Doveva abbattersi sul mondo una
pandemia per tornare a scrivere sulle oscure pagine di
questo blog. Tuttavia questi quattro anni di assenza non erano stati
programmati: essendo io fatalista, o meglio destinista, credo che
qualunque cosa ci succeda abbia una sua motivazione, spesso per noi
incomprensibile. O forse questo maledetto COVID-19 doveva arrivare
per indurci a riflettere sulle nostre miserande esistenze e per farci
capire che noi, se pur circondati dagli agi dell'onnipresente tecnica
e dell'onnipotente scienza, siamo niente di più che miseri mortali,
aggrappati alla vita da un sottile filo invisibile.
Messo da parte il
doveroso pippotto pseudofilosofico/ batteriologico, veniamo al quod
di questo mio intervento: parlarvi del nuovo disco di Francesco Cusa,
già apparso sulle pagine di questo blog con il suo libro di aforismi
e freddure ''Ridetti e Contraddetti''. Oggi parliamo di ''Giano
Bifronte'', doppio cd inciso dal nostro con il suo Trio (Gianni
Lenoci, piano; Ferdinando Romano, contrabbasso; feat. Giovanni
Benvenuti, tenor sax) e con il camaleontico progetto degli
''Assassins'' (attualmente Valeria Sturba, violino, theremin,
electronics; ed i già citati Romano e Benvenuti).
Innanzitutto bisogna
notare l'ardire di Cusa nel pubblicare un doppio cd con le stesse
composizioni. Quella che potrebbe sembrare una scomessa ad alto tasso
di fallimento, si rivela vincente: Cusa dimostra la futilità di
accostare al jazz dei nostri giorni il concetto stantìo di
''composizione'': la ragion d'essere della musica che noi amiamo è
infatti l'interpretazione personale ed il poter ammirare l'interplay
tra i musicisti, espostisi a noi senza alcuna ''scorciatoia''
annotata su carta. Questi due dischi, pur contenendo le stesse
composizioni, sono letteralmente agli antipodi tra loro in quanto ad
atmosfere sonore e direzioni improvvisative.
Iniziamo con il
disco del FCTrio.
''Antropophagy'' e
''Cospirology'' prendono avvio da due temi ''beboppari/tristaniani''
di Cusa, che ben presto si sgretolano, inoltrandosi negli abissi
della libera improvvisazione. Lenoci e Benvenuti eseguono
impassibilmente i temi all'unisono. Le loro voci procedono a
braccetto ma sono discordanti: proprio come il doppio sguardo del dio
Giano – uno rivolto verso il passato e l'altro verso il futuro -,
essi seguono due vie diverse ma convergono nella stessa meta. Lo stacco che
prelude all'improvvisazione in ''Antropophagy'' è magistrale:
improvvisamente veniamo catapultati in un groove ossessivo alla
Chicago Underground, su cui Benvenuti si mette in mostra,
degno del miglior Chris Potter. Ben presto l'attenzione delle mie
orecchie viene attirata dal pianoforte: Lenoci centellina i suoi
interventi e tocchi; spesso si incaglia su poche note, creando
un'atmosfera solenne ed ipnotica (non riesco più ad estirpare dalla
mia mente quell'intervallo di seconda minore ascendente).
Con questo
accorgimento che potremmo definire ''prosciugamento zen'', Lenoci ci
inchioda a seguirlo a qualsiasi costo: ad ogni sua minima aggiunta
melodica o modifica ritmica sentiamo mancarci la terra da sotto i
piedi e restiamo in attesa di ogni sua indicazione sulla prossima
direzione da prendere.
Lenoci ha la
capacità di condensare nel suo fraseggio la tradizione eurocolta (a
volte sembra di essere nella Vienna di inizio Novecento dinanzi ad
una sonatina di pianoforte) col linguaggio afroamericano (inteso non
semplicemente come ''jiezz'', ma anche all'avanguardia statunitense
di John Cage e Morton Feldman). Per chiarire meglio cosa avverto
azzardo un confronto: ascoltare Lenoci in azione ricrea in me la
stessa sensazione che ho avuto dinanzi ai dipinti di Mark Rothko.
Così come quest'ultimo aveva rinunciato a qualsiasi tipo di forma,
struttura e convenzione preesistente, scegliendo di aggrapparsi al
colore come unico e potentissimo mezzo di comunicazione con chi
guardava le sue tele, Lenoci si aggrappa unicamente al suono, inteso
nella sua più assoluta purezza ed immediatezza. Un suono privo di
orpelli e tecnicismi, a primo impatto crudo e screziato, ma che
rivela una profonda riflessione e meditazione perchè affonda le sue
radici nel silezio e nell'assenza di schemi e di materia.

Alle spalle di
Lenoci e Benvenuti si muove una macchina ritmica impeccabile: Cusa
sgattaiola suonando i cerchi dei tamburi, accresce la tensione con
lunghe pause inaspettate, riemerge con fragranti esplosioni dei
piatti; Romano, dal canto suo, alterna frasi ritmiche spezzate e
perentorie, assicurando a tutto il gruppo la ''terra'' armonica e
ritmica su cui muoversi a piacimento.
In particolare il
dialogo/duello che si instaura tra Cusa e Lenoci è di rara bellezza:
i due si aspettano e si studiano, lasciano riecheggiare nella loro
memoria le idee dell'altro ma senza fretta: proprio quando sembrano
disperdersi nel mare magnum dell'improvvisazione collettiva, le fanno
riemergere trasfigurate, rimasticate ed arricchite.
L'ultima parte del
disco porta avanti questo schema di alternanza tra i pieni
melodico/ritmici dei temi ''boppari'' con gli svuotamenti zen
post-tematici. Da segnalare, nell'improvvisazione in
''Pharmacology'', un momento di grande intensità: Lenoci percuote le
corde del suo pianoforte, stoppandole lievemente con la mano per poi
abbbassare il pedale della risonanza: ne viene fuori un eco sommesso
che sembra provenire dall'abisso del nostro inconscio.
Nel
secondo disco l'atmosfera cambia drasticamente: merito della new
entry e polistrumentista Valeria Sturba (violino, theremin, voce,
electronics). Le improvvisazioni di Sturba riservano sempre nuove
sorprese e spiazzano anche chi è abituato all'originalità dei suoi
progetti musicali (su tutti il duo ''OoopopoiooO''
con Vincenzo Vasi).
La Sturba spariglia le carte e gli equilibri consolidati nel trio
Cusa-Romano-Benvenuti, diventando il perno del gruppo. Le libere
improvvisazioni che nel precedente disco si nutrivano di silenzi,
attese e spiritualità, adesso si fanno più frenetiche ed acide, con
sonorità elettriche ed oserei dire quasi rock psichedeliche.
Da segnalare, in
particolare, un momento sospeso tra l'ironico ed il terrorizzante in
''Dr. Akagi'': Sturba esegue in solo la melodia del tema con
un'interpretazione che mi ha riportato alla mente il tema di
''Rosemary's Baby'' (firmato da Krzysztof
Komeda).
Altra
segnalazione da fare sull'abilità di Sturba – se mai ce ne fosse
bisogno - è l'intro vocale in ''Pharmacology'', dove la sua voce,
grazie al sapiente uso della loop station, riesce a costruire un
fitto tappeto sonoro melodico e armonico da cui prende avvio il
brano.
Dopo
aver ascoltato questo disco non si può fare a meno di pensare a cosa
altro avrebