribili tra tutte le immagini della morte e della sofferenza che mai siano arrivate ad affacciarsi alla nostra fantasia. Ma è proprio per questo motivo che noi lo vogliamo, ancor più intensamente.


La ragione cerca in ogni modo di tenerci lontani dal baratro, ma proprio per questo noi inesorabilmente ci avviciniamo. In natura non esiste una passione più diabolicamente impaziente di quella di chi, tremando sull’orlo di un baratro, pensa di lanciarsi. Se ci fermiamo a pensare, anche solo per un istante, siamo perduti. Perché la riflessione ci spinge a ritrarci e, proprio per questo, ripeto, non la possiamo ascoltare. Se non c’è un braccio amico che ci trattenga o se non siamo noi stessi in grado di ritrarci dall’abisso, ci lanciamo a capofitto e siamo finiti. Al di là o al di qua di questa spiegazione non ne esistono altre plausibili. E potremmo anche pensare che questa perversità sia provocata direttamente dall’Arcinemico, se solo non capitasse che, qualche volta, siamo spinti a agire per il bene.


lunedì 14 novembre 2011

Pensatori disonesti: Michelstaedter

Una storia sbagliata: è quella di un ragazzo ventitreenne che decide di suicidarsi appena dopo aver consegnato la propria tesi di laurea in filosofia. No, tranquilli, non si tratta del sottoscritto (altrimenti vi starei scrivendo dall’oltretomba), bensì di Carlo Michelstaedter. Un giovane che ha sofferto in prima persona i turbamenti dei giovani, lo definisce Campailla nell’introduzione alla Persuasione e la Rettorica, titolo della sua tesi di laurea. Sono stati proprio i profondi turbamenti michelstaedteriani che mi hanno convinto a dedicargli questa prima ‘puntata’ dei pensatori disonesti perché troppo onesti, nel senso che non ci dicono quello che solitamente vorremmo sentirci dire. Il precedente intervento si era focalizzato sul nostro smisurato bisogno di rassicurazioni e, come presto vedrete, in Michelstaedter troveremo delle importanti risposte.

So che voglio e non ho cosa io voglia. La nostra vita è una continua mancanza: né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, chè tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. L’uomo vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il possesso di sé stesso: ma quanto vuole dal futuro sfugge a sé stesso in ogni presente. Così si muove: continuando nel tempo.

[…] Dalla relazione con la cosa egli non trae solo il possesso, bensì la sicurezza della propria vita – ma anche questa è in breve cerchia finita: così mentre il possesso della cosa gli sfugge, gli sfugge anche la padronanza della propria vita, che non può affermarsi infinitamente, ma solo in rapporto alla propria cerchia finita; che non può riposare nell’attualità, ma è trascinata dal tempo ad affermarsi nei limiti dati sempre avanti. Così il suo piacere è contaminato da un sordo e continuo dolore la cui voce è indistinta, che la sete della vita, nel giro delle determinazioni reprime. Gli uomini hanno paura del dolore e per sfuggirlo gli applicano come empiastro la fede in un potere adeguato all’infinità della potenza ch’essi non conoscono, e lo incaricano del peso del dolore ch’essi non sanno portare.

[…] Il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare, esser nati non è che voler continuare: gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte. Così che se si fa loro certa la morte in un certo futuro – si manifestano già morti nel presente. Chi teme la morte è già morto.



Volendo sintetizzare, la nostra esistenza presenta, secondo Michelstaedter, un vizio di forma: quanto più ci affatichiamo per dirigerne l’esito, fissando in cose esterne l’obiettivo dei nostri desideri (relazioni sentimentali, gratificazioni professionali, ricchezze ecc), tanto più esse ci sfuggiranno. Il nostro conseguente senso di incompiutezza dovuto a questa condizione in cui siamo gettati è il dolore. Ma il dolore, ben lungi dall’essere qualcosa da cui scappare vilmente, ci parla, secondo Michelstaedter. E solo ascoltando ciò che esso ci dice potremo toccare con mano quell’unica gioia che ci è concessa: essere liberi.

Tuttavia, gli uomini non riescono a rendersene conto e, per questo, scelgono di nascondersi in quei piccoli rifugi preparati per loro da qualcun altro. Così, deleghiamo ad altri le redini della nostra esistenza, facendo fiorire ideologie politiche, dottrine religiose o buttandoci a capofitto nelle vertiginose ascese e discese di una carriera lavorativa. Michelstaedter, ben consapevole del pericolo di tutto questo, cioè di un totale azzeramento dell’unicità di ogni singolo uomo e della mortificazione di quella tensione vitale che anima ciascuno di noi, ci esorta a svegliarci, prima che sia troppo tardi.

Negli uomini la voce del dolore è troppo forte. Essi non sanno più sopportarla con tutta la loro persona. Guardano dietro a sé, guardano intorno a sé, e chiedono una benda agli occhi, chiedono di essere per qualcuno, per qualche cosa, chè di fronte alla richiesta del possesso si sentivano mancare. Di essere qualcuno e per qualche cosa persona sufficiente con la loro qualunque attività, perché la relazione si possa ripetere nel futuro; perché il correlato sia per loro sicuro nel futuro. La loro potenza si finge finita, finito il possesso che volevano; la loro volontà persuasa nella qualunque attualità che si ripete.

[…] Egli si vuol ‘costruire una persona’ con l’affermazione della persona assoluta che egli non ha: è l’inadeguata affermazione d’individualità: la rettorica.
Gli uomini parlano, parlano sempre e il loro parlare chiamano ragionare, ma qualunque cosa uno dica non dice, ma attribuendosi voce a parlare si adula. Così insieme ripetono: ‘noi siamo, noi siamo, perché sappiamo, perché possiamo dirci le parole del sapere, della conoscenza libera e assoluta’. Così si stordiscono l’un altro.

[…] Ma non fai niente, non sai niente, non dici niente, fosse anche la via dove credi di trovarti la via del più saggio uomo sulla terra. Non c’è cosa fatta, non c’è via preparata, non c’è modo o lavoro finito per quale tu possa giungere alla vita, non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c’è ma devi crearla, devi crear il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la tua vita. Ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l’indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé: la vira della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato.



Tuttavia, Michelstaedter sa di non potersi illudere con una consolatio finale e intuisce che l’eco di questo suo grido sofferente sarà destinato a cadere nel vuoto nell’Italia della prima metà del Novecento, troppo presa da effervescenze ideologiche e futuristiche. Così, nello sguardo che Michelstaedter getta sui propri contemporanei e nelle previsioni che ne fa sul loro futuro si rivelerà ben più che profetico.


La rettorica organizzata a sistema, nutrita dal costante sforzo dei secoli – fiorisce al sole, porta i suoi frutti e benefica i suoi fedeli. – Ed altri ne porterà in futuro. Il νεΐκος [lotta] avrà preso l’apparenza della φιλία [amicizia] quando ognuno, socialmente ammaestrato, volendo per sé vorrà per la società, che la sua negazione degli altri sarà affermazione della vita sociale.- Così ogni atto dell’uomo sarà la rettorica in azione, che oscuro per lui stesso gli darà quanto gli serva.

Il danaro, il mezzo attuale di comunicazione della violenza sociale per cui ognuno è signore del lavoro altrui: il ‘concentrato di lavoro’, il ‘rappresentante di diritto’, la fascia di trasmissione fra le ruote della macchina – sarà come divinità assunto in cielo, diventerà del tutto nominale, un’astrazione, quando le ruote saranno così ben congegnate che ognuna entrerà nei denti dell’altra senza bisogno di trasmissione.

La lingua arriverà al limite della persuasività assoluta, quello che il profeta raggiunge col miracolo, - arriverà al silenzio quando ogni atto avrà la sua efficienza assoluta. Ma se a uno di questi poveri rimasugli d’umanità in un giorno di sole verrà un brivido di vita, quasi una reminiscenza attraverso i tempi al suo tardo cervello – e s’indugerà sul manubrio della sua macchina turbato, e s’allontanerà dal lavoro, - il compagno avrà poca pena a farlo rinsavire. ‘Vieni’, gli dirà, ‘è il tuo dovere morale!’. L’altro capirà subito: ‘è il pane’, e andrà al lavoro con la testa bassa. Καλλωπίσματα όρφνης: ‘ornamenti dell’oscurità’! – Prima di giungere al regno del silenzio ogni parola sarà un ‘ornamento dell’oscurità’: un’apparenza assoluta, un’efficacia immediata d’una parola che non avrà più contenuto che il minimo oscuro istinto di vita. Tutte le parole saranno termini tecnici quando l’oscurità sarà per tutti allo stesso modo velata, essendo tutti gli uomini allo stesso modo addomesticati. Gli uomini parleranno, ma ουδέν λέξουσιν ‘non diranno nulla’. […] Temo che gli uomini siano sì bene incamminati, che non verrà loro mai il capriccio di uscir da questa tranquilla e serena minor età.


giovedì 3 novembre 2011

Pensatori disonesti

Leggendo gli Aforismi dell’Amarezza di Cioran pensavo, totalmente assorto dalla tensione autodistruttiva della sua riflessione, al fatto che stentiamo a renderci conto della potenza del nostro pensare. Sono sempre più convinto che il pensiero sia una droga: bisogna saperlo dosare, altrimenti si può restarne fregati. Beata ignorantia si suol dire e forse non a torto: se dovessimo fare un calcolo puramente utilitaristico, senza dubbio gettare lo sguardo sui nostri abissi (tanto cari a Nietzsche) non potrà mai essere conveniente e comodo quanto tirare avanti a campare. Eppure non riusciamo a farne a meno: dobbiamo razionalizzare tutto, abbiamo un bisogno insaziabile di certezze e di rassicurazioni che soltanto l’armonia di un sistema (che sia filosofico, religioso, politico-ideologico non cambia la sostanza) riescono ad acquietare, anche se provvisoriamente.


Di tutto questo ne era consapevole anche Henri-Louis Bergson che, nella sua ultima opera, Le due fonti della morale e della religione, scrive:

L’uomo è il solo animale la cui azione sia malsicura, che esiti e vada a tentoni, che formuli dei progetti con la speranza di riuscire e il timore di fallire. È il solo che si senta soggetto alla malattia, e il solo che sappia di dover morire. Il resto della natura vive in una perfetta tranquillità. Inoltre, di tutti gli esseri che vivono in una società, l’uomo è il solo che possa deviare dalla linea sociale, cedendo alle preoccupazioni egoiste, quando il bene comune è in causa. Questa duplice imperfezione è il prezzo dell’intelligenza. L’uomo non può esercitare la sua facoltà di pensiero senza rappresentarsi un avvenire incerto, che ridesti il suo timore o la sua speranza. Non può riflettere su ciò che la natura gli domanda, in quanto essa ha fatto di lui un essere socievole, senza dirsi che potrebbe trovare spesso il suo tornaconto nel trascurare gli altri, nell’occuparsi solo di se stesso. E tuttavia la natura ha voluto l’intelligenza, l’ha posta come approdo di una delle due grandi linee dell’evoluzione animale, per far da contrappeso all’istinto più perfetto, punto terminale dell’altra. Ed è impossibile che essa non abbia preso le sue precauzioni affinchè l’ordine, appena turbato dall’intelligenza, tenda a ristabilirsi automaticamente. Di fatto, la funzione fabulatrice, che appartiene all’intelligenza e che tuttavia non è pura intelligenza, ha precisamente questo obiettivo. Essa è una reazione difensiva della natura contro ciò che potrebbe esservi di deprimente per l’individuo, e di disgregatore per la società nell’esercizio dell’intelligenza’.


Bergson svilupperà questo tema in una direzione forse troppo distante dall’economia del nostro discorso, ovvero in un’esaltazione della vita del mistico (per es. Gesù Cristo, Socrate, Buddha), inteso come figura esemplare di comportamento in grado di attirare non solo l’attenzione e la fiducia degli uomini, ma anche di innalzarli dal mero interesse individuale ad un afflato amoroso verso l’intera comunità umana. Ma ciò che mi interessava sottolineare citando Bergson è che, per fortuna o purtroppo, non siamo delle macchine perfette ed unidirezionali; ed oltre a ciò di cui abbiamo parlato come la giustizia, l’amore, la verità, il senso del bello c’è dell’altro in noi. Si tratta di qualcosa che non vogliamo prendere in considerazione perché, come dicevamo prima, temiamo cosa potremmo scoprire: allora scegliamo di prendere la via di fuga. E specialmente la filosofia ha spesso battuto questa strada: si tratta di quelle filosofie, agli occhi di Cioran, troppo sopportabili, ovvero quelle dottrine che ci forniscono una visione rassicurante della realtà ed un modello ideale dell’uomo improntato sul suo dover-essere anziché sul suo essere. Per questo mi propongo l’ardito compito, dal prossimo intervento, di fare le veci dell’indagatore dell’incubo, ovvero di perlustare, accompagnato dalle autorevoli guide che selezionerò di volta in volta per voi, il lato oscuro della forza.

martedì 4 ottobre 2011

Monsieur Hemingway

Tempo fa il Dalai Lama, intervistato, disse di non leggere romanzi in quanto finzioni. Nulla da eccepire anche se qualche piccola eccezione ogni tanto è lecito prendersela. E fra queste trasgressioni letterarie, per quanto mi riguarda, non può certo mancare il vecchio Hemingway. Ma, a ben vedere, leggere Hemingway non implica una vera e propria trasgressione alla suddetta regola aurea. In Morte nel pomeriggio potrete infatti trovare questa sua riflessione, vero e proprio manifesto della sua arte narrativa:


“Quando scrive un romanzo, uno scrittore dovrebbe creare gente viva; gente, non personaggi. Un personaggio è una caricatura. Se uno scrittore riesce a far vivere della gente, può darsi che non ci siano nel suo libro grandi personaggi, ma è possibile che il suo libro rimanga come un insieme; come un’entità; come un romanzo. Per buona che sia una frase o una similitudine, se la mette dove non è assolutamente necessaria e insostituibile rovina il suo lavoro per egotismo. La prosa è architettura, non decorazione d’interni, e il Barocco è finito. Che uno scrittore metta le proprie meditazioni intellettuali che potrebbe vendere a basso prezzo come saggi, in bocca a personaggi costruiti artificialmente che sono più rimunerativi se presentati in un romanzo come persone, questo è forse un buon principio economico, ma non costituisce letteratura. Gente, non personaggi costruiti abilmente, devono uscire in un romanzo dall’esperienza assimilata dello scrittore, dalla sua cultura, dalla sua testa, dal suo cuore e da tutto lui stesso”.

Proseguiamo nell’universo Hemingway accennando adesso alla sua filosofia. Facciamoci però accompagnare anche da Fernanda Pivano, storica traduttrice e curatrice dei suoi romanzi, oltre che amica personale dello scrittore americano. E’ anche un modo per ricordare una figura di spicco del panorama intellettuale italiano che ci ha da poco lasciati.

“Hemingway è stato uno scrittore tragico, un inimitabile cantore del rapporto tra uomo e donna e della sua disintegrazione in un destino senza via d’uscita. Che gli amanti si chiamassero Brett e Jake o Catherine e Frederick o Harry e Marie non cambiava il loro destino che restava senza speranza davanti allo spettro della morte, eterna protagonista di tutti i suoi libri.
L’unica speranza, l’unico spiraglio che permetta di vivere almeno con dignità il breve periodo concesso dal destino prima della fine è l’integrità, che per Hemingway vuol dire coraggio, vuol dire dignità, vuol dire onestà: vuol dire quella “grace under pressure” che lo ha guidato in tutta la vita fino all’alba segreta in cui silenziosamente, discretamente, umilmente si dichiarò sconfitto e si tolse la vita”.
(Dalla prefazione di Hemingway- vol.1; i Meridiani; Mondadori)

“Le donne – ci dice Hem in Fiesta, il sole sorgerà ancora - possono essere amiche meravigliose. Assolutamente meravigliose. Ma prima di tutto, perché l’amicizia abbia una base, bisogna che di una donna tu sia innamorato. Io avevo Brett come amica. Non avevo mai pensato al suo punto di vista. Ottenevo qualcosa per niente. Ma questo ritardava soltanto la presentazione del conto. Il conto arrivava sempre. Era una delle cose meravigliose su cui potevi contare.
Pensai di aver già pagato tutto. Non come paga e paga e paga una donna. Nessuna idea di giusta punizione o di castigo. Un mero scambio di valori. Tu davi qualcosa e ricevevi qualcos’altro. O lavoravi per qualcosa. In un modo o nell’altro pagavi per tutto quello che ti capitava di buono. Io avevo pagato la mia parte per un sufficiente numero di cose che mi piacevano, e di conseguenza me l’ero passata bene. O pagavi imparando con l’esperienza o correndo rischi o con i soldi. Godersi la vita significava imparare a spendere bene i propri soldi e sapere quando ci si era riusciti. Potevi sempre spendere bene i tuoi soldi. Il mondo era un buon posto per fare acquisti. Sembrava una bella filosofia. Fra cinque anni, pensai, sembrerà stupida come tutte le altre belle filosofie che ho avuto.
Ma forse non era vero. Forse, man mano che andavi avanti, imparavi realmente qualcosa. Non m’importava che cosa fosse il mondo. Volevo soltanto sapere come viverci. Forse, se scoprivi come viverci, imparavi anche che cos’era”.


Vi lascio come di consueto con una chicca: un breve racconto contenuto in una raccolta praticamente introvabile intitolata Uomini senza donne, trovato “al prezzo di Lire duecentoventi”. Dio benedica i mercatini di libri usati!

Una storia banale

E così egli mangiò un’arancia sputandone lentamente i semi. Fuori, la neve si trasformava in pioggia. All’interno, la stufa elettrica sembrava non dare alcun calore, ed egli, alzatosi dallo scrittoio, si sedette accanto alla stufa. Che benessere! In questo, alla fine, consisteva la vita.
Prese un’altra arancia. Lontano, a Parigi, Mascart aveva messo K.O. Danny Frush, peso piuma, al secondo round. Più lontano ancora, in Mesopotamia, c’erano ventun piedi di neve. Nell’altro emisfero, nella lontana Australia, giocatori inglesi di cricket stavano sollevando i bastoni. Lì c’era Romance. Mecenati delle arti e delle lettere avevano fondato il Forum, egli lesse. Questo era una guida, un consigliere, un amico degli intellettuali.
Vi piaceranno questi racconti americani, d’un calore nostrano, visioni di vita reale in aperto Ranch, in grandi tenute, o in case accoglienti, il tutto pervaso da un sano umorismo.
Dovrò leggerle, si disse.
E proseguì. Che ne sarà dei figli dei nostri figli? Chi rimarrà di loro? Nuovi mezzi dovranno essere scoperti per darci una casa al sole. Tutto ciò sarà raggiunto con la pace o con la guerra?
O dovremo emigrare tutti al Canadà?
Sconvolgerà la scienza le nostre più profonde convinzioni? La nostra civiltà è forse inferiore alle antiche?
E frattanto nelle lontane Jungle dello Yucatan risuonava il rumore delle scuri di tagliatori di gomma.
Vogliamo avere degli uomini forti o degli uomini colti?
E quali problemi avranno da risolvere le nostre figliole? Nancy Hawthorne è costretta a sbrigarsela da sola nel mare della vita. Essa risolve tutti i problemi di una ragazza di diciotto anni con sveglia sensibilità.
Era proprio un magnifico opuscolo.
I pittori e i poeti moderni sono Artisti? Si e no.
Prendi Picasso.
Ci sono delle regole di vita a cui attenersi? Azzardatevi a mandarci la vostra opinione, di grazia.
Lì c’era Romance dappertutto. Gli scrittori del Forum erano acuti, pieni di humor e di arguzie. Ma non tentavano d’essere caustici, né erano contorti. Vivevano animati dall’intelligenza, sostenuti da nuove idee, pervasi di fatti straordinari.
Posò l’opuscolo.
E frattanto, sdraiato in un letto nella semioscurità di una camera a Triana, Manuel Garcia Maera giaceva con un tubo in ciascun polmone, soffocava di pneumonia. Tutti i giornali dell’Andalusia uscirono in edizione speciale per la sua morte che si aspettava da parecchi giorni. Uomini e ragazzi compravano grandi fotografie a colori di lui per ricordo e, finite le fotografie, si vendevano le stampe. I toreadors erano contenti della sua morte, perché in ogni corrida egli si esibiva in tutti quei virtuosismi che per essi erano quasi sempre impossibili. Tutti seguivano sotto la pioggia il suo carro e c’erano 146 toreadors intorno a lui al cimitero quando fu posto nella tomba accanto a quella di Joselito. Dopo il funerale ognuno se ne andò al caffè sotto la pioggia, e tutti compravano le fotografie di Manuel e se le arrotolavano in tasca.

domenica 18 settembre 2011

Faust di Sokurov

Per Liberareggio.org

Si è recentemente chiusa la 68° Mostra internazionale del cinema di Venezia. Il prestigioso Leone d’oro è stato assegnato al regista russo Aleksander Sokurov e al suo Faust, pellicola liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Goethe. Se il parere espresso della giuria, ovvero che si tratta di uno di quei film in grado di cambiarvi la vita, potrà sembrarvi troppo roboante, vi assicuro che quantomeno qualche segno questo film ve lo lascerà. Ma, prima delle mie impressioni, debbo fornirvi la rituale esposizione della trama (quantomeno per rovinarvi un po’ il piacere della prima visione).


Il protagonista, il dottor Faust (Johannes Zeiler), corrisponde al prototipo dell’intellettuale ottocentesco, in cerca di ogni tipo di risposte, da quelle materiali (come attestano le crude scene iniziali della sua dissezione di un cadavere), a quelle più metafisiche. Tuttavia la fame di Faust non è soltanto conoscitiva; si ritrova pertanto costretto a rivolgersi ad un misterioso usuraio, Mauricius (Anton Adasinsky), che in realtà è l’incarnazione del diavolo Mefistofele. Nonostante l’essenza spregevole di Mauricius traspaia già dal suo corpo deforme, Faust accondiscende alle condizioni propostegli per soddisfare tutti i suoi desideri, cosicchè i due iniziano ad intraprendere delle stravaganti avventure. Una di queste però, finisce male: in una bettola, Mauricius scatena una rissa con un giovane che sarà proprio Faust ad uccidere, anche se incidentalmente. Il tutto nella più totale indifferenza del resto degli uomini, troppo dediti ai loro piaceri vinaioli.


I sensi di colpa cominciano a tormentare Faust, accresciuti dal fatto che l’uomo da lui ucciso era il fratello di Margarete, una ragazza da cui era rimasto affascinato. Tuttavia, tra l’ammissione delle proprie colpe e le tentazioni della carne, Faust, sospinto dal suo malevolo suggeritore, sceglie le seconde, non rivelando nulla alla ragazza per tentare di sedurla. Mauricius, allora, propone a Faust un’ultima offerta irresistibile: una notte in compagnia di Margarete in cambio della sua anima. Faust accetta, siglando con il proprio sangue il contratto col diavolo. E dopo aver ottenuto ciò che voleva, a Faust non resta che abbandonarsi all’ultimo, lungo viaggio col demonio dal sorprendente finale.




E’ evidente già dalla trama che chi si aspettasse da questo film i forsennati ritmi hollywodiani o il classico lieto fine rimarrà deluso. Le vicende che si susseguono sono infatti poche, ma la peculiarità della narrazione sta tutta nella descrizione dell’altalena psicologico-emotiva vissuta da Faust. In un’atmosfera lugubre e funerea, ma sempre fiabesca e sospesa nel tempo, come solo ciò che è uscito dalla penna di Goethe sa esserlo, i sensi di colpa di Faust, la fragilità, il bisogno che lo rendono facile preda del Male si affollano nella sua mente, rendendolo incapace di porre fine a tutto ciò. Per questo dicevo che il Faust di Sokurov è un film che lascia il segno: le scelte, i bivi esistenziali di Faust diventano nostri, ponendoci di fronte problemi che siamo incapaci di risolvere definitivamente, come l’angoscia della morte, il valore della nostra esistenza, il peso delle nostre responsabilità, la facilità con cui cediamo alle scorciatoie per realizzare cinicamente i nostri obiettivi, della cui vacuità ci rendiamo conto sempre troppo tardi. Non è stato dunque un caso che, al termine della proiezione, le persone che affollavano la suggestiva arena del cinema allestita per l’occasione in Campo San Polo a Venezia se ne siano andate silenziosamente e più meditabonde che mai, come se avessero assistito ad una cerimonia. Cosa non da poco, visti i tempi che corrono.

lunedì 1 agosto 2011

'notte

Arieccoci per uno "spuntino" filosofico in una notte di mezza estate. E questa volta voglio parlarvi proprio della notte servendomi di svariati pretesti.

Il primo non poteva che essere il famosissimo standard di Thelonious Monk: 'Round Midnight. Classica dimostrazione di come e quanto la musica possa superare qualsiasi parola o definizione.

Il secondo pretesto consiste nell'immagine che ho posto come nuovo sfondo del blog. Si tratta di una foto che ho scattato a Venezia. Chiunque c'è stato di notte sa infatti che Venezia dà il meglio di sé quando indossa l'abito da sera. Non a caso, Brodskij la descrive così nel suo diario veneziano intitolato "Fondamenta degli Incurabili":
"Il lento procedere del vaporetto attraverso la notte era come il passaggio di un pensiero coerente attraverso il subconscio. Sui due lati, con l'acqua nera come pece fino al ginocchio, si levavano gli enormi stipi intagliati di scuri palazzi ricolmi di tesori insondabili. L'atmosfera complessiva aveva qualcosa di mitologico, anzi di ciclopico per essere precisi; ero entrato in quell'infinito che prima potevo solo contemplare dai gradini della Stazione. Intorno a noi i passeggeri se ne stavano immobili, e quando avevano qualcosa da dirsi usavano toni altrettanto sommessi, come se anche i loro discorsi riguardassero cose di natura intima. Poi, per un momento, il cielo fu oscurato dalla vasta parentesi marmorea di un ponte, e di colpo tutto fu inondato di luce. "Rialto" mi disse una ragazza con la sua voce normale".

Pretesto numero tre: salvare la notte dalla filastrocca marzulliana.

Il quarto, e decisivo, pretesto l'ho tratto dalla lettura degli "Inni alla notte" di Novalis (alias Friedrich Von Weissenfels), uno dei tanti filosofi inspiegabilmente ignorati sia in ambienti accademici che dal "grande pubblico". Dietro gli "Inni" c'è la profonda convinzione novalisiana dell'insufficienza dell'umanità di fronte alla soluzione dei grandi problemi del pensiero e delle relazioni tra mondo visibile e quello invisibile, tra questo mondo e l'aldilà. Insufficienza affermata nonostante la pretesa del suo secolo di proclamarsi in grado di far luce su tutto (Illuminismo). Novalis protesta contro questa pretesa, ed esprime la sua fiducia nella poesia, nella spiritualità mistica e nelle tenebre della notte. Per questo è meglio lasciarvi in sua compagnia; nel frattempo, buona notte.

"Quale vivente, dall'acuta sensibilità, tra le meravigliose visioni che riempiono il vasto spazio attorno a lui, non ama sopra ogni altra l'omnigioconda luce - coi suoi colori, coi suoi raggi, coi suoi ondeggiamenti, con la sua mite onnipresenza, come il giorno nel suo risvegliarsi?
Ma io mi volgo in giù, verso la notte, che è santa, indescrivibile, misteriosa. Lontano giace il mondo - sommerso in un profondo sepolcro; - deserta e solitaria è la sua posizione. Nel petto vibrano le dolorose corde di una profonda malinconia. Voglio precipitare giù nelle gocce di rugiada e mischiarmi con la cenere.
Nei loro abiti bigi, come la nebbia della sera quando il sole è tramontato, mi vengono incontro lontananze di ricordi, desideri di gioventù, sogni d'infanzia, le brevi gioie di tutta la lunga vita, e le vane speranze. [...] Ma cos'è che scaturisce pieno di tristi presagi da sotto il cuore e trangugia la dolce aria della malinconia? Hai dunque anche tu un beneplacito in noi, oscura notte? Che cos'hai dunque sotto il tuo mantello, che invisibile e potente mi penetra nell'anima?
In alto sollevi le grevi ali della mente. Noi ci sentiamo oscuramente e inespimibilmente eccitati. Quanto povera e infantile m'appare ora la luce - quanto letificante e benedetto l'addio al giorno!".

"Deve sempre il mattino ritornare? Non va mai alla fine la potenza terrena? Una fatale operosità consuma il celeste volo della notte. Non avverrà mai che l'arcano sacrificio dell'amore bruci eternamente?
Fu attribuito in misura determinata alla luce il suo tempo; ma fuori dei limiti del tempo e dello spazio si estende l'imperio della notte. - Eterna è la durata del sonno. Santo dormire - non rallegrare avaramente coloro che sono consacrati alla notte in questa quotidiana fatica terrestre. Essi non sanno che sei tu a volteggiare intorno al delicato seno della ragazza e che dal suo seno fai cielo - essi non presentono che tu apri il paradiso e porti la chiave delle abitazioni ai beati, silenziosa ambasciatrice di misteri infiniti".

"Una volta io spandevo amare lagrime, e la mia speranza si struggeva mortalmente nel dolore, ed io solitario stavo presso lo sparuto colle che nell'angusto e buio spazio nascondeva la fisionomia della mia vita - solitario come mai alcuno in solitudine si trovò, ero premuto in un'angoscia indescrivibile - privo di forza, io non riuscivo a concepire che un pensiero di miseria.
Con infinita bramosia mi attaccavo alla fuggente e spenta vita: - allora dall'azzurra lontananza venne un tremito crepuscolare e ad un tratto la catena della luce strappò il vincolo della nascita. Là fuggì la magnificenza terrena, e con essa la mia mestizia; insieme si dileguò il mio dolore in un mondo nuovo, abissalmente profondo e tu, ispirazione notturna, dormiveglia del cielo, venisti su di me e lentamente la regione si sollevò in alto; su questa regione si librò il mio spirito disimpegnato, nato a nuova vita. [...] Millenni precipitarono lontano nel profondo, come temporali. Al suo collo io piansi alla nuova vita lagrime incantevoli.
Era questo l'unico sogno - e da quel momento io sperimento una fede immutabile nel cielo della notte e nella sua luce. La luce dell'amata".

sabato 2 luglio 2011

Nel dubbio, non facciamo solo gli scongiuri

Dopo esserci "dilettati" con l'arte contemporanea torniamo alle nostre discussioni semiserie. E lo facciamo prendendo in considerazione un tema particolarmente scottante, qual'è il rapporto uomo-ambiente. A dirla tutta, lo spunto di questo nuovo post l'ho tratto da questa lettera di Pascal Bruckner (di cui, confesso, non conosco nessuna opera) e dalla sua logica argomentativa quantomeno bizzarra.


Volendo sintetizzare ai minimi termini, Bruckner accusa gli ambientalisti di fare dei futili catastrofismi visto che possiamo spassarcela ancora per un po' e che, quindi, non abbiamo alcun motivo di "fasciarci la testa" ex-ante possibili catastrofi. Così scrive Bruckner:
"I discorsi allarmisti sull’atomo, sul clima, sul futuro del pianeta, nascondono una contraddizione. Se la situazione è così grave come dicono, a che serve insorgere? Perché non lasciarsi andare aspettando il diluvio? Per quanto riguarda le soluzioni suggerite, sembrano inferiori alla gravità del male. Sappiamo tutti cosa propongono la maggior parte delle correnti di questo movimento: abbandonare le automobili, i viaggi in aereo, consumare prodotti locali, abbandonare la carne, riciclare i rifiuti, piantare alberi, moderare i desideri, impoverirsi volontariamente. Tanto rumore per nulla! Enormità della diagnosi, derisione dei rimedi. Come fossimo gentili boy scout, ci prodigano di consigli d’economia casalinga degni delle nostre nonne. Poiché siamo sprovvisti di qualsiasi potere di fronte al Pianeta, facciamo fruttare quest’impotenza con piccoli gesti propiziatori: salire le scale a piedi, diventare vegetariani, andare in bicicletta… Gesti che ci danno l’illusione di agire per la terra". Per il resto, la lettera prosegue trascinando (stancamente) la stessa logica all'insegna del "futti e futtatindi", che preferisco risparmiarvi.


Perciò, proviamo a rispondere ad un filosofo con un altro Filosofo, che non penso si possa facilmente liquidare come un 'catastrofista' sia dal punto di vista ideologico che situazionale, in quanto dubito che già all'epoca della sua riflessione avessero a che fare con le attuali problematiche ambientali. Dunque, a lui la parola e a voi l'ardua sentenza finale su chi ci convenga ascoltare: "Il possesso del nutrimento è concesso dalla stessa natura a tutti gli esseri viventi, dalla loro nascita sino al compimento del loro sviluppo. E' chiaro che anche agli esseri umani bisogna estendere la garanzia naturale del cibo e stabilire che le piante esistono in vista degli animali e gli altri animali, se non tutti almeno la maggior parte, esistono in vista dell'uomo. Se, dunque la natura non fa nulla di inutile né di imperfetto, è necessario che essa abbia fatto tutte queste cose in vista dell'uomo.

Ma, nonostante ciò che dice Solone, ovvero che "nessun chiaro confine di ricchezza v'è per gli uomini", è ragionevole affermare che la quantità di simili mezzi sufficiente per una vita buona non è infinita. Dunque, una sola è la specie di acquisto dei beni che si possa definire naturale o giusta, ed è quella che ci deve mettere in condizione di raccogliere i mezzi strettamente necessari alla vita e utili alla comunità politica e familiare".


Tuttavia "ad alcuni sembra che il compito dell'amministrazione domestica [in greco oiko-nomia] sia quello di salvaguardare o aumentare all'infinito la consistenza del patrimonio pecuniario. La causa di questo atteggiamento è l'affaticarsi intorno a quelle cose che permettono di vivere, senza preoccuparsi di vivere bene, e poiché il desiderio di quelle cose non ha limiti, si desiderano i mezzi produttivi illimitati". Ipse dixit Aristotele nel libro primo della Politica. Perciò, anziché dannarci affannosamente per cercare nuove risorse energetiche da "spruppare" fino all'osso, non ci converrebbe rivedere il problema a monte, ovvero moderando all'insegna della sobrietà (e non del catastrofismo) i nostri standards di consumo?


ps: ridendo e scherzando questo blog ha compiuto un anno di vita. Più di 6000 visite non sono certo una bazzecola per un pincopallino qualsiasi come il sottoscritto. Perciò mi riprometto di dare una "svecchiata" grafica al blog (continuando a sostenere con voi che, volenti o nolenti, non possiamo non dirci filosofi).

venerdì 17 giugno 2011

L'arte non è cosa nostra - Biennale 11

Per Liberareggio.org

"Al rapimento estasiante ricercato dalle belle arti ora ci si contrappone drasticamente rendendo l’opera d’arte centro di uno scandalo. La nuova esigenza dell’opera d’arte diventa suscitare la pubblica indignazione".


Queste parole di Walter Benjamin (pubblicate nel 1936 nel celebre saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”) mi aiutano non poco per introdurvi in questo breve reportage della Biennale, rassegna internazionale d’arte che si tiene dal 1907 a Venezia. Il gusto di provocare può essere infatti preso come il filo rosso che lega tra loro tutti i padiglioni della Biennale 2011. Niente può sfuggire al caustico sguardo dell’arte contemporanea: dalla “sete di mattone” di chi vuole possedere a tutti i costi una propria abitazione, anche se di formato extra-small (foto 1 e 2), al bisogno disperato di un impiego fisso, per quanto monotono e logorante possa essere (3 e 4), obiettivo indispensabile per sentirci nel nostro piccolo onnipotenti quando preleveremo il nostro stipendio al bancomat-organo che accompagna ogni operazione con una sinfonia aulica (5) e per poter soddisfare i nostri capricci consumistici all’insegna dell’hi-tech (6 e 7).


Quanto a provocazione non è stato da meno il padiglione Italia, dal titolo “L’arte non è cosa nostra”, sia per il suo formato monstre in occasione del 150° anniversario dell’unità nazionale (più di 200 opere esposte), sia per i contenuti proposti. Al di là dell’immancabile satira politica e di costume (8, 9, 10, 11), non poteva mancare uno sguardo alla storia e alle sorti italiche: ecco così Garibaldi che diventa un feticcio da oltraggiare (mettendo insolitamente d’accordo Nord e Sud) (12), e l’Italia che viene vista come una martire crocifissa e ancora sanguinante (13).


Ma a colpire particolarmente l’attenzione generale è stato il Museo della Mafia, curato da Cesare Inzerillo e Vittorio Sgarbi. Al suo oscuro interno i visitatori si ritrovano (metaforicamente) faccia a faccia con i ritratti (14, 15) e le gigantografie dei più pericolosi boss d’Italia, tra cui alcune star reggine (16, 17); possono inoltre osservare la ferocia delle esecuzioni militari dei mafiosi con una galleria di foto per stomaci forti (18, 19, 20); possono far loro visita nelle anguste cabine per le visite in carcere (21); possono infine ricordarsi la sorte di chi ha cercato di ostacolarli (22, 23). Ma, per fortuna, essere meridionali non vuol dire per forza essere mafiosi. Queste ultime due opere che vi propongo colgono due simboli universali della meridionalità e soprattutto della ‘rriggitanità: da un lato la fatica sul volto e sulle mani di chi tira avanti a campare (24), e dall’altro il sacro ozio di chi si ferma a guardare il vuoto di fronte a sé (25). Insomma, se tutti siamo un po’ artisti, i ‘rriggitani lo sono ad honoris causa.

venerdì 13 maggio 2011

Disperati ululati impolitici

“Dovunque, in ogni tempo c’è stato gran malcontento contro i governi, le leggi e le pubbliche istituzioni; ma per la maggior parte è stato solo perché si è sempre pronti a far pesare su di quelli la miseria che è la compagna inseparabile dell’umana esistenza, in quanto essa è, per dirlo coi miti, la maledizione che colpì Adamo e tutto il seme con lui. Eppure mai quel miraggio ingannevole è stato manovrato in maniera tanto subdola e sfacciata quanto dai demagoghi del presente. Costoro sono infatti, in quanto nemici del cristianesimo, degli ottimisti: il mondo per loro è ‘fine a se stesso’, cioè, per sua natural conformazione, disposto a meraviglia, è la vera dimora della felicità. Invece i suoi mali, strazianti e infiniti, li ascrivono tutti ai governi; ché, se quelli, dicono, facessero il loro dovere, avremmo il paradiso in terra, vale a dire tutti potrebbero ingozzarsi, sbevazzare, moltiplicarsi e crepare senza la minima pena o fatica: infatti questa è la parafrasi del loro ‘fine a se stesso’, la mèta di quell’’infinito progresso dell’umanità’ che non si stancano di annunciare col loro pomposo frasario”.


Questo incipit tratto dalla Dottrina giuridica e politica di Schopenhauer mi aiuta ad introdurvi al tema di un nuovo intervento. L'ispirazione mi è stata fornita, oltre che dalla solita sensazione di bombardamento mediatico-politico in tempi di campagne elettorali, dalla lettura delle frizzanti Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann. Ma prima una doverosa una premessa: non sono né un filomonarchico né simpatizzo per idee anarchiche o quant'altro. Credo anzi che la democrazia sia l'unico assetto statale che possa assicurare una qualche parvenza di libertà. Del resto, basta guardare a quante persone stanno combattendo in Africa e Medioriente per avere quello che noi già abbiamo per capire che non vi sono alternative migliori alla "demoretoricrazia", come la definisce sprezzantemente il Mann delle Considerazioni. Dunque, prendete quest'intervento come un momento di "intollerabile lucidità" (per citare il caro Cioran) o, se volete, come il pretesto per mettere ironicamente in luce i difetti della vecchia democrazia occidental-style. Del resto, come scrive lo stesso Mann, "parlare del contrario di una cosa è un'altra maniera di parlare della cosa stessa, una maniera anzi, che può servire benissimo a capirla concretamente".


E riguardo ai difetti della democrazia credo che anche voi, come me, sopportiate con difficoltà le alte dosi di retorica, demagogia, moralismo che poi implodono con straordinaria facilità in squallide aggressioni verbali (e non solo) a cui ormai assistiamo rassegnati. A tal proposito Mann scrive: "Il politico fa in modo di aprire fra se stesso e ogni animo sensibile contrario alla sua 'dottrina' tutto l'abisso che separa la virtù dalla depravazione. La solidarietà e fraternità di tutti gli uomini dello spirito che egli va proclamando, sono fraternità e solidarietà molto esclusive; escludono infatti severissimamente tutto quello che è altro da lui, escludono dubbi e contestazioni. Quel che gli preme non è uguaglianza di rango e valore, nè il fattore umano, bensì l'uniformità delle opinioni e la capacità di farle valere. Per questo si circonda di cervelli subalterni, di persone da cui non deve temere di essere nè contraddetto nè ostacolato, e tanto meno offeso. Egli ha bisogno di avere ragione. In questa maniera però si addormenta per sempre la coscienza, svanisce a poco a poco l'amore per il vero e per il giusto, e presto si giunge a quel grado di corruzione e di bigotteria dove a tutti coloro che non giurano fedeltà alla 'dottrina' è lasciata la scelta di considerarsi dei farabutti o dei mentecatti. Ecco la libertà di spirito come la intende il politico. Ecco la "solidarietà di tutti gli uomini dello spirito" come l'ha in mente lui. E dire che un tale fariseismo rigido e gelido va in giro a predicare l'umanità...".


"Lo Stato democratico è tanto poco diretto a combattere l’egoismo come tale, che anzi si è formato dall’egoismo di tutti, i quali, agendo in perfetta intesa e con metodo, sono passati dal punto di vista privato a quello generale, per cui la somma dei singoli egoismi si è costituita in un egoismo comunitario. […] “Una costituzione statale in cui si attuasse il diritto astratto, sarebbe una cosa eccellente per altri esseri che non fossero gli uomini; siccome la grande maggioranza degli uomini è per natura massimamente egoista, ingiusta, senza scrupoli, menzognera, talvolta anche malvagia e, in più, di ben meschina intelligenza, nasce la necessità di una forza concentrata in un solo uomo, posta anche al di sopra delle leggi e del diritto, esente da qualsiasi responsabilità. Soltanto così, a lungo andare, l’umanità può essere tenuta a freno e governata”.


E aggiunge ancora:"Ogni uomo di pochi discorsi, amante della verità e dotato di un onesto pessimismo dunque riconoscerà seriamente l’eterna inconciliabilità del conflitto tra la società e l’individuo. Riconoscerà che la vita sociale è e rimane la sfera della necessità immediata, del compromesso, delle antinomie irriducibili; parlerà di patetico inganno dei popoli, quando l’educazione illuminata a fondo positivistico promette la realizzazione di un’armonia degli interessi sociali e individuali tramite quell’impossibile demarcazione dei ‘diritti’ del singolo nei confronti degli uguali ‘diritti’ degli altri, e dunque la ‘libertà’, il ‘benessere individuale’, la ‘felicità’. Questo non è un motivo per incrociare le braccia; è motivo tuttavia per negare, su un piano spirituale, l’ubbidienza all’illuminismo politico. La sua untuosa nobiltà d’animo, la sua devozione compiaciuta ripugneranno a un uomo schietto, non solo perché egli capisce che la ‘felicità’ assicurata da tale illuminato messaggio è irraggiungibile, ma anche perché come ‘felicità’ gli sembra tutt’altro che desiderabile, anzi, del tutto indegna dell’uomo, in contrasto con lo spirito e con la cultura, ruminante e pacifica come mucche al pascolo e fondamentalmente senza anima".


Insomma, ride bene chi ride ultimo: e così anche noi, in quanto "popolo sovrano" siamo bersaglio delle ironie manniane: "Il popolo è giusto, saggio e buono. Tutto quello che fa è virtuoso e vero, per nulla esagerato, errato o delittuoso". Era Robespierre. Siamo di nuovo a quel punto? E' di nuovo a tal punto il nostro giudizio tiranneggiato dai tempi, da prendere per verità questa disgustosa santimonia? [...] Signore Iddio, il popolo! E' il popolo che sulle piazze canta e grida quando scoppia una guerra, ma incomincia a brontolare, a lamentarsi per dire che la guerra è un'impostura, se dura troppo e impone privazioni. Allora, se può, fa la rivoluzione; ma non di sua iniziativa, giacchè per le rivoluzioni ci vuole lo spirito e il popolo, di spirito, non ne possiede un granello. Non possiede che la violenza, unita all'ignoranza, alla stupidità e alla stortura". [...] Voi ritenete che il popolo abbia una mentalità progressista? "La tendenza del gregge" - dice Nietzsche - "è sempre a lasciare le cose come sono; non ha in sè nulla di creativo". Questa è una teoria a cui risponde il fatto spesso constatato che non c'è al mondo tanta inclinazione all'inerzia quanta nel popolo più basso, che l'ideale dell'assoluta inazione è tipico della classe che a malincuore si assume il titolo di 'lavoratrice'".


"Il popolo come entità che non sa governare né si lascia governare non è un prodotto dei tempi moderni. E’ stato e sarà sempre così. Questa situazione tormentosa è di tutti i tempi e di tutti i paesi. E non meno internazionali sono i palliativi usati per porvi rimedio: si chiamano politica interna, Parlamento, ‘democrazia’. [...] I capi, penso, vanno considerati come gli esponenti di una collettività; biasimare loro vuol dire biasimare se stessi, e allora forse si farebbe meglio a biasimare direttamente se stessi. Detesto il metodo di buttare la colpa su qualcuno, di ostracizzarlo, detesto gli sproloqui dei politicanti e la loro mania di prendersela con i ‘responsabili’, quel criticare da piazza tanto di moda fra i popoli latini, il loro “Piove? Abbasso il governo!”. Rincarando poi la dose nuovamente con Schopenhauer: "un sovrano eternamente minorenne che in conseguenza deve sottostare a una tutela permanente e non potrà mai da solo amministrare i propri diritti senza provocare infiniti pericoli; tanto più che, come tutti i minorenni, diventa facilmente lo strumento di insidiosi malfattori che appunto perciò si chiamano demagoghi”.


Forse "c'hazzeccato" ancora...

domenica 17 aprile 2011

A spasso con Heidegger - part 2

Dopo il precedente post con cui ho cercato di introdurvi il più semplicemente possibile in quel affascinante labirinto che è "Essere e tempo", proseguiamo a spasso con Heidegger. Ci eravamo lasciati con tanti interrogativi; vediamo allora di rispondere ad uno ad uno introducendo nuovi elementi dell'analitica heideggeriana.

Dopo aver constatato che nell'esistenza quotidiana, ovvero nel dominio della sfera del Si, non si concretizza altro che un appiattimento logorante di ciascun individuo, inconsciamente assorbito dai meccanismi della quotidianità, ci siamo chiesti perché l'Esserci (ovvero quell'ente che noi tutti siamo) non si sottrae a tutto ciò. La risposta è semplice quanto inquietante. Perché proprio attraverso quell'essere nel mondo all'insegna della banalità, della routine fatta di giorni scanditi da momenti, abitudini e attività sempre uguali (e quando Heidegger esprime ciò definendo il nostro domani come "un eterno ieri" possiamo toccare con mano quel rivolo di poesia che scorre anche nella filosofia) noi ci sentiamo tranquilli e protetti. Trascorriamo la gran parte della nostra esistenza facendo ciò è meglio che si faccia; non abbiamo tempo per soffermarci un attimo a pensare qualcosa di più profondo rispetto a "cosa mi magno stasera?" o "cosa c'è in TV?".

Scherzi a parte (che poi tanto scherzi non sono), con questo non voglio demonizzare la quotidianità. Commetterei un grave errore che ogni fedele heideggeriano non finirebbe mai di rinfacciarmi. Infatti, come predica Heidegger, sarebbe impossibile decidere di sfuggire da questa dimensione della nostra esistenza, dato che essa è pur sempre una possibilità strutturale del nostro essere. Ovvero, fa parte di noi disperderci, distrarci, diventare dei piccoli "automi" al servizio del nostro capo/manager/cliente/amico/fidanzata e quant'altro. Ma se la quotidianità costituisce gran parte della nostra esistenza, come possiamo diventare consapevoli di ciò? E, dopo esserne diventati consapevoli, cosa fare per ottenere la tanto agognata autenticità o, se siete amanti del lessico filosofico, dell'essere?

Secondo Heidegger, l'unico modo di sottrarsi al nostro inevitabile decadimento è reso possibile da alcuni improvvisi e particolari "stati d'animo". In "Lettera sull'umanismo" il filosofo ne elenca alcuni come la noia e, non vorrei sbagliarmi, anche l'amore; ma in "Essere e tempo" lo stato d'animo rivelatore è quello dell'angoscia. Heidegger spiega meglio come intende l'angoscia distinguendola dalla paura. Nonostante entrambe possano essere pensate come una fuga, l'angoscia è diversa dalla paura per il davanti-a-che si fugge: qualcosa di minaccioso, ma di ben determinato (es: un leone voglioso di assaporare le vostre carni) nel caso della paura; il nostro essere-nel-mondo nell'indeterminatezza di ciò che potrà essere nel caso invece dell'angoscia. Nell'angoscia propriamente noi non fuggiamo da nulla perché tutto ci appare così privo di senso e importanza al punto tale da svanire. Non restiamo che noi. Soli con noi stessi. Abbandonati, anzi, a noi stessi in quanto gettati-nel-mondo (tranquilli, l'abuso di trattini non è dovuto a qualche patologia ma è per trasporre le cruciali definizioni esistenziali heideggeriane). L'angoscia non può essere prevista: essa ci appartiene dal primo istante della nostra esistenza, in quanto fin dal nostro primo respiro noi siamo gettati nel "nulla" della nostra esistenza. E qui il nulla non allude ad una svalutazione del valore della vita, bensì al fatto che non siamo a fondamento della nostra esistenza: non possiamo scegliere quando e come nascere; non sappiamo neanche quale e se ci sia un perché della nostra esistenza; non ci è dato sapere quando, come e perché torneremo a questo nulla da cui siamo spuntati.

Sento già l'eco dell'apparentemente ingenua domandina di fronte alla quale però filosofi di tutti i tempi sono impalliditi o hanno reagito sdegnosamente (argomentando che la filosofia non si "può sporcare così le mani" ecc. ecc.): ok, stando così le cose, che cosa ci resta da fare?

Heidegger, con quella sfrontatezza teutonica che contraddistingue ogni sua pagina, ci risponde. E lo fa collegandosi proprio a quell'ultima constatazione che abbiamo fatto a proposito della fine della nostra esistenza, cioè la morte. Prima che iniziate a fare gli scongiuri e a toccare ferro, è necessario spiegare questa particolare scelta heideggeriana. Abbiamo visto, a proposito della quotidianità, come uno dei problemi fosse quello che in essa l'Esserci non si pone minimamente il problema della sensatezza della propria esistenza perchè troppo "preso" da altri o da altro. Dunque, il cammino lungo le vie dell'essere e dell'autenticità non può che essere un cammino da intraprendere da soli. In questo l'angoscia ci dà una grossa mano, facendo non solo "scomparire" tutto ciò che ci circonda, ma aprendoci anche la possibilità di dirigere il nostro pensiero alla nostra morte, ovvero verso l'essere-per-la-morte. Tranquilli, non intendo invitarvi al suicidio. Anzi col suicidio, per dirla con Heidegger, ci resterebbe fatalmente precluso il senso della morte "naturale" che incombe su di noi e può arrivare in qualsiasi momento, senza che noi possiamo farci nulla.

Per evitare simili fraintendimenti e chiarire come pensare la morte, Heidegger fa alcuni esempi pratici riferendosi alla morte come fine, ossia acquisizione di un resto, riempimento di una mancanza, raggiungimento della completezza. Tutti questi significati si rivelano insufficienti per Heidegger, dato che con essi non si fa altro che reiterare quella logica matematico-calcolante con cui affrontiamo le questioni di tutti i giorni. La morte, allora, deve essere pensata come la possibilità suprema della nostra esistenza, o come la possibilità dell'impossibile (dato che dopo di essa non ci siamo più). Solo tenendo sempre presente questo limite invalicabile nelle nostre riflessioni e decisioni potremo, secondo Heidegger, rivolgere le nostre energie a ciò che più conta e smettere di inseguire infinitamente progetti, come se dovessimo esistere in eterno. Certo, anticipare, precorrere in un simile modo la possibilità ed il senso della morte in ogni nostra azione vuol dire fare una vita pesante, difficile, angosciante. Ma siamo sicuri che l'altra alternativa di cui disponiamo (la prigione falsamente dorata del Si) sia tanto meglio? Heidegger scalpita per risponderci: "L'anticipazione della morte svela all'Esserci la dispersione nel Si stesso e, sottraendolo ad esso, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: la LIBERTA' PER LA MORTE".

sabato 12 marzo 2011

Heidegger e la quotidianità

Ogni tanto era spuntato tra le righe del nostro blog, ma mancava ancora un intervento dedicato esclusivamente a Martin Heidegger. Personaggio un po' controverso per tanti motivi, Heidegger è sicuramente il filosofo che più di tutti ha attirato e attira ancora l'attenzione di larghe fette degli 'specialisti' di filosofia (accademici e non). Ovviamente non pretendiamo qui di inserirci nei dibattiti-fiume fra 'heideggeriani' e 'anti-heideggeriani' bensì, come nostro solito, confezionare un piccolo omaggio ai protagonisti della Filosofia, illustrando quelle questioni che possano solleticare maggiormente il vostro interesse.

Prima di affrontare il tema di oggi è necessaria una piccola premessa introduttiva all'opera presa in esame. "Essere e tempo" non è un trattato filosofico qualsiasi: non soltanto per il fatto che il suo iter compositivo è rimasto interrotto (Heidegger scrisse e pubblicò soltanto una delle due parti previste nel progetto dell'opera), ma soprattutto per il problema da cui prende le mosse il discorso heideggeriano: la secolare e decaduta questione dell'essere. Decaduta a causa dell'evidente incapacità della filosofia di pervenire ad un risultato soddisfacente, a causa della vaghezza e della polisemia di questo concetto, di cui ogni filosofo ha dato una propria e controversa definizione. In mezzo a questo caos ormai calmo sbuca Heidegger che, nel 1927, pretende di riportare in auge la riflessione sull'essere, ma da un punto di vista rivoluzionario rispetto alla tradizione della metafisica occidentale.

Heidegger infatti rileva che, se da un lato noi mostriamo di avere un rapporto strutturale con l'essere (dato che lo adoperiamo come verbo-copula anche nella più banale discussione quotidiana), dall'altro siamo inspiegabilmente incapaci di rispondere alla semplicissima domanda "Ma che cos'è questo benedetto essere?". Ed è qui che sta l'inghippo secondo Heidegger, ovvero su come ci interroghiamo sull'essere e, quindi, su come lo cerchiamo. I filosofi di tutti i tempi hanno sbagliato completamente strada, dato che hanno cercato questo essere come se fosse un qualsiasi oggetto con cui possiamo entrare in contatto e riporlo nella cassaforte della nostra conoscenza. Conseguenza di tutto ciò: caos concettuale, definizioni sprecate, caduta nella vuota genericità del problema dell'essere e della metafisica in generale. Allora, per cercare di riparare a tutto ciò, Heidegger prova ad affrontare il problema da un diverso punto di partenza: non più dall'astrattezza della riflessione concettuale, ma proprio da ciò che la filosofia aveva considerato 'inferiore' rispetto alle vette del suo pensiero puro, ovvero la 'banale' concretezza dell'esperienza quotidiana, cioè del nostro modo di essere di tutti i giorni in mezzo ai nostri simili in cui passiamo praticamente tutta la vita.

Sembrerebbe un paradosso pretendere di riuscire a raggiungere l'essere, forse il concetto che presume più di tutti una ricerca intimistica e isolata, osservando il nostro modo di essere con gli altri. Ma per Heidegger non si può procedere diversamente: del resto in che altro modo conosciamo noi stessi se non a partire dalle nostre reazioni verso le vicende esterne, verso gli altri, verso la natura-ambiente che ci circonda? Si tratta di un presupposto imprescindibile per la nostra esistenza, senza del quale non avremmo modo di esplicare la nostra volontà, forza, impulsi. Il nostro modo di essere si fonda, dunque, sul fatto di essere aperti, rivolti ad altro rispetto a noi e, quindi, anche nella possibilità di essere totalmente presi, assorbiti e istupiditi da cose futili e banali. Su questa possibilità, secondo Heidegger, si fonda proprio la quotidianità, definita dal filosofo come deiezione-dispersione nella sfera del "Si" (sottolineando già a livello lessicale la contrapposizione con la sfera dell'autenticità, ovvero del "Sè"). In questo mondo del Si ognuno è come l'altro, giacché il Si non è nessuno e, insieme, è tutti. Ma vediamo meglio di cosa si tratta.

"Nell'uso dei mezzi di trasporto o di comunicazione pubblici, dei servizi di informazione (i giornali) ognuno è come l'altro. Questo essere-assieme dissolve completamente il singolo Esserci [l'ente che noi siamo, così denominato da Heid.] nel modo di essere "degli altri", sicché gli altri dileguano ancora di più nella loro particolarità e determinatezza. In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si esercita la sua autentica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla "gran massa" come ci si tiene lontani, troviamo "scandaloso" ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un'Esserci determinato ma tutti (anche se non come somma), decreta il modo di essere della quotidianità". ("Essere e tempo", § 27).

Ma se siamo quotidianamente sottoposti a questa dittatura "pubblica", perché non ce ne sottriamo? Anzi, ancor prima, come possiamo accorgerci di tutto ciò? Esiste una possibilità di sottrarci alla dispersione quotidiana, una sorta di contro-movimento alla nostra strutturale tendenza a decadere nel Si? In cosa consiste esattamente questo Si? Tante domande si accavallano per cui non ci resta che proseguire nella lettura di Heidegger (nel prossimo intervento però).

giovedì 3 marzo 2011

Tonino Guerra

Forse Tonino Guerra sarà ai più maggiormente riconoscibile per una sua comparsata in uno spot (potenza della pubblicità) anzichè per il suo straordinario contributo alla storia del cinema italiano. In qualità di sceneggiatore ha collaborato con Fellini, Antonioni, Monicelli, De Sica, Visconti, ovvero con Registi che attraverso l'elaborazione di un loro codice cinematografico unico e irripetibile sono riusciti ad ampliare il nostro concetto di film oltre i canoni tradizionali. Ed è in questa tensione o temerarietà 'ulissiana' verso la scoperta di nuovi ambiti espressivi che risiede, secondo il mio insignificante parere, l'essenza dell'arte in generale e, perchè no, della filosofia. Del resto, cos'altro sono l'arte e la filosofia se non delle ricerche infinite, nel senso di mai definitivamente approdabili ad un appagamento definitivo? Ma nonostante la paradossalità di questa situazione inviti chiunque si aspetti da una qualsiasi attività un risultato esatto e definitivamente tangibile a girarne alla larga, allo stesso tempo l'attrazione verso tutto ciò è irresistibile, oltre che razionalmente poco dimostrabile.

Tornando in tema e ponendo fine alle mie elucubrazioni private, in quest'occasione vi propongo quest'intervista a Tonino Guerra che, oltre a riuscire ad evocare in noi immagini ed episodi bellissimi (vedi:la panchina o il caffè sospeso) ci parla di tante cose di cui abbiamo tentato (malamente) di parlare in questo blog.

p.s:è un pò lunga ma val la pena vederla.

mercoledì 16 febbraio 2011

Marco Aurelio on bus

Esco di casa alle nove e un quarto. Dovrei essere all'università alle nove e mezza. "Pazienza - dico tra me e me - farò dieci minuti di ritardo". Salgo sull'autobus. Dopo qualche minuto si capisce che qualcosa non va: una coda disumana si snoda su tutto il Ponte della Libertà. Si sparge la notizia sull'autobus: "C'è un corteo di operai che hanno bloccato il traffico per difendere il loro posto di lavoro" (di questi tempi, niente di nuovo sotto il sole). Preoccupazione, sdegno, insofferenza si impadroniscono delle persone a bordo del mezzo pubblico: chi si lamenta, chi telefona al capo, chi ne approfitta per recuperare un pò di sonno, chi impreca senza troppi complimenti. E anch'io inizio a pensare al mio ritardo che è aumentato almeno di un'ora. Allora, per distrarmi un pò e per ammazzare il tempo inizio a leggere i Pensieri di Marco Aurelio.

Il tempo della vita umana è un punto, la sua sostanza flusso, la sensazione è oscura, l'intero composto fisico facile a corrompersi, l'anima erramento, la sorte realtà indecifrabile, la fama incerta; per dire in breve, tutto quanto attiene al corpo è fiume, quanto riguarda l'anima è sogno e vanagloria, e la vita guerra e viaggio di uno straniero, oblio la fama presso i posteri. Che cosa, dunque, può accompagnarci nel vivere? Una sola ed unica realtà: la filosofia. E questa consiste nel conservare il dèmone interiore [felicità in greco = eudaimonia, 'spirito buono'] al riparo da violenza e danno, più forte di piaceri e dolori, tale da non fare alcunchè in modo capriccioso o seguendo menzogna e ipocrisia o non faccia qualcosa; e, ancora, capace di accogliere quel che avviene ed è assegnato come proveniente da quello stesso luogo da cui anch'egli è venuto e sopratutto capace di attendere la morte con lieto pensiero. Perchè essa avviene secondo natura e niente che avvenga secondo natura è male. (II, 17)

Non agire controvoglia, nè contro il bene pubblico, nè senza ponderazione nè in modo titubante; e neppure orna l'intelletto con ricercata eleganza; non essere verboso nè troppo affaccendato. Serena luminosità dentro e nessun bisogno dall'esterno del soccorso e della tranquillità che altri possono dare. Diritti bisogna stare, non tenuti diritti. (III, 5)

Cercano per sè dei ritiri in campagna, sulle rive del mare, sui monti; anche tu sei solito desiderare fortemente siffatti luoghi. Ma tutto è quanto mai stupido, perchè ti è lecito, in qualunque momento lo desideri, ritirarti in te stesso. E in nessun luogo un uomo si può ritirare più tranquillamente e con meno problemi che nella sua anima, soprattutto chi ha dentro di sè tali valori che, piegatosi a contemplarli, subito si trova pienamente a suo agio; e parlando di agio nient'altro voglio significare se non uno stadio di ordine e decoro. [...] Infine, ricordati di ritirarti in questo campicello che ti appartiene e, prima di ogni cosa, non tormentarti, non crearti tensioni, sii libero e guarda alle cose come un vivente mortale.(IV, 3)

Fà poche cose se hai l'intenzione di ottenere la tranquillità. Non è meglio fare le cose necessarie e quante richiede la ragione del vivente? Ciò non solo produce la tranquillità che viene dal fare nobilmente, ma anche quella che viene dal fare poche cose. Se infatti si togliessero di mezzo la maggior parte delle cose che diciamo e facciamo, che non sono necessarie, si avrebbero più agio e tempo e si sarebbe meno perturbati. E bisogna togliere di mezzo non solo le azioni non necessarie, ma anche le rappresentazioni; perchè così neppure azioni superflue conseguiranno. (IV, 24)

Un fiume di accadimenti e un flusso impetuoso è il tempo: ciascuna cosa, non appena è vista, già è trascinata via, e un'altra viene trasportata che, a sua volta, è destinata a essere portata via. (IV, 43)

Sii simile a un promontorio, contro di cui di continuo si spezzano le onde. Quello sta eretto e attorno ad esso s'assopiscono i marosi bollenti. "Come sono infelice, perchè mi è capitato questo". No, al contrario: "Come sono felice, perchè, capitatomi questo, continuo a non provare afflizione, nè spezzato dal presente, nè terrorizzato dal futuro". Ricorda, in ogni circostanza che ti spinga a provare angustia, di avvalerti di questo principio, per cui non è questa una sventura, ma, al contrario, è buona ventura il saper sopportare la circostanza con nobiltà. (IV, 49)

Le cose di per sè non toccano per niente l'anima nè hanno accesso all'anima nè possono muoverla o scuoterla; essa sola si muove e scuote e plasma gli eventi esterni in rapporto a sè conformemente ai giudizi di valore che si reputa degna di esprimere su di loro. (V, 19)


D'un colpo, le porte si aprono. Siamo arrivati: la quotidianità ci reclama. Peccato, avrei voluto che quella corsa non finisse più.

venerdì 4 febbraio 2011

Pensieri in viaggio

Come alcuni di voi sapranno, sono da poco emigrato in terra veneta per motivi di studio. Anche se si tratterà (credo) di un soggiorno temporaneo, è pur sempre una bella 'botta' per chi, come me, aveva trascorso tutti gli anni della sua vita nella propria città natale, accompagnato dalle persone più care. Come al solito, non ho potuto fare a meno di trarre uno spunto di riflessione da ciò che sto vivendo per cercare un raffronto e, perchè no, qualche consiglio utile da qualcuno dei miei venerati filosofi che, nel nostro consueto appuntamento, vi propongo.

La cosa che più di tutte mi ha impressionato prima della partenza è stata leggere negli occhi dei miei familiari e dei miei inseparabili amici un profondo senso di tristezza. Dico tristezza piuttosto che dispiacere empatico perchè, mentre quest'ultimo rimanda più ad una compassione verso l'altro destinata a fermarsi ad un livello superficiale, ciò che in loro traspariva era qualcosa di più intimo, proprio come una 'egostica' perdita di una parte di loro stessi. Ed è stato proprio questo ad avermi colpito: rendermi conto di quanto la nostra esistenza possa essere condizionata e legarsi a ciò che le è esterno, al punto tale da aver paura di privarsene come se si venisse amputati di un pezzo di sè stessi, nonostante l'impossibilità strutturale di 'impadronirci' dell'altro sia evidente. Ma lasciamo ora che sia qualcun altro a parlarci della tristezza.

"La tristezza non è mai uno straripamento, ma uno stato che si spegne e muore. Ciò che la caratterizza in modo estremamente significativo è la frequenza del suo insorgere dopo i supremi appagamenti e compimenti vitali. Perchè essa fa seguito all'atto sessuale, perchè si è tristi dopo una sbornia formidabile o un eccesso dionisiaco, perchè le grandi gioie sono foriere di tristezza? Perchè di tutto lo slancio consumato in questi eccessi restano solo il sentimento dell'irreparabile e il senso di perdita e abbandono, contrassegnati da una fortissima intensità negativa. La tristezza insorge ogni volta che la vita si dissipa. La sua intensità eguaglia l'entità delle perdite subìte.
[...] La vita non è che una prolungata agonia. E la tristezza mi sembra rispecchi qualcosa di questa agonia. Il contrarsi del volto che essa provoca non ne è un riflesso? Il viso di chi è colpito da un'intensa tristezza mostra dei segni che sembrano scavare nell'essenza stessa dell'essere. Nella tristezza il volto emana una tale interiorità che il visibile apre una porta sull'anima. (Fenomeno che si manifesta anche nelle grandi gioie)" (E.M. Cioran, Al culmine della disperazione par. 53)

Già, le grandi gioie. Confesso di averne vissute parecchie, la maggior parte coi miei 'sgangherati' amici. Penso spesso a loro in questi giorni: alle cavolate fatte assieme, a come sia cambiato tutto nella nostra vita tranne la certezza di poter contare l'uno su l'altro e, soprattutto, a quante piccole cose ci meriteremmo di più e di cui, putroppo, ce ne siamo dovuti privare. Per questo voglio dedicare loro, a mò di esortazione fraterna, questi accorati versi per cercare di vivere, il più possibile, senza rimpianti.

"Che cosa è mai decisione? La scelta; no, scegliere riguarda sempre qualcosa che è già dato prima, qualcosa che si può prendere o respingere. De-cisione significa qui fondare e creare, avere a disposizione, rinunciare o perdere, prima e al di là di sè. Chi decide? Ognuno, anche senza prendere alcuna decisione e senza volerne sapere, eludendo la preparazione. Di che cosa si decide? Di noi stessi? Noi chi? Ma perchè si devono prendere decisioni? Che cos'è decisione? La necessaria forma di attuazione della libertà. Decisione, in quanto atto dell'uomo, vista come un processo, nelle sue conseguenze.

[...] Solo ciò che è vissuto e che si può vivere come un'esperienza, ciò che pro-rompe nell'orizzonte del vivere esperienze, ciò che l'uomo è capace di portare a sè e di fronte a sè, può valere". (M. Heidegger, Contributi alla filosofia par. 46 e 63)

E, last but not least, un ringraziamento va ai miei genitori per avermi regalato questa straordinaria occasione nonostante i mille sacrifici che un pò tutti noi poveri stronzi dobbiamo sobbarcarci in un periodo come questo, oltre ad avermi fatto diventare ciò che sono. Sarei però un ingrato, dopo tutta questa smielata prosopopea, se non ringraziassi anche tutti voi frequentatori di questo blog che, piano piano, va avanti, sempre consapevole delle tante, tantissime cose di cui mi piacerebbe parlarvi.
Infine, tornando sulle sofferenze e sui sacrifici inevitabili, forse possiamo vedere le cose sotto un'altra luce, quantomeno per non piangerci solo addosso...

"Così come oggi siamo, possiamo sopportare un buon numero d'afflizioni, e il nostro stomaco è attrezzato al cibo pesante. Forse, senza di esse, troveremmo scipito il banchetto della vita; e senza la buona volontà del dolore, dovremmo lasciarci sfuggire fin troppe gioie." (F. Nietzsche, Il coraggio di soffrire par.354 in Aurora).

martedì 25 gennaio 2011

Tra sesso e castità

Per Liberareggio.org

Le "piccanti" gesta del nostro Presidente del Consiglio sono, come ben sapete, tornate alla ribalta della gogna mediatica. Periodicamente abituati a sorbirci simili chiacchiere e scontri politico-ideologico-erotici, ormai non ce la facciamo neanche ad indignarci più di tanto. Ma l'argomento su cui volevo incentrare quest'intervento non riguarda i più squallidi dettagli su come e quante volte B. abbia consumato con le varie Ruby "rubacuori". Ciò che mi preme analizzare è l'insopportabile ipocrisia e bigottismo di quei tanti moralizzatori che, se solo avessero un quarto di soldi, potere e privilegi di cui gode B. chissà cosa combinerebbero.
Sia chiaro: con questo non intendo minimamente giustificare i comportamenti di un settantacinquenne (il quale per la posizione da lui ricoperta è ingiustificabile, per non dire di peggio) che, molto probabilmente, se la fa con le minorenni; piuttosto sarebbe utile cominciare a scalfire quell'insopportabile ghigliottina che incombe sulla sessualità confenzionataci da quel mix di bigottismo, finto perbenismo e clericalismo che tanti danni continua a procurare alla nostra civiltà (e la recente condanna dell'educazione sessuale da parte del Papa, del tutto cieco nei confronti di un problema serissimo chiamato AIDS, la dice lunga a riguardo).

Ma cos'è davvero per noi questa benedetta (o maledetta) sessualità? Quali sono le radici storiche che ci hanno portato allo stato attuale di cose, ovvero di repressioni che, inevitabilmente, portano con sé trasgressioni, eccessi, nevrosi e malattie? Perché non riusciamo a svincolarci definitivamente dalle grinfie della condanna clericale della sessualità responsabile, a mio avviso, proprio di quegli stessi problemi che si vorrebbero risolvere rifiutandoli, espungendoli come se nulla fosse? Per tentare di rispondere a simili domande vi propongo alcuni stralci di un saggio, intitolato “Il rifiuto del piacere”, di uno dei massimi storici del Medioevo, Jacques Le Goff.

Per opinione comune la tarda Antichità segna una svolta fondamentale nel modo di concepire e di praticare la sessualità in Occidente. Mentre nell'Antichità greco-latina la sessualità e il piacere carnale erano considerati valori positivi e dappertutto regnava una grande libertà sessuale, vediamo in seguito subentrare una condanna generalizzata della sessualità e una rigida regolamentazione del modo di esercitarla. Fattore principale di tale ribaltamento è il cristianesimo.

[…] Con l'avvento del cristianesimo, una delle prime novità consiste nel collegamento fra la carne e il peccato. Non che l'espressione “peccato carnale” sia frequente nel Medioevo; ma è già visibile il processo che porterà durante l'intero Medioevo, mediante uno slittamento di significati, a servirsi dell'autorità suprema, la Bibbia, per giustificare la repressione della maggior parte delle pratiche sessuali. L'eredità biblica non aveva lasciato alla dottrina cristiana un pesante bagaglio di repressione sessuale. L'Antico Testamento, spesso indulgente sotto questo aspetto, aveva concentrato la repressione della sessualità nei divieti rituali enumerati nel Levitico (15 e 18). Nel Nuovo Testamento i Vangeli sono molto discreti sulla sessualità. Fanno l'elogio del matrimonio, purché sia monogamico e indissolubile. La carne non è assimilata a un'attività sessuale peccaminosa: essa in fondo designa soltanto, come dice il Vangelo di Giovanni, la natura umana. Per Paolo, l'appello alla verginità e alla continenza si fonda sul rispetto del corpo umano. Nel Medioevo, invece, la demonizzazione della carne e del corpo, assimilati a luoghi di depravazione, al centro della produzione del peccato, toglierà al corpo ogni dignità.

[...] Fra il tempo dei Vangeli e il trionfo del cristianesimo (secolo IV), due serie di avvenimenti assicurano il successo della nuova etica sessuale: sul piano teorico, la diffusione dei nuovi concetti di carne, fornicazione, concupiscenza, e la sessualizzazione del peccato originale; sul piano pratico, l'apparizione di uno status virginale fra i cristiani e la realizzazione dell'ideale di castità nel monachesimo. Per quanto riguarda il concetto di carne l'essenziale consiste nell'inasprimento della contrapposizione carne/spirito, che porta verso la nozione di carne debole, corruttibile, e del significato di carnale verso quello di sessuale.
Ma più importante è la lunga evoluzione che condurrà ad assimilare il peccato originale al peccato carnale. Nella Genesi il peccato originale è un peccato dello spirito, che consiste nel concepire l'appetito della conoscenza e nel disubbidire a Dio. Clemente di Alessandria è il primo ad accostare il peccato originale all'atto sessuale; ma fu Agostino a collegare definitivamente il peccato originale con la sessualità, attraverso la concupiscenza. A partire dai figli di Adamo ed Eva il peccato originale viene trasmesso all'uomo mediante l'atto sessuale. Tale concezione diverrà generale durante il secolo XII: nella volgarizzazione operata dalla maggioranza dei predicatori, dei confessori e degli autori di trattati morali, questo slittamento arriverà fino all'assimilazione del peccato originale al peccato carnale. L'umanità è stata generata nella colpa, insita in ogni accoppiamento a causa della concupiscenza che inevitabilmente vi si manifesta.

[…] La nuova etica sessuale è, in definitiva, solo la forma più diffusa e spettacolare di un tema storico che il cristianesimo ha ripreso per farlo pesare sull’Occidente: il rifiuto del piacere. […] Il Medioevo (dobbiamo forse vedervi un segno di ‘imbarbarimento’?) ha sempre più nella mira i peccati della carne, li stringe in una rete sempre più fitta di definizioni, divieti e sanzioni. Per correggerli, alcuni esponenti della Chiesa redigono i penitenziali, elenchi di peccati e penitenze in cui aleggia lo spirito dei codici barbarici. I peccati carnali vi occupano il posto di gran lunga maggiore, rispecchiando così gli ideali e i fantasmi dei militanti monastici. Disprezzo del mondo, umiliazione della carne: il modello monastico ha decisamente pesato assai sui costumi e sulle mentalità dell’Occidente.

[…] Anche nella sfera della sessualità è evidente il manifestarsi – almeno agli occhi della Chiesa – di una separazione sociale e culturale fra chierici e laici (nobiltà compresa) da un lato, e fra i due ordini dei chierici e dei cavalieri e quello dei lavoratori – soprattutto contadini – dall’altro. Il disprezzo per i villani [che legittima il dominio “ammantato” dalla promessa della salvezza spirituale] trova dunque alimento anche nel sesso. Sono due le credenze che si diffonderanno durante il Medioevo. Anzitutto la malattia ossessionante e colpevolizzante, la malattia-assillo (come sarà la peste alla metà del secolo XIV), la lebbra, trova la sua origine nella sessualità colpevole. E poi c’è questa fissazione dell’eccesso di spudoratezza sessuale nel mondo degli illitterati, dei poveri, dei contadini. Non è un caso che il servaggio esprima le conseguenze del peccato originale nella società cristiana medievale. Più di ogni altro schiavi della carne, i servi meritano di essere anche schiavi dei signori. Quale miglior barriera poteva essere istituita fra chierici e laici di quella della sessualità? Ai laici il matrimonio e la lussuria, ai chierici la verginità, il celibato e la continenza. Un muro separa la purezza dall’impurità. In una simile deformazione, la parte dominata della società viene presentata come la parte dei deboli, degli abulici, senza ragione, ma anche senza volontà. In quel mondo di guerrieri i villani sono quasi animali, giocattoli alla mercé di cattivi desideri.

sabato 15 gennaio 2011

Chissà cosa saremo

Con questa nuova sezione, Aforismi e Poesie, proveremo ad arrivare laddove non ci è consentito arrivare con i nostri 'mini-saggi'. Sempre accompagnati dalla speranza di arricchire questo piccolo blog per voi.

- Chissà cosa saremo -

Chissà cosa saremo
se fiaccole o macerie
su questo grande altare della vita

Chissà cosa potremo
contro tutto quello che vedemmo
di male fiammeggiare
sulla pelle e negli occhi
del bimbo già uomo
ormai vecchio
nell'affondo del pugnale
nel dolore del sacrificio
inferto dal vivere nel male
che chiamiamo l'umano progredire

Forse saranno i tuoi occhi
il tuo sorriso
l'unico valore al vivere
la grazia illuminante
il bene che è dipinto sul tuo viso
Forse in dono questo io porterò
nell'inevitabile mio viaggio tra le stelle

Ma ora respiro lacrime
invecchio mentre scrivo
Quante volte dovrò morire
per sentirmi ancora vivo

(Lorenzo Giulianini)

domenica 2 gennaio 2011

Charles Bukowski

Un piccolo omaggio a quel "vecchio sporcaccione" di Charles Bukowski, pur consapevole della difficoltà di apprezzarlo appieno in tale sede, ovvero non con la classica lettura instancabile, lunga e appassionante, qual'è quella richiesta dai suoi "raccontacci" e dalle sue poesie (fortunatamente recitate da lui stesso).

[...] Andò a versarsi uno scotch con acqua, lo portò in camera da letto, si tolse la camicia, i calzoni, le scarpe e le calze. Rimase in mutande e andò a letto con il drink. Era mezzogiorno meno un quarto. Niente ambizione, niente talento, niente opportunità. Solo la fortuna gli aveva impedito di finire in strada, ma la fortuna non durava in eterno. Vuotò il bicchiere e si stirò. Prese L'uomo in rivolta di Camus e ne lesse qualche pagina. Camus parlava di angoscia, di terrore e dell'infelicità della condizione umana, ma ne parlava in modo così sereno e fiorito...il suo linguaggio era tale da dare l'impressione che niente sarebbe mai riuscito a scalfire nè lui nè il suo stile. In altre parole, era lo stesso che se tutto fosse andato nel migliore dei modi. Il suo modo di scrivere era quello di un uomo che aveva appena finito di mangiare una grossa bistecca, con contorno di insalata e di patate fritte, accompagnandola con una bottiglia di buon vino francese. Forse l'umanità soffriva, ma lui no di sicuro. Molto saggio da parte sua, ma Henry preferiva qualcuno che urlasse quando il mondo andava a fuoco. (da Grida quando stai bruciando, in Musica per organi caldi)



[...] "Cosa c'è che non va nell'amore, Tony?"
"L'amore è una forma di pregiudizio. Si ama quello di cui ha bisogno, quello che ci fa star bene, quello che ci fa comodo. Come fai a dire che ami una persona, quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il fatto è che non le incontri."
"D'accordo, comunque si tende sempre al meglio."
"Concesso. Ma dobbiamo renderci conto che l'amore non è che il risultato di un incontro casuale. La gente gli da troppa importanza. Per questo motivo una buona scopata è tutt'altro che da disprezzare."
"Ma anche quella è il risultato di un incontro casuale."
"Quì si che hai ragione. Bevi, ne ordino un altro." (da Colpi a vuoto, in op.cit.)



[...] Seguitai a camminare, girai a destra, poi a sinistra, poi ancora avanti. Non sapevo dove stessi andando. Passai davanti a un locale e c'era uno sulla soglia che mi fa:
"Ehi, volete un lavoro?"
Sbirciai dentro e vidi tante file di uomini, in piedi davanti a banconi di legno, con un martello in mano, che davan martellate a delle robe, come delle conchiglie o delle cozze, e spaccavano il guscio e tiravano fuori il buono, e non so che ci facevano, era buio lì dentro. Era come se quegli uomini colpissero se stessi col martello e buttassero via quel che avanzava di loro. Dissi a quell'uomo:
"No, un lavoro non mi serve."
Passai oltre. Avevo il sole in faccia.
Avevo 74 cents.
Il sole m'andava bene. (da Un'amabile storia d'amore, in Storie di ordinaria follia)