domenica 16 dicembre 2012

All'amata Venezia dedica queste righe l'autore

Esattamente due anni fa, per la prima volta in vita mia, mettevo piede a Venezia. Il mio abbigliamento, dato che come mi ripete sempre mia mamma "Là c'è il gelo", era il seguente: cappello di lana blu doppio risvolto, piumino d'oca color oro più grande di me di almeno due taglie per una maggiore copertura termica (sempre mia mamma docet); numero 1 maglietta della salute (doverosamente acrilica), numero 1 maglione in piles che, sommato alla maglia interna, garantiva una discreta dose di prurito, pantaloni di velluto grigi ed un paio di stivali (marroni) da trekking per montagna. Dunque, con questa sobria tenuta, vagamente assomigliante ad un ferrero rocher coi piedi, mi aggiravo per una sconosciuta Venezia. L'impatto fu devastante: "gelo polare" a parte, impiegai quasi 4 ore per trovare Ca' Foscari, dove avevo appuntamento in segreteria per ufficializzare la mia iscrizione all'università. Il labirintico intreccio delle calli veneziane può essere infatti micidiale per chi, come me, era abituato a fare quattro strade dritte per muoversi in città.

Tuttavia, dopo aver superato questa traumatica accoglienza e aver fatto anche la conoscenza di altri simpatici amici come nebbia, neve ed un'umidità geneticamente modificata, la città lagunare cominciò gradualmente a conquistarmi. Anche perché,  non prendetemi per pazzo, Venezia è viva: ti accompagna quando cammini solitario di notte e, passando per i suoi sotoporteghi, fa risuonare l'eco dei tuoi passi; ti sussurra all'orecchio con il pigro ondeggiare dell'acqua dei suoi canali; s'incazza quando la stessa (salubrissima) acqua viene su da tutte le parti e tu, colto di sprovvista, sei senza stivali e ti rendi conto che non hai alternativa al toglierti le scarpe e procedere a mo' di Sampei; ti prende in giro quando (come al mio arrivo) ti fa perdere l'orientamento; ti seduce e ti invita a corteggiarla come una vera e propria signora quando, guardandola dall'alto, puoi abbracciarla tutta con uno sguardo e vederla in tutto il suo decadente splendore. Ma lascio che sia qualcun'altro a descrivere Venezia, ovvero Boris Pasternak.

Tratto da Il salvacondotto:


Quando uscii dalla stazione, con la sua pensilina provinciale in uno stile doganale, qualcosa di liquidamente silenzioso scivolò sotto i miei piedi. Qualcosa di malignamente scuro, come risciacquatura di piatti, e punteggiato da due o tre lustrini di stelle. Si abbassava e si alzava quasi impercettibilmente e somigliava a una tela annerita dal tempo, dentro una cornice oscillante. Non compresi subito che quella immagine di Venezia era Venezia. Che mi trovavo a Venezia, che il mio non era un sogno.
Il canale vicino alla stazione se ne andava, oltrepassato l’angolo, come un intestino cieco, verso le altre meraviglie di quella galleria galleggiante sulla cloaca. Mi affrettai verso il pontile d’imbarco dei vaporetti che lì sostituiscono il tram.
Il vaporetto sudava e ansimava, si asciugava il naso, si strozzava, e su quella stessa impassibile distesa, sulla quale si trascinavano i suoi baffi semisommersi, navigavano in semicerchio, rimanendo piano piano indietro, i palazzi del Canal Grande. Li chiamano palazzi, ma potrebbero esser detti castelli incantati, e non c’è comunque parola che possa dar l’idea di questi tappeti di marmo colorato, che cadono a strapiombo sulla laguna notturna, come sull’arena di un torneo medievale.
C’è un singolare oriente da albero di Natale, l’oriente dei preraffaelliti. C’è l’immagine di una notte stellata secondo la leggenda dell’adorazione dei magi. C’è un eterno bassorilievo natalizio: la superficie di una noce dorata, spruzzata di paraffina blu. Ci sono le parole: chalva e Caldea, magi e magnesio, India e indaco. Fra esse va compreso anche il colore della Venezia notturna e dei suoi riflessi sull’acqua.

[...] Non ricordo di fronte a quale di questi innumerevoli Vendramin, Grimaldi, Cornero, Foscari e Loredani vidi la prima gondola o la prima che mi colpì. Ma eravamo già oltre Rialto. Uscì silenziosamente sul Canal Grande da un rio laterale e, tagliandoci la strada, manovrò per attraccare davanti al portale del palazzo più vicino. Era come se dal cortile l’avessero portata davanti all’ingresso principale, sulla pancia tondeggiante di un’onda sollevatasi lentamente. Dietro rimase una buia fessura, piena di ratti morti e di scorze di anguria danzanti. Davanti si stendeva il deserto lunare dell’ampia via d’acqua. La gondola era femminilmente immensa, come è immenso ciò che è perfetto nella forma e incommensurabile col posto occupato dal corpo nello spazio. La sua chiara alabarda dentellata volava lieve nel cielo, portata in alto dalla nuca tondeggiante dell’onda. Con la stessa levità correva lungo le stelle la sagoma nera del gondoliere. E la cappottina del felze scompariva, come sprofondata nell’acqua, nella sella tra la poppa e la prua.

[...] Avevo pensato che la cosa migliore sarebbe stata per me di alloggiare nel quartiere dell’Accademia. Lì sbarcai. Non ricordo se attraversai il ponte o rimasi sulla riva destra. Ricordo però una minuscola piazzetta, circondata da palazzi come quelli del canale, solo più grigi e severi e con le fondamenta sulla terraferma.
Sulla piazza inondata dalla luna c’era gente che indugiava, passeggiava o se ne stava sdraiata. Non erano in molti, ed era come se la decorassero con i loro corpi in movimento, quasi statici o immobili. Era una sera straordinariamente calma. Una coppia attirò la mia attenzione. Senza guardarsi tra loro e beandosi del reciproco silenzio, tenevano gli occhi fissi sulla riva opposta. Appartenevano probabilmente alla servitù del palazzo e si godevano la serata. Dapprima fui attirato dall’aria posata del cameriere, dai capelli brizzolati tagliati corti, dal grigio della sua giacchetta. Avevano qualcosa di non italiano. Sapevano di settentrione. Poi guardai il suo volto. Mi sembrò di averlo già visto, ma non riuscivo a rammentare dove.
Mi avvicinai, con la valigia in mano, e in un dialetto inesistente, che aveva preso forma in me dopo i miei assidui tentativi di leggere Dante nell’originale, gli dissi che temevo di non trovare un alloggio. Mi ascoltò cortesemente, ci pensò un attimo e domandò qualcosa alla cameriera che gli stava accanto. Quella scosse il capo in segno di diniego. Lui cavò di tasca l’orologio, guardò l’ora, lo richiuse, lo ficcò nel gilet e, sempre con aria meditabonda, con un cenno del capo m’invitò a seguirlo. Svoltammo dalla facciata inondata dalla luna in un vicolo dove era buio pesto.
Ci inoltrammo in un labirinto di vicoletti lastricati, non più larghi dei corridoi di un appartamento. Di tanto in tanto ci facevano salire su brevi ponti di pietra ingobbita. Allora, dai due lati si protendevano verso di noi le sudicie maniche della laguna, in cui l’acqua stagnante era talmente strozzata da sembrare un tappeto persiano arrotolato e cacciato a forza dentro un cassetto storto.

Sui ponti ingobbiti c’imbattevamo in rari passanti e, molto prima che apparisse, l’incalzante ticchettio delle sue scarpe sui lastroni di sasso annunciava l’avvicinarsi d’una veneziana.
In alto, di traverso alle fessure nere come catrame, lungo le quali erravamo, il cielo notturno risplendeva, e tutto sembrava allontanarsi verso chissà dove. Come se lungo tutta la Via Lattea si librasse una lanugine del dente di leone e quasi solo per lasciar filtrare un fascio o due di quella luce in movimento i vicoli si slargassero qua e là, formando piazze e crocicchi. Stupito della strana familiarità del mio accompagnatore, discorrevo con lui nel mio dialetto inesistente e cascavo dal catrame nella lanugine, dalla lanugine nel catrame, cercando con il suo aiuto un posto dove pernottare a poco prezzo.

Ma sulle banchine che davano verso l’aperto, regnavano altri colori e il trambusto subentrava al silenzio. Sui battelli che approdavano e salpavano si affollava il pubblico, e l’acqua nero-oleosa si accendeva di polvere di neve, come marmo frantumato, rompendosi nei mortai dei motori che avanzavano con ardore o si arrestavano bruscamente. Vicino al suo sciabordio ronzavano smaglianti i becchi a gas nelle tende dei fruttivendoli, si muovevano le lingue, si urtavano e  sobbalzavano i frutti nelle balorde colonne di non si sa quali composte poco cotte.
In una delle cucine dei ristoranti accanto alla riva ci diedero un’informazione utile. L’indirizzo indicato ci riconduceva all’inizio del nostro vagabondaggio. Dirigendoci là, ripercorremmo tutta la strada a ritroso. Così, quando la mia guida mi sistemò in uno degli alberghi di Campo Morosini, ebbi la sensazione di aver appena percorso una distanza pari al cielo stellato di Venezia, in direzione opposta al suo movimento. Se mi avessero allora domandato cos’è Venezia, “notti chiare” avrei risposto, “minuscole piazze e gente tranquilla, dall’aspetto stranamente familiare”.

lunedì 12 novembre 2012

A B.


Circa due mesi fa ho acquistato un’agenda. Non che abbia chissà quali impegni tali da giustificare un acquisto del genere: volevo soltanto riscoprire il piacere di scrivere su carta e di poter rileggere le bagatelle filosofiche annotate per me stesso senza dover passare per il freddo monitor del computer. Tuttavia, tornando a pensare sul perché del mio acquisto, mi sono reso conto che c’era qualcos’altro grazie ad un prezioso aiuto esterno (di chi si tratta lo scoprirete fra poco). Eccovi allora le prime due pagine della mia pretiosa agenda.


-        -  Incipit -

Perché ho acquistato quest’agenda? Per sollazzare il mio narcisismo intellettualoide e documentare le tante pose (stereotipate, tra l’altro) che mi fa assumere?
 
Forse la risposta a questa domanda arriverà al termine di questa stessa agenda quando, con finta ma compiaciuta curiosità, potrò sfogliare e riassaporare le giornate scivolate via, le persone incontrate, le impressioni annotate, i piaceri vissuti e, soprattutto, i miei immancabili dubbi e rimpianti.


-       -  L’orologio -


Orologio! impassibile, sinistro, orrido iddio,
il cui dito minaccia e proclama: “Ricorda!
I vibranti Dolori presto avverrà che mordano
come dardi infallibili il tuo cuore restio.

Rapido all’orizzonte il diafano Piacere
sparirà come silfide dietro le quinte; ingoia
ciascun attimo un frusto della povera gioia
che all’uomo sulla terra fu concesso godere;

per tremila seicento volte all’ora il Secondo
ti bisbiglia: Ricorda! ed ecco Adesso già
stride con voce d’ape: Io sono Poco fa,
e t’ho succhiato il sangue col pungiglione immondo!

Souviens-toi! Remember, o prodigo! Memento!
(La mia gola d’acciaio discorre in ogni lingua…)
Sfrutta, pazzo mortale, avanti che s’estingua,
dei labili minuti l’aurato giacimento!

Ricorda che per legge il Tempo ad ogni ruota
vince senza barare e more non accorda.
Il giorno scema e cresce la tenebra; ricorda!
L’abisso ha sempre sete, la clessidra si vuota.

Non molto ancora, e poi la divina Occasione,
e l’augusta Virtù, la tua vergine sposa,
e il Pentimento (ahi, l’ultimo rifugio!), e ogni cosa,
ti dirà: cosa aspetti? Muori, vecchio poltrone!”.

Charles Baudelaire, I fiori del male

lunedì 15 ottobre 2012

De egoismus pt.2


Nell’ultimo intervento abbiamo esaminato il primo di due concetti apparentemente inconciliabili, l’individuo (rappresentato dal grido dell’Unico stirneriano) e, dall’altro lato, la collettività a cui questi, volente o nolente, fa parte. In conclusione alla disamina dello Stirner-pensiero ci siamo però permessi di sollevare un dubbio sulle conclusioni del filosofo, riassumibile con la seguente domanda: le esigenze dell’individuo e le istanze della società sono davvero agli antipodi? Non potrebbe invece esistere un’“area di convergenza” in cui entrambi possano compenetrarsi proficuamente?

Un filosofo convinto di quest’ultima ipotesi è Spinoza. Nella quinta parte della sua celebre Ethica more geometrico demonstrata egli va proprio alla ricerca di una formula geom-et(r)ica che gli permettesse di prefigurare una libera repubblica in cui gli uomini potrebbero vivere ed operare in perfetta sintonia. Ma, ben lungi dall’essere una fredda ricerca geometrica, quella di Spinoza è una riflessione animata da una profonda convinzione. Convinzione ravvisabile in un piccolo dettaglio che, una volta focalizzato, ci schiude il senso dell’Etica: "Sentiamo e sperimentiamo che noi siamo eterni" (scolio alla prop.23, parte quinta). Anziché utilizzare la prima persona Spinoza, ogniqualvolta parla dell’uomo, usa il ‘noi’ perché l’individualità di chi esercita la migliore parte di se stesso, la ragione, è un’individualità che travalica i limiti del proprio corpo per estendersi a tutta l’umanità.

Ora, direte voi, ci risiamo con il solito predicozzo morale secondo cui ognuno di noi dovrebbe disinteressatamente annullarsi in favore degli altri per realizzare un mondo migliore ecc ecc. Tuttavia, se pensate che Spinoza voglia pervenire a questo risultato, siete fuori strada. Lascio allora che sia lo stesso filosofo a convincervi con alcune delle sue inappellabili proposizioni, limitandomi a commentarle brevemente dove necessario.


Parte quarta; prop. 20: "Quanto più uno si sforzi di ricercare il proprio utile, ossia di conservare il proprio essere, e sia in grado di farlo, tanto più è fornito di virtù; e, al contrario, quanto più uno trascuri il proprio utile, ossia trascuri di conservare il proprio essere, tanto più è un debole”.

Da evidenziare è innanzitutto il binomio utile-virtù: Spinoza non vuole dirci che per essere virtuosi dobbiamo liberarci di ogni remora nel ricercare ciò che impulsivamente riteniamo possa esserci utile. La ricerca del mio utile non può mai essere svincolata dall’esercizio della ragione la quale, per sua stessa natura, mi induce a perseguire qualcosa che sia utile allo stesso tempo per me e per gli altri. A questo punto sorge spontanea un’obiezione: guardando allo sfacelo quotidiano ch’è la nostra società (per non parlare della classe politica), Spinoza non si appella forse con troppa fiducia alla capacità dei singoli di perseguire il proprio utile seguendo la ragione e non gli istinti o le passioni?

Certamente Spinoza non nasconde a sé stesso questo gravoso problema. Anzi, si può dire che proprio per questo motivo scrisse l’Etica. Nello scolio della prop.35 della quarta parte (dall’eloquente titolo de La servitù dell’uomo, ovvero la forza delle emozioni) il filosofo olandese scrive:

“Accade tuttavia di rado che gli uomini vivano secondo la guida della ragione; anzi, per lo più sono inclini ad essere invidiosi  gli uni degli altri ed ostili gli uni agli altri. Ciononostante, è difficile che vivano in solitudine, talché è piaciuta a molti la definizione dell’uomo come animale sociale; ed effettivamente le cose stanno in maniera tale che dalla comune società degli uomini traggano molti più vantaggi che danni. Deridano dunque le cose umane, quanto vogliono, i satirici; le detestino i teologi; e i malinconici elogino, quanto più possono, una vita incolta e agreste, e magari ammirino i bruti, per disprezzo degli uomini; tuttavia, faranno pur esperienza, anche loro, di come, aiutandosi gli uni con gli altri, gli uomini possano procurarsi molto di più facilmente ciò di cui hanno bisogno, e di come solo unendo le loro forze possano evitare i pericoli che incombono dappertutto”.


Dunque, ribadisce nel corollario della stessa proposizione Spinoza, “nell’intera natura non si dà alcunché di singolo che sia più utile, ad un uomo, che un uomo che viva secondo la guida della ragione. Infatti, ad un uomo è massimamente utile quanto s’accordi con la sua natura, ossia un altro uomo stesso”. Smentendo nettamente l’homo homini lupus declamato da Hobbes, Spinoza ritiene che l’uomo illuminato dalla ragione rappresenti per l’altro uomo il meglio che possa esserci in natura (“Homo homini deus”) e che la ragione per cui sorse la società civile sia stata non la paura della violenza reciproca, bensì la paura della solitudine. Così Spinoza ci invita a far leva su questa seconda paura per “convertire” gli ignoranti che, perseguendo con ogni mezzo i più bassi scopi, non si rendono conto di danneggiare per primi loro stessi.

Tuttavia, sappiamo molto bene, non c’è peggior sordo di chi non voglia sentire. E Spinoza si rende conto, molto realisticamente, che la strada di questa ‘conversione universale’ degli ignoranti alla ragione è tremendamente in salita, soprattutto perché tanti di questi prepotenti detengono le leve del potere politico. Tant’è che la prop. 70 della quarta parte così recita:

Un uomo libero che viva tra ignoranti cerca d’evitare, per quanto possa, di riceverne favori.

Dimostrazione. Ognuno giudica che cosa sia bene secondo la sua maniera di sentire. Quindi, un ignorante che abbia fatto un favore a qualcuno, lo valuterà secondo la sua maniera di sentire, e si rattristerà se lo vedrà valutato di meno da colui a cui l’abbia recato. Un uomo libero, invece, cerca di legare a sé gli altri per amicizia; e, anziché contraccambiare favori in maniere che gli altri giudichino equivalenti in base alle loro emozioni, cerca di guidare sé e gli altri  secondo il libero giudizio della ragione e di fare solo quanto sappia essere più importante. Quindi, un uomo libero, per non essere in odio agli ignoranti, ma neppure obbedire ai loro appetiti, bensì solo alla ragione, cercherà, per quanto possa, d’evitare di ricevere favori da parte loro.

Scolio. Dico per quanto possa; ché, anche se gli altri siano ignoranti, tuttavia sono pur sempre uomini, e in casi di necessità possono apportare un aiuto umano, del quale niente è più prezioso; e pertanto accade spesso che sia necessario accogliere un favore pur dagli ignoranti, e di conseguenza, in contraccambio, esserne loro grati secondo la sua maniera di sentire. A ciò s’aggiunge che anche nell’evitare favori da parte di altri, si deve avere la cautela di non sembrare di disprezzarli, o di temere per avarizia di doverli ricompensare, perché così, mentre si cerchi d’evitare d’esserne odiati, si passerebbe ad offenderli. Per cui, nell’evitare favori, è da seguire il criterio di quanto sia utile e di quanto onesto”.

mercoledì 5 settembre 2012

De egoismus - pt. 1

Per stemperare la massiccia dose di proto-comunismo platonico propostovi nell’intervento precedente, oggi mi tocca parlarvi di un vero e proprio biscazziere della filosofia: Max Stirner. Strano destino il suo. Nonostante dalla sua unica opera, intitolata appunto L’Unico e la sua proprietà (1844), avessero attinto a piene mani due istituzioni dell’Ottocento come Nietzsche e Dostoevskij, nessuno gli riconobbe il proprio debito intellettuale, abbandonando Stirner ad un lungo isolamento, brevemente interrotto soltanto dalle beffe che di lui se ne fecero Marx ed Engels. A ciò bisogna aggiungere la paradossale investitura ideologica che di Stirner si fece negli ambienti anarco-insurrezionalisti del Novecento. Paradossale perché, sebbene sia innegabile una certa affinità tra le istanze anarchiche e le idee di Stirner, a quest’ultimo non interessò mai dar vita ad un’ideologia o mettersi a capo di qualche scuola di pensiero, preso com’era da quello che Abbagnano definisce il suo “egoismo assoluto. L’individuo – prosegue Abbagnano -, proprio nella sua singolarità, per la quale è unico e irripetibile, è la misura di tutto. Subordinarlo a Dio, all’umanità, allo spirito, a un qualsiasi ideale, sia pure a quello stesso dell’uomo, è impossibile, giacché tutto ciò che è diverso dall’io singolo, ogni realtà che si distingua da esso e gli si contrapponga, è uno spettro, di cui egli finisce per essere schiavo”.

Ma violiamo per un attimo i polverosi sigilli della più forte “polizia filosofica”, ovvero l’indifferenza, ed addentriamoci ne L’Unico e la sua proprietà. Nel capitolo introduttivo, dall’eloquente titolo di Io ho fondato la mia causa sul nulla, Stirner scrive:


Che cosa non dev’essere mai la mia causa! Innanzitutto la buona causa, poi la causa di Dio, la causa dell’umanità, della verità, della libertà, della filantropia, della giustizia; inoltre la causa del mio popolo, del mio principe, della mia patria; infine, addirittura la causa dello spirito e mille altre cause ancora. Soltanto la mia causa non dev’essere mai la mia causa. “Che vergogna l’egoista che pensa soltanto a sé!”.
[…] Ma come stanno le cose per quel che riguarda l’umanità, la cui causa dovremmo far nostra? Forse che la sua causa è quella di qualcun altro? L’umanità serve una causa superiore? No, l’umanità guarda solo a sé, l’umanità vuol far progredire solo l’umanità, l’umanità è a se stessa la propria causa. Per potersi sviluppare, lascia che popoli e individui si logorino al suo servizio, e quando essi hanno realizzato ciò di cui l’umanità aveva bisogno, essa stessa li getta, per tutta riconoscenza, nel letamaio della storia. Non è forse la causa dell’umanità una – causa puramente egoistica?
[…] Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico”.


Sin qui ci siamo limitati a sintetizzare l’esplosiva pars destruens del pensiero stirneriano. Veniamo al suo sviluppo che, molto eufemisticamente, possiamo definire costruens. Nel capitolo L’individualità propria Stirner così ci ammonisce:


Millenni di civiltà hanno oscurato ai vostri occhi ciò che voi siete, vi hanno fatto credere di non essere egoisti, ma di essere invece chiamati a diventare idealisti (‘uomini dabbene’). Scuotetevi di dosso queste idee! Non cercate la libertà che vi deruba di voi stessi con l’’abnegazione’, ma cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga un io onnipotente! O più chiaramente: tornate finalmente a riconoscere voi stessi, riconoscete infine ciò che siete veramente e lasciate correre le vostre aspirazioni ipocrite, la vostra stolta mania di essere qualcos’altro da ciò che siete. Parlo d’ipocrisia perché nonostante tutto voi siete rimasti, per tutti questi millenni, egoisti, ma egoisti addormentati, ingannatori di sé, alienati da sé, eautontimorùmenoi, fustigatori di sé. […] Ma siccome si tratta di un egoismo che non volete confessare neppure a voi stessi, che nascondete a voi stessi, insomma di un egoismo non aperto o manifesto, ma inconsapevole, non è in fondo egoismo, ma schiavitù, servitù, rinnegamento di sé.
[…] E non vi ribellate mai, sebbene vi si intenda sempre in modo diverso da come vorreste voi. No, voi ripetete sempre meccanicamente a voi stessi la domanda che avete sentito porre: ‘A che cosa sono chiamato? Che cosa devo fare?’. Basta che vi poniate queste domande e vi farete dire e ordinare ciò che dovete fare, vi farete prescrivere la vostra vocazione oppure ve la ordinerete e imporrete voi stessi secondo le direttive dello spirito. Ciò comporta, per quanto riguarda la volontà, questo atteggiamento: io voglio ciò che devo”.


Come un vero e proprio ‘demone’, Stirner ci esorta dunque a prenderci ciò che vogliamo, senza prestare attenzione ad alcun tipo di legge/istanza/voce a noi superiore perché un uomo non è ‘chiamato’ a nulla e non ha nessun ‘compito’, nessuna ‘vocazione’, così come una pianta o un fiore non hanno una ‘missione’. […] Io non sono un io accanto ad altri io, bensì l’io esclusivo: io sono unico. Perciò anche i miei bisogni sono unici e pure le mie azioni, insomma tutto di me è unico. E io mi approprio di tutto solo in quanto sono questo io unico, così come agisco e mi sviluppo sono in quanto tale: io non mi sviluppo in quanto uomo e non sviluppo l’uomo, ma, in quanto sono io, sviluppo – me stesso.
Questo è il senso dell’ – unico”.


Sin qui, in soldoni, il pensiero di Stirner. Adesso però vengono i dubbi. Se davvero seguissimo ogni nostro desiderio, che fine faremmo? Suscitiamo questa domanda non per fare uno scontato moralismo, ma proprio partendo dalla prospettiva eminentemente egoistica tanto cara a Stirner. Se qualcosa abbiamo imparato da Freud è stata proprio la necessità di diffidare di noi stessi e di alcuni nostri impulsi che, se assecondati incondizionatamente, ci porterebbero alla distruzione, o per mano nostra o altrui. Ma prima ancora di Freud era stato Hobbes ad impartirci questa lezione col suo celeberrimo homo homini lupus. Abbandonandosi alla cieca istintualità, gli individui non esiterebbero a distruggersi a vicenda, in una vera e propria guerra di tutti contro tutti. Così, ipotizza Hobbes, per evitare una condizione di perenne conflittualità e paura, i singoli uomini stringono tra loro un patto, rinunciano a buona parte delle loro pretese e riconoscono la proprietà altrui, pur di assicurarsi una garanzia reciproca di sopravvivenza: nasce la società.


Sembrerebbe a questo punto che la nostra mini-ricerca sull’egoismo sia destinata ad arenarsi contro gli scogli di un insormontabile aut-aut esistente tra ciò a cui l’individuo aspira e le istanze della società. Tuttavia, come vedremo prossimamente, il contrasto non è così netto come appare. Intanto accontentiamoci di aver compiuto con Stirner un salutare richiamo al nostro sacrosanto diritto di essere egoisti.

domenica 22 luglio 2012

Filosofi al potere

Per terrearse.it

Siamo sinceri: ci aspettavamo tutti molto di più dal governo Monti. Illusi dagli iniziali proclami all’insegna dell’equità (l’unica “equità” sinora riscontrata è stata quella di Equitalia), oltreché dalle tante e importanti riforme annunciate (liberalizzazioni economiche, lotta alla corruzione, tagli alle caste e ai “rimborsi” dei partiti, riforme del lavoro e della giustizia), abbiamo pensato che si potessero finalmente sradicare le lobby che strozzano l’Italia. Purtroppo Monti ed i suoi ministri non possiedono la forza necessaria per riuscire in quest’impresa, e dei loschi figuri che scalpitano alle loro spalle in attesa delle prossime elezioni è inutile parlare.

A nostra parziale discolpa, bisogna però dire che eravamo delle prede facili dell’eccessiva fiducia, per almeno due motivi. Primo: abbiamo creduto che il peggio, ossia i disastri e le figuracce berlusconiane, fosse passato (cosa parzialmente vera, peccato non basti un po’ di sobrietà per risollevare le sorti del nostro Paese). Secondo: ci siamo sentiti rassicurati in partenza dal fatto che la gestione della cosa pubblica veniva affidata ad esperti, ossia ai tecnici. Ma, guardando a quanto fatto sin qui dal governo Monti, viene da chiedersi: la conoscenza è davvero sinonimo di affidabilità? Il sapere comporta automaticamente il saper fare?

Proviamo ad allargare la nostra prospettiva per cercare una risposta. Per il Platone della Repubblica, forse la massima opera filosofica incentrata sulla gestione del potere politico, la suddetta questione non potrebbe neanche essere posta. Egli infatti definisce i sapienti, ossia i  filosofi, come coloro che, amando "una scienza in grado di rivelar loro ciò che è eterno e non errante sotto la vicenda del nascere e del perire" (Repubblica, libro VI), non possono fare a meno di concretizzare i temi delle loro speculazioni, giustizia e verità in primis, pena la caduta in astratti  sofismi. Tuttavia, constatando la derisione che il popolo-volgo è solita riservar loro, Platone così rilevava:

"A meno che o i filosofi non regnino nelle città, o quelli che oggi han nome di re e di sovrani non prendano a nobilmente e acconciamente filosofare, e non vengano a coincidere la forza politica e la filosofia, e i vari tipi che ora tendono separatamente a un dei due campi non ne siano per forza esclusi; a meno che ciò non succeda non avran tregua alcuna dai mali le città, anzi credo neppure il genere umano […]. Ciò appunto è quanto da un pezzo mi rende dubitoso a parlare, vedendo quanto sia paradossale a dirsi: che è infatti arduo il vedere come nessun’altra città, né in privato né in pubblico, potrà mai esser felice" (Rep, libro V).
Sembrerebbe dunque delinearsi in Platone la linea del disimpegno: il filosofo potrebbe accontentarsi di "starsene tranquillo e farsi i fatti suoi, come uno che nella bufera si tragga al riparo sotto un muricciolo da polvere e grandine trasportata dal vento", ma in realtà si tratterebbe di una sconfitta, dato che all’interno di "un reggimento politico adatto, egli stesso avrà maggior incremento, e con i suoi interessi personali salverà anche quelli comuni" (Rep, VI).

Perciò Platone non rinuncia a proporre il suo ideale di uno Stato affidato ai reggitori-filosofi. Consapevole delle difficoltà a cui andrà incontro, egli stesso definisce la sua proposta un’utopia, nel senso, come scrive Francesco Adorno, di "qualcosa che non può avere luogo se non come la presenza di una mancanza; essa si pone così come dover essere, come termine di realizzazione all’infinito, come ricerca sempre aperta, che deve ogni volta rinnovarsi nel quotidiano e faticoso coraggio di essere uomini". Incalzato dai suoi interlocutori su quale sarebbe la forma di governo adeguata al suo progetto, Platone, per bocca del suo daimon Socrate, risponde che nessuna delle forme di governo vigenti sarebbe all’altezza, specialmente la democrazia. Quest’ultima infatti viene definita dal filosofo come "la più bella di tutte le costituzioni; come un abito variopinto e svariato d’ogni sorta di fiori, così questa, svariata d’ogni sorta di costumi, apparirebbe bellissima". Peccato che essa sia strutturalmente destinata a sfociare "nell’insolenza e nell’anarchia, nella dissolutezza e nell’impudenza poiché l’eccesso della libertà in niente altro sembra convertirsi se non nell’eccesso della servitù, per l’individuo e per lo stato" (Rep, VIII).

Arriviamo così al punto più discusso della concezione platonica dello Stato e della società. Quest’ultima, per essere gestita al meglio dalla sapientocrazia dei reggitori-filosofi, dovrebbe  costituirsi secondo un ordine ed una gerarchia inviolabili, pena l’ingovernabilità e la ricaduta nel caos. Ingovernabilità e caos che legittimavano anche il ricorso alla forza, ossia la tirannide. Certo, quella a cui pensava Platone era una tirannide “illuminata” dalle direttive dei filosofi, ma pur sempre di tirannide si trattava. E, se guardiamo anche alle direttive proto-marxiste proposte da Platone, possiamo capire il motivo di questo ricorso all’autorità.

"È necessario che nessuno possegga una sostanza propria, salvo assoluta necessità. Poi che nessuno abbia un’abitazione e una dispensa, a cui non possa avere accesso chiunque lo voglia; e il necessario sostentamento, quanto può abbisognare a campioni di guerra temperati e coraggiosi, lo ricevano secondo un accordo dagli altri cittadini, qual mercede della custodia, tale che in un anno né loro sopravanzi né faccia difetto; che vivano in comune, come accampati, frequentando pasti comuni; oro e argento, dir loro che ne hanno sempre nell’anima uno divino, ricevuto dagli dei, e non hanno nessun bisogno di quello umano, e che non è lecito mescolare e contaminare il possesso del primo con quello dell’oro mortale, poiché molte ed empie cose sono accadute per il denaro corrente del volgo, mentre il metallo che è in loro è incorrotto; ma anzi ad essi soli fra quanti sono nella città non è lecito trattare e toccare oro ed argento, né di andare a star con essi sotto lo stesso tetto, né di metterseli addosso, né di bere da recipienti d’argento o d’oro. E così essi saran salvi, e salveranno la città. Ma quando si acquistassero una propria terra in privato possesso, e case e denari, diverranno amministratori e agricoltori anziché guardiani, e odiosi padroni anziché alleati degli altri cittadini, e passeran tutta la vita a odiare ed essere odiati, a insidiare ed essere insidiati, tenendo assai più e maggiormente i nemici di dentro che quelli di fuori, e correndo ormai allora vicinissimi alla rovina, loro e tutto il resto della città. Per tutte queste ragioni, conclusi, diciamo che così bisogna sian fatti i guardiani, circa le abitazioni e il resto, e questo prescriveremo per legge" (Rep, III).

Certamente, bisogna contestualizzare le rigide direttive platoniche nel periodo storico in cui vennero concepite: un periodo caratterizzato da continue guerre, tensioni interne, carestie ed epidemie e che, dunque, richiedeva un governo saldo ed autoritario. Tuttavia non è forse un caso che l’unica esperienza politica di Platone a fianco dei tiranni siracusani Dioniso I e Dioniso II si rivelò fallimentare, tant’è che il filosofo, sospettato da Dionisio II di complottare contro di lui, fu costretto a fuggire dalla Sicilia nel 361 a.C. Almeno all’epoca non ci si poteva permettere di restare ancorati alla propria “poltrona” politica…



lunedì 25 giugno 2012

A Victor Eremita

“Non ci si apparta dal mondo per fuggirlo, ma per conquistarlo da lontano. I solitari sono virtualmente dei conquistatori. Non si evitano gli altri per farsi dimenticare, ma per farsi valere”, scriveva Cioran. E questo vale a maggior ragione per chi, come Søren Kierkegaard, un po’ per gioco, un po’ per la necessità di nascondersi dalle facili indignazioni dei suoi contemporanei benpensanti, aveva indossato lo pseudonimo filosofico di Victor Eremita. Per chi non ha ancora avuto l’ardire di addentrarsi in quel gioco di specchi qual è Enten - Eller (opera meglio nota col titolo di Aut-Aut), parole come quelle pronunciate da Camus sul filosofo danese suoneranno come una musica irresistibilmente seducente, al pari del Don Giovanni mozartiano tanto ammirato ed esaltato dallo stesso Kierkegaard all’interno della suddetta opera. Così Camus:

“Kierkegaard fa qualche cosa di meglio che scoprire l’assurdo: lo vive. L’uomo che scrive: ‘Il più sicuro dei mutismi non è quello di tacere, ma di parlare’, si accerta, per cominciare, che nessuna verità è assoluta e può rendere soddisfacente un’esistenza impossibile in sé. Don Giovanni della conoscenza, egli rifiuta ogni consolazione, la morale, i principi tranquillizzanti; non si cura di sopire il dolore di quella spina che sente nel cuore, ma lo ridesta, invece, e nella gioia disperata di uno crocifisso, contento di esser tale, costruisce, frammento per frammento, lucidità, rifiuto, commedia, una categoria del demoniaco. […] L’importante non è guarire, ma vivere con i propri mali. Kierkegaard vuole guarire. Guarire è il suo desiderio pazzo, quello che ricorre in tutto il suo diario. Tutto lo sforzo della sua intelligenza è sfuggire l’antinomia della condizione umana, sforzo tanto più disperato, in quanto egli, a lucidi intervalli, ne scorge la vanità, quando ne parla, come se né il timor di Dio né la pietà fossero capaci di dargli la pace”.

A me non resta che lasciarvi nelle mani kierkegaardiane e, più in particolare, ad alcuni pensieri tratti da Διαψάλματα, ad se ipsum.


Preferisco parlare con i bambini, perché di loro si può sperare che diventeranno esseri ragionevoli; ma coloro che lo sono diventati…Buon Dio!


Non ho voglia di nulla. Non ho voglia di cavalcare, è un moto troppo violento; non ho voglia di camminare, è troppo faticoso; non ho voglia di distendermi, perché o dovrei restare in tale posizione, e non ne ho voglia, o dovrei di nuovo alzarmi, e non ne ho voglia nemmeno. Summa summarum: non ho voglia di nulla.


Com'è noto, ci sono insetti che muoiono all’istante della fecondazione. Lo stesso per ogni gioia: il momento del più alto godimento della vita è accompagnato dalla morte.


Solo attraverso il peccato si scorge la salvezza.


La mia melanconia è l’amante più fedele che abbia conosciuto. E che c’è da meravigliarsi se a mia volta l’amo?


Ci sono casi in cui può essere infinitamente triste vedere una persona starsene al mondo tutta sola. Così l’altro giorno vidi una povera fanciulla che se ne andava tutta sola in chiesa per essere cresimata.


Io lamento che la vita non sia come le favole, ove s’ha da combattere contro padri dal cuore di pietra, contro folletti e orchi, ove s’hanno da liberare principesse incantate. Che cosa sono tutti questi nemici presi assieme, di fronte a quelle figure notturne, pallide, esangui, dure a morire, con le quali combatto e alle quali io stesso do vita e sussistenza?


Che succederà? Che riserva il futuro? Non lo so, non presento nulla. Quando un ragno si slancia giù da un punto saldo nei suoi punti conseguenti, innanzi a sé vede sempre uno spazio vuoto dove, nonostante i suoi sforzi, gli è impossibile trovare appoggio. Così per me: innanzi sempre uno spazio vuoto, e quel che mi spinge è un conseguente che sta dietro di me. Questa vita è spaventosamente al rovescio, è insopportabile.


Mi manca insomma la pazienza di vivere. […] Si dice che nostro Signore sazi lo stomaco prima degli occhi, ma non lo posso provare: i miei occhi sono sazi e stanchi di tutto, eppure ho fame.


Mi si domandi tutto quel che si vuole, solo non mi si domandino ragioni.


La vita è diventata per me una bevanda amara, e tuttavia la devo ingerire a gocce, lentamente, contando. 


Non bisogna essere enigmatici solo per gli altri, ma anche per se stessi. Io studio me stesso; quando ne sono stanco, come diversivo mi metto a fumare un sigaro, e penso a chissà che cosa nostro Signore ha voluto propriamente dire con me, o a che cosa da me vuole tirar fuori.


Si lamentino gli altri che questa è un’epoca malvagia; io mi lamento che è meschina, poiché è priva di passione. I pensieri degli uomini sono sottili e fragili come merletti, destano pietà come le merlettaie. I pensieri dei loro cuori sono troppo poveri per essere peccaminosi. Forse per un verme potrebbe essere peccato avere pensieri come questi; non per un uomo, che è creato a immagine di Dio. I loro desideri sono composti e apatici, le loro passioni sonnolente; fanno il loro dovere queste anime mercenarie, ma pure si permettono, come gli ebrei, di taglieggiare un pochino sulla moneta, pensano che se anche nostro Signore tiene un registro ben ordinato, con un po’ d’inganno ce la si può sempre cavare. Questa gente… Puah! Ecco perché la mia anima ritorna sempre al Vecchio Testamento e a Shakespeare. Là almeno si sente che sono uomini quelli che parlano; là si odia, là si ama, s’uccide il proprio nemico, se ne maledice la discendenza per tutte le generazioni, là si pecca!


Così ripartisco il mio tempo: una metà dormo, l’altra metà sogno. Quando dormo, non sogno mai, sarebbe un peccato; poiché dormire è la più alta genialità.


La miglior prova della miseria dell’esistenza è quella che si ricava dalla considerazione della sua magnificenza.


Infame sorte! Invano come una vecchia prostituta tenti d’imbellettare il tuo volto incavato, invano fai chiasso con i tuoi sonagli da buffone. M’annoi! Tutto resta tale e quale, un idem per idem. Nessun mutamento, sempre una rifrittura. Venite sonno e morte, tu non prometti nulla, tu tieni tutto.


Sembro destinato a provare tutti gli stati d’animo possibili, a fare esperienza in tutti i sensi. Ad ogni istante sono come un bimbo che debba imparare a nuotare in mezzo al mare. Grido (l’ho imparato dai greci, dai quali si può imparare ciò che è puramente umano); poiché alla vita ho ben una cinghia, ma non vedo l’asta che mi deve tener su. È un terribile modo di fare l’esperienza.


Quel che i filosofi dicono della realtà spesso è deludente, come quando da un rigattiere si legge su un’insegna la scritta Qui si stira. Se si venisse a far stirare il proprio abito, si resterebbe ingannati, poiché l’insegna è semplicemente in vendita.


Il vero godimento non sta in ciò che si gode, ma nella rappresentazione. Se avessi al mio servizio uno spirito ossequioso che, alla richiesta d’un bicchier d’acqua, mi portasse i più preziosi vini del mondo squisitamente mescolati in una coppa, lo metterei alla porta, fino a quando non imparasse che il mio godimento non sta in ciò che godo, ma nell’ottenere ciò che voglio.


Più innanzi negli anni, quando aprii gli occhi e considerai la realtà, mi misi a ridere, e da allora non ho più smesso. Vidi che il senso della vita era l’avere un impiego, il suo fine diventare consigliere della corte di cassazione; che la fertile passione dell’amore era trovare una fanciulla benestante; che il bene supremo dell’amicizia era l’aiutarsi a vicenda negli imbarazzi finanziari; che la saggezza era quello che pensavano i più; che l’estro era tenere un discorso; che il coraggio era rischiare una multa di dieci ristalleri; che la cordialità era chiedere ‘pranzato bene?’ lasciando la tavola; che il timor di Dio era fare la comunione una volta l’anno. Questo io vidi, e risi.


Son legato in una catena che è fatta d’oscure fantasie, d’angosciosi sogni, d’inquieti pensieri, di paurosi presentimenti, d’inspiegate angosce. Questa catena è ‘molto flessibile, morbida come seta, sopporta la tensione più violenta e non può essere spezzata’.


C’è ancora una prova dell’esistenza di Dio che fin qui è stata trascurata. La dà un servo ne Il cavaliere di Aristofane, vv. 32 sgg.:
Demostene: ‘Quale idolo? Perché, credi agli dei?’
Nicia ‘Si, ci credo’
D: In base a quali prove?
N: Perché sono perseguitato dagli dei. Non ho ragione?
D: M’hai convinto.


Il sole irraggia così bello e vivo nella mia camera, la finestra di quella accanto è aperta; nella strada tutto è tranquillo, è domenica pomeriggio. Sento distintamente un’allodola che in un giardino vicino emette i suoi trilli, di fronte alla finestra dove abita la leggiadra fanciulla. Lontano, da una strada remota, sento i richiami di un venditore di gamberi. L’aria è così calda, eppure la città intiera è come morta... Allora mi rammento della mia giovinezza e del mio primo amore… Allora mi struggevo dal desiderio, ora mi struggo solo dal desiderio del mio primo desiderio… Che cos’è giovinezza? Un sogno. Che cos’è l’amore? Il contenuto del sogno.

giovedì 19 aprile 2012

Dello scrivere breve

La vita accademica è fatta di formalità, responsabilità, scadenze. Fra queste non si può non noverare la tesi di laurea. Chiunque ne ha dovuto scriverne una ha avuto la fortuna di vivere sulla propria pelle una contraddizione irrisolvibile. La scrittura, intesa come sentiero di esplorazione o come un modo per fare ordine dentro e fuori di sé, non si concilia molto bene con imposizioni e necessità a lei eteronome. Lo sapeva bene Kraus, che non a caso ce l'aveva a morte con i giornalisti, colpevoli di aver assassinato la pregnanza artistica della parola scritta con la loro retorica a buon mercato. E lo sapeva altrettanto bene Adorno. Per questo ho deciso di dedicare la mia seconda, per restare in tema, tesi di laurea a loro. E per questo ho deciso di sfruttare questo intervento per ricordare a me stesso qualche "dritta" da non dimenticare mai quando ci si sottopone a quello splendido travaglio-tortura ch'è la scrittura. Dico tortura nel pieno rispetto dell'etimologia latina della parola, ossia il trabàlium o trabàculum, strumento di tortura fatto appunto di travi. Le seguenti riflessioni le potrete trovare in Minima Moralia, da tanti (forse troppi) ritenuto il capolavoro di Adorno.


- Dietro lo specchio -

Prima regola di prudenza dello scrittore: esaminare ogni testo, ogni brano, ogni periodo e chiedersi se il motivo centrale emerge con sufficiente chiarezza. Uno è talmente preso da quello che vuol dire, che si lascia trasportare senza riflettere: è troppo vicino all'intenzione, è troppo "nei suoi pensieri", e dimentica di dire quello che vuole.


Non c'è correzione, per quanto marginale e insignificante, che non valga la pena di effettuare. Di cento correzioni, ognuna può sembrare meschina e pedante; insieme, possono determinare un nuovo livello di testo.


Non essere mai avari nelle cancellature. La lunghezza di un testo non conta, e il timore di non aver scritto abbastanza è puerile. Nulla va ritenuto degno di esistere perché c'è già, perché è già stato scritto. Proposizioni che formulano diversamente lo stesso pensiero, non sono spesso che tentativi di afferrare qualcosa di cui l'autore non è ancora in possesso. In questo caso bisogna scegliere la formulazione migliore ed elaborarla ulteriormente. La tecnica letteraria impone di rinunciare anche a pensieri fecondi, se la costruzione lo richiede. I pensieri soppressi contribuiscono alla sua forza e alla sua ricchezza. Come a tavola, non bisogna inghiottire l'ultimo boccone, o vuotare il bicchiere fino in fondo. Altrimenti ci si rende sospetti di povertà.


Chi vuol evitare i clichés, non deve limitarsi alle singole parole, se non vuol cadere nella civetteria volgare. La grande prosa francese del secolo decimonono era particolarmente sensibile a questo pericolo. La parola singola di rado è banale: anche nella musica il singolo suono non si presta al commercio al minuto. I clichés più detestabili sono combinazioni di parole del genere di quelle infilzate da Karl Kraus: chiaro e tondo; ora e sempre; per la vita e per la morte. In essi, se così si può dire, ristagna il pigro fiume della lingua stantia, mentre lo scrittore, con la precisione dell'espressione, dovrebbe opporre quelle resistenze che sono necessarie perché emerga l'oggetto. E questo non vale solo per singole locuzioni, ma per intere strutture formali. Se un dialettico, per esempio, sottolineasse ogni volta l'inversione del pensiero con un "ma", lo schema letterario confuterebbe l'intenzione antischematica della meditazione.


Diffidare dell'obiezione, sollevata spesso e volentieri, secondo la quale un testo, una formulazione sarebbero "troppo belli". Dietro il rispetto della cosa, o perfino della sofferenza, si nasconde facilmente il rancore contro chi non tollera, nella forma reificata del linguaggio, il segno dell'umiliazione dell'uomo. Il sogno di un'esistenza senza vergogna, che non è più possibile rappresentare come contenuto, custodito dalla passione linguistica: ed è questo sogno che si vorrebbe perfidamente strangolare. Lo scrittore non deve accondiscendere alla distinzione tra espressione bella ed espressione adeguata. Non deve credere al critico premuroso che la formula, né tollerarla presso di sè. Quando gli è riuscito di dire tutto quel che voleva dire, ciò che ha scritto è bello. La bellezza dell'espressione che è fine a se stessa non è "troppo bella", ma ornamentale, artigianale, brutta. Ma chi, col pretesto di santificare tutto alla cosa, rinuncia alla purezza dell'espressione, tradisce anche la cosa.

I testi elaborati come si conviene sono come ragnatale: fitti, concentrici, trasparenti, solidi e ben connessi. Essi attirano a sè tutto ciò che si aggira nei dintorni. Metafore che li attraversano per caso, diventano una preda nutriente. Materiali affluiscono da ogni parte. Per giudicare della solidità di un abbozzo, basta vedere se evoca le citazioni. Il pensiero che ha dischiuso una cellula della realtà, penetra, senza violenza del soggetto, nella cellula accanto. Dimostra di essere in rapporto con l'oggetto quando altri oggetti si cristallizzano intorno ad esso. Nella luce che dirige sul proprio oggetto, altri cominciano a scintillare.

martedì 13 marzo 2012

Uscita di sicurezza

Per Terrearse.it




Non si può certo biasimare Maccio Capatonda: capire l’economia ai tempi della crisi è un’impresa. Neanch’io posso aiutarvi più di tanto; non studio economia, e appena sento parlare di spread, bot, bund o della gettonatissima flessibilità del lavoro inizio a lanciare improperi d’ogni tipo, allo stesso modo di mio nonno che, mentre guardava una partita di calcio, s’incaponiva col fantasista di turno che non passava mai il pallone. Ma al di là di questa simpatica parentesi, dietro questa mia improvvisata escursione negli spietati meccanismi dell’economia capitalistico-monopolistica c’è l’intenzione di suscitare una riflessione che vada oltre i paroloni tecnici propinatici dall’esperto di turno per superare i “singoli incidenti di percorso” dell’odierna economia azionaria. Certo, mi rendo conto che la riflessione di quarant’anni fa possa risultare un po’ ingenuotta o romantica, ma c’è da preoccuparsi se di fronte alla perenne crisi finanziaria, a cui ci siamo passivamente abituati, l’unica soluzione proposta da economisti, politici ed esperti è quella di pompare ancora di più quel circolo vizioso di produzione e consumo che ci ha portato nella situazione attuale. Altrimenti, non resta anche a noi che provare l’IM. Le seguenti considerazioni sono tratte dal Saggio sulla liberazione (Einaudi) che Herbert Marcuse scrisse nel 1969. Per ovvie ragioni di comodità ho isolato quattro punti salienti della sua riflessione: vediamo in cosa consistono e proviamo a commentarli di volta in volta.

1) Marx docet: il problema strutturale del sistema economico

Il capitalismo azionario non è mai stato immune da crisi economiche. L’enorme settore dell’economia che lavora per le “difese” non soltanto grava in maniera sempre più pesante sul contribuente, ma allontana a sua volta la risoluzione delle crisi interne al sistema. Ad esempio, l’assorbimento della disoccupazione e il mantenimento di un soddisfacente margine di profitto richiedono una stimolazione continua della domanda su scala sempre maggiore, acuendo però la moltiplicazione degli sprechi, il deterioramento pianificato, impieghi e servizi stupidi e parassitari. E il più alto tenore di vita, promosso dal crescente settore parassitario dell’economia, accrescerebbe le richieste salariali fino a un livello insopportabile per il capitale.

Punto praticamente inattaccabile: Marcuse ci ha detto, come meglio non avrebbe potuto, che l’attuale sistema economico fa acqua da tutte le parti. Non solo perché è condannato a crescere ad ogni costo, ma soprattutto perché non prevede un piano B in grado di raddrizzare le cose quando vanno male. I rischi di questo sistema poi gravano tutti sulle spalle dei soliti contribuenti, chiamati inoltre ad accollarsi le furbate (ma a loro insaputa!) degli evasori italioti.


2) I voti vanno al chilo: la non-rappresentanza della volontà popolare

Se democrazia vuol dire autogoverno di gente libera, con giustizia per tutti, allora la realizzazione della democrazia dovrebbe presupporre l’abolizione dell’attuale pseudo-democrazia. Nella dinamica del capitalismo azionario la lotta per la democrazia ha da tempo assunto forme antidemocratiche, e nella misura in cui le decisioni democratiche vengono prese in “parlamenti” a tutti i livelli, l’opposizione non potrà essere che extraparlamentare. In altre parole, la democrazia, per come la pensiamo noi, non esiste. Il governo è mantenuto da un complesso di gruppi di pressione e di organizzazioni, ovvero di interessi costituiti all’interno delle stesse istituzioni democratiche e operanti per mezzo di queste. In tal modo, le istituzioni non sono più creazioni di un popolo sovrano. La “rappresentanza” rappresenta la volontà foggiata dalle minoranze che comandano. Ed anche se l’alternativa potrebbe essere un governo di élite, ciò significherebbe soltanto la sostituzione dell’élite attualmente al potere con un’altra; e se quest’ultima dovesse essere la paventata élite intellettuale, non è detto che debba essere meno qualificata e meno minacciosa di quella attuale.

A quanto pare Marcuse conosceva già i signori Moody’s e Standard’s & Poor’s. Sono infatti le loro previsioni, assieme alle inossidabili lobby di potere, che decidono della sorte di un Paese, scoraggiando o incoraggiando i potenziali investitori. Ai governi nazionali non resta dunque che “imbellettarsi” il più possibile per evitare il down rating: ossia la bocciatura sulla salute della propria economia. Ma se lo spazio d’azione della politica è cannibalizzato dall’economia in un simile modo, quanto possono contare i progetti, le intenzioni, i valori di una linea politica rispetto ad un’altra? E soprattutto, quanto può contare la volontà popolare? La risposta ce l’abbiamo sotto agli occhi, e consiste nella sorte del povero popolo greco, stritolato prima dall’incompetenza dei propri governanti, ed ora dai diktat merkeliani.

3) Ma a me che me ne frega a me?: la mancanza di una netta presa di coscienza individuale

Il potere del capitalismo azionario ha soffocato lo sviluppo di una coscienza e un’immaginazione altamente sviluppate; i suoi mass media hanno adattato le facoltà razionali ed emotive del pubblico ai suoi mercati e alla sua politica, e le ha indirizzate alla difesa del proprio dominio. Ne segue che il cambiamento radicale che deve trasformare la società in essere una società libera deve penetrare fino ad alla dimensione “biologica” dell’esistenza: dimensione in cui si affermano i più vitali e imperativi bisogni e soddisfazioni dell’uomo. Fintanto che questi bisogni e soddisfazioni riproducono una vita di servitù, la liberazione presuppone dei cambiamenti in questa dimensione biologica, e cioè in istinti diversi, reazioni diverse del corpo come della mente. Bisogna cominciare a rifiutare le regole del gioco che viene giocato con carte truccate contro di noi, come la vecchia strategia della pazienza e della persuasione, la fiducia nella “buona volontà” dell’establishment, le sue false e immorali comodità, la sua crudele opulenza. Tuttavia si tratta di un’impresa titanica perché la società capitalistica, nata e continuamente alimentatasi sullo sfruttamento, riesce abilmente a persuaderci del fatto che i (suoi) bisogni sociali e quelli individuali siano identici; in questo modo si riproduce incessantemente un adattamento profondamente radicato, ‘organico’, del popolo a una società terribile, ma profittevole. Ma è solo dal superamento di questi limiti che dipende anche la vera realizzazione della democrazia.

È questo forse il punto più controverso. Da un lato infatti non è più così sicuro che le coscienze individuali siano livellate dai media “tradizionali” (leggasi televisione) dato che oggi disponiamo di tanti mezzi in grado di sfuggire a controlli e/o censure dall’alto (internet su tutti). Dall’altro lato però rimane vero che il circolo vizioso della produzione consumistica è ancora perfettamente in azione. L’industria continua infatti a creare, oltre che gli oggetti di consumo, anche i modelli di consumatori di cui ha bisogno, influenzandone i bisogni “biologici” (nel senso marcusiano del termine, ovvero quei bisogni che l’individuo considera fondamentali quando invece non lo sono – giusto per fare un esempio il viaggio in vacanza; l’iphone di 5° generazione; la terza macchina ecc). Inoltre, non è così facile rinunciare a tutte queste belle cose dopo un’intera esistenza passata in loro compagnia. Anzi, la maggioranza di noi è ancora ben lontana dal voler correggere le proprie abitudini.

4) Si lei è bravo, ma che possiamo fare?

L’alternativa possibile al sistema vigente non consiste in una romantica regressione a un precedente stadio di civiltà, bensì in un progredire a uno stadio di civiltà in cui l’uomo avrà imparato a domandarsi per chi e per che cosa organizza la sua società; lo stadio in cui egli controlla e magari addirittura arresta la sua lotta incessante per l’esistenza su scala più vasta, considera ciò che è stato compiuto in secoli e secoli di infelicità e di miseria e di ecatombi, e decide che ciò deve cessare, e che è ora di godere di ciò che ha e di ciò che si può riprodurre e perfezionare con un minimo di lavoro alienato: non già l’arresto o la riduzione del progresso tecnico, ma l’eliminazione di quegli aspetti di esso che perpetuano la soggezione dell’uomo all’apparato e l’intensificazione della lotta per l’esistenza – lavorare di più per potere acquistare più merci che devono essere vendute. Ma che cosa dovranno fare gli uomini in una società libera? La risposta secondo me più pertinente è stata data da una giovane ragazza: per la prima volta in vita nostra, saremo liberi di pensare a ciò che dovremo fare.

La conclusione, inutile dirlo, non risponde alla domanda. È senza dubbio vero, come sostiene Marcuse, che disponiamo di tutti i mezzi necessari per porre fine allo sfruttamento individuale e le prevaricazioni sociali, ma ciò che manca è la volontà condivisa di realizzare questo proposito. E non soltanto nelle intenzioni di chi gestisce il potere, ma anche di chi vi è sottoposto ed è riuscito in qualche modo a ritagliarsi un piccolo “tesoretto” di privilegi e comodità. Certo, è sempre meglio lasciare aperta la porta alla speranza di un cambiamento. Speriamo però che non sia proprio questa speranza a fregarci e a non intaccare lo status quo attuale.

mercoledì 8 febbraio 2012

KKK

Passatevi velocemente un foglio A4 sui polpastrelli delle dita: avrete sperimentato la qualità principale degli aforismi di Karl Kraus.


Poiché la legge proibisce di tenere in casa animali selvaggi e gli animali domestici non mi danno alcuna soddisfazione, preferisco non sposarmi.



L’erotismo è superamento di ostacoli. L’ostacolo più seducente e più popolare è la morale.


Molti desiderano ammazzarmi. Molti desiderano fare un’oretta di chiacchiere con me. Dai primi mi difende la legge.


Il mondo è una prigione dove è preferibile stare in cella di isolamento.


La politica sociale è la disperata decisione di operare i calli di un malato di cancro.


Bisogna leggere due volte tutti gli scrittori, i buoni e i cattivi. Si riconosceranno i primi, si smaschereranno i secondi.


Gli altri lavorano al tavolino e si svagano in società. Io mi svago al tavolino e lavoro in società. Perciò evito la società.


Prima di dover subire la vita, bisognerebbe farsi narcotizzare.


Non il tradimento della morale è da condannare, ma la morale. Essa è in sé ipocrisia. Non il fatto che quelli bevono vino deve essere smascherato, ma che predicano l’acqua. E se uno predica vino, gli si può persino perdonare se beve acqua. È in contraddizione con se stesso, ma fa in modo che nel mondo si beva più vino.


Io e il mio pubblico ci capiamo benissimo: lui non sente ciò che io dico e io non dico ciò che lui vorrebbe sentire.


Si disprezzi la gente che non ha tempo. Si compiangano le persone che non hanno un lavoro. Ma gli uomini che non hanno tempo per lavorare, quelli sono da invidiare!


Spesso è necessario riflettere sul perché siamo allegri; ma sappiamo sempre perché siamo tristi.


L’ortodossia della ragione istupidisce l’umanità più di qualunque religione.


Cultura è quella cosa che i più ricevono, molti trasmettono e pochi hanno.

lunedì 16 gennaio 2012

Per la serie: "quando 'ccè vò 'ccè vò"

Sìore e sìori, sua eccellenza Giorgio Baffo.


La Felicità


Che i diga pur sti gran filosofoni,

che la felicità sta in la virtù,

che la consiste in no bramar de più

Anca se gabbiè ‘l cul tutto tacconi;

che no bisogna scuotterse ai spentoni,

che gnente no ghe xe fuora de nu,

che s’anca el mondo va col culo in su,

s’ha da essere Dïogenoni e Zenoni.

Opinion le xe tutte dite a caso,

Una no credo ghe ne sia de bona,

Lo sa ben tutti quei ga bon naso.

Per mi sostento in fazza a ogni persona,

Perché mo son del fatto persuaso,

che la felicità staga in la mona.