Quello di
cui mi accingo a parlarvi è ben più che un disco: è un prezioso
documento di una cerimonia di esaltazione dell'esistente, di un rito
di pura gioia musicale a cui ho preso parte nella sera di martedì 20
ottobre 2015. Quella sera, presso il Centro Culturale Candiani di
Mestre, l'ottetto di Cristiano Calcagnile tenne uno strepitoso
concerto, dal quale nacque proprio il disco ''Multikulti Cherry On''
(Caligola Records).
Non so
neanch'io perché ho atteso così tanto prima di scrivere queste
righe. Forse perché adesso più che mai sento il bisogno di
ringraziare Cristiano, col quale ho condiviso alcuni momenti
importanti nella mia formazione musicale. Più che un professore,
avevo la sensazione di avere davanti un fratello maggiore, una
persona con la quale è difficile non entrare in sintonia. L'esempio di Cristiano mi ha confermato che essere un musicista non vuol dire intraprendere una professione, bensì seguire una missione. Prima di dedicare la
propria esistenza alla musica non soltanto bisogna essere pronti ad affrontare
tantissime difficoltà, ma bisogna avere qualcosa di importante da
trasmettere agli altri. Il musicista non deve limitarsi ad essere un ottimo strumentista, deve lasciare una traccia di sé in
chi lo ascolta e dargli un buon motivo per andare avanti nella sua
esistenza. E l'unico modo per riuscire in questo è ''amare
profondamente quello che si fa. Nella vita bisogna assolutamente
amare qualcosa. È il solo mezzo per sfuggire alla routine
quotidiana. La musica è ideale per questo scopo. Noi tutti abbiamo
bisogno della musica. La musica spazza via la polvere dalla vita di
tutti i giorni'' (Art Blakey).
Quanto scritto sinora potrebbe sembrarvi una divagazione personale, anche un po' retorica, invece è strettamente funzionale all'ascolto del disco.
''Multikulti Cherry On'' è infatti lo specchio fedele dell'approccio
alla musica e alla vita da parte di Calcagnile. A tal proposito
emblematica è la figura a cui il progetto è dedicato e ispirato: il
trombettista e polistrumentista Don Cherry, uno dei personaggi più
affascinanti quanto sottovalutati nella storia del jazz. Su di lui
Calcagnile scrive nelle note di copertina:
''Don Cherry
ha le fattezze di un folletto africano. […] Imprendibile e
solitario, ma aggregatore di spiriti curiosi ed inquieti. Un
cantastorie autentico e ispirato, avulso dallo ''star system''
nonostante la sua grande caratura ed allo stesso tempo molto
eccentrico. […] In un periodo di importanti sconvolgimenti sociali
ed artistici, questo geniale musicista ha percorso e segnato sentieri
capaci di creare nuove relazioni tra le culture e le etnie di ogni
angolo del pianeta, alla ricerca di una dimensione universale e
ritualistica della musica. Il nostro lavoro vuole riappropriarsi di
quello spazio, di quella forma (mentis) in cui è possibile agire e
dialogare, essere complici o autonomi, sviluppare o interrompere un
processo musicale, conferendo a quella scelta la forza della
complicità e della sua determinazione. In sostanza essere liberi di
applicare il proprio sentire, di dare senso e vita alla musica
nell'istante e nel suo divenire''.
Tra i temi
indicati da Calcagnile come presupposto di questo disco, a mio avviso
quello più importante consiste nella riappropriazione della funzione
rituale della musica. In un periodo come quello attuale, in cui la
musica è sì sempre più presente nella nostra quotidianità, ma
solo come sottofondo ''usa e getta'', come riempitivo illusorio del
tremendo deserto sociale e culturale da cui siamo circondati,
dobbiamo urgentemente recuperarne e proteggerne la dimensione
''viva'' e collettiva. Tutte le culture, tranne quella occidentale,
hanno compreso che con la musica l'uomo può non soltanto ''ammazzare
il tempo'', bensì esaltarlo, viverlo come meglio non potrebbe poiché
solo la musica ci consente di entare in contatto con la nostra
dimensione spirituale e di riscoprire energie nascoste nel nostro
profondo. Basterà citare la credenza della cultura indiana secondo
la quale il dio Brahman ha creato l'esistente attraverso un
canto, scuotendo il nulla cosmico attraverso la propagazione del suo
inno. La musica, nella cultura indù, è perciò un mezzo per
rimettersi in contatto con il divino, per ringraziarlo e soddisfare
''la sete di suono che le divinità hanno e per le quali gli è
assolutamente necessaria l'esistenza dell'uomo'' (Schneider).
La stessa
atmosfera di unione spirituale pervade ''Multikulti Cherry On''.
L'improvvisazione collettiva che apre il disco, Cherry On,
apre le danze del rito di ringraziamento. Anche nei momenti più
concitati l'identità sonora di ciascun musicista rimane ben
distinguibile, producendo così un impasto collettivo coeso ed
omogeneo. Walk The Mountain scorre ironica e squillante come la tromba di Mitelli
giustamente in primo piano. L'improvvisazione di Nino Locatelli al
sax alto accresce il pathos e l'energia collettiva, assicurata
comunque dall'irrequieta batteria di Calcagnile e dal sontuoso
contrabbasso di Evangelista, a cui fa da perfetto contraltare il
vibrafono di Mirra con le sue note lunghe e distensive.
Segue una
lunga suite, East Suite, in cui veniamo introdotti nel lato
più misterioso ed esotico della musica di Cherry. Il violino di
Paolo Botti riesce immediatamente a creare quest'atmosfera onirica,
ben assistito dalle percussioni di Dudu Kouaté (affiancato dal
''capo stregone'' Calcagnile). Ricordo di essere stato completamente
catturato durante l'esecuzione dal vivo di questa suite. Ad
accrescere l'attrattiva di quella musica su di me era la possibilità
di scorgere, negli sguardi di tutti i musicisti coinvolti, la volontà
di raggiungere un obiettivo: costruire assieme quell'atmosfera
onirica, senza mai spiccare o prevaricarsi a vicenda.
Dopo il
minuto 7, la voce collettiva dell'ensemble si dirada e ne inizia ad
emergere il vibrafono di Mirra che lancia la melodia, a cui subito si
uniscono gli strumenti a fiato. L'impatto emotivo di quel momento fu
fortissimo. Segue una violenta improvvisazione collettiva, ed il
resto della suite in cui emergono i solisti sul ritmo africaneggiante
sostenuto da Calcagnile, Evangelista e Kouaté. Particolarmente
suggestivo è lo spazio lasciato al banjo di Botti e alle percussioni
di Kouaté: segno questo di una voglia di rischiare con combinazioni
musicali più intimistiche, senza affidarsi esclusivamente alla
potenza collettiva dell'ensemble. Segue l'ultima parte
dell'East Suite, in cui emerge l'importanza della melodia e
della semplicità della musica di Cherry. La semplicità di Cherry
non è mai sinonimo di banalità, bensì di volontà di assecondare
il movimento e la danza. Questo elemento è spesso sottovalutato o
snobbato da tanti jazzisti contemporanei. Per smontare questo
''complesso'' mi basterà citare il pensiero di Ed Blackwell,
eccezionale batterista e collaboratore in tantissimi progetti di
Cherry. Così Blackwell: ''L'obiettivo principale della musica deve
essere far ballare. Quando suono immagino che ci sia una ballerina
davanti a me che debba ballare ciò che suono. Il requisito
essenziale per essere un buon batterista è saper ballare –
dovrebbe essere questa la prima cosa che un batterista dovrebbe
imparare, ancor prima di imparare a suonare il suo strumento''.
Arriviamo
così a Communion Suite, risultato dell'unione di alcuni brani
a firma di Cherry (Complete communion, Infant Happiness
e Symphony for Improvisers) con altri temi di Dewey Redman
(Dewey's Tune) e Ornette Coleman (Happy House). È
incredibile come tutti questi musicisti, spesso archiviati
superficialmente con l'ambigua etichetta di ''free jazz'' fossero
invece a stretto contatto con le radici più profonde della musica
afroamericana, in questo caso il blues. Ed è ancor più
impressionante la capacità di Calcagnile & Co. di sintonizzarsi
e ridare vita a quello spirito originario del jazz, meglio di tanti
loro colleghi statunitensi. Colpisce inoltre la coesione generale
nelle improvvisazioni collettive e l'estrema unitarietà delle
improvvisazioni solistiche (Mirra, Falascone, Locatelli). Arriviamo
così alla conclusione della suite con il tema di Symphony for
Improvisers che l'ensemble enuncia a più riprese con uno
straordinario crescendo di dinamica fino ad sfociare in un
liberatorio grido di gioia che piano piano si riduce in una
delicatissima ninna nanna.
Nella Moguto Suite trova spazio nuovamente la cifra ''multikultistica'' della musica di Cherry. Sempre più prezioso è il lavoro di Kouaté, stavolta al canto, per lanciarci in un vero e proprio viaggio attraverso culture e mondi lontani. Sotto di lui si muove il vibrafono di Mirra ed il resto dell'ensemble con sinuose e solenni risposte collettive. L'enunciazione del tema avviene nuovamente per addensamento: prima Botti, segue Falascone e poi tutto il resto dell'ensemble in un crescendo emotivo mozzafiato. In Togo spicca l'improvvisazione di Mitelli, magistralmente incitata dal lavoro percussivo di Calcagnile e Kouaté. Nel momento dell'immancabile improvvisazione solistica della batteria, come si rispetti in ogni brano firmato da Blackwell, Calcagnile da' il meglio di sé, percuotendo i tamburi al massimo della sua forza espressiva. Il suono di Calcagnile va dritto alla pancia di chi ascolta, è impossibile non venirne catturati ed estasiati. Così come nelle Upanishad dove al tamburo viene attribuito un particolare valore magico, lo stesso avviene per la batteria di Calcagnile: ''vac, la parola, una volta sfuggita agli dèi, si rifugiò negli alberi e la sua voce contina a risuonare negli strumenti musicali di legno. […] Questi tamburi o alberi racchiudono la voce degli antenati; ma queste voci possono verificarsi solo quando l'uomo batte il tamburo'' (M. Schneider, La musica primitiva, Adelphi 1992, p. 81).
La
conclusione perfetta del disco è affidata a Malinyè, con la calda voce e lo xalam di
Kouatè, che segna la fine (provvisoria) di questo viaggio musicale,
come il perfetto risveglio da un disco da assumere periodicamente,
come un farmaco indispensabile per la propria salute e felicità.
Nessun commento:
Posta un commento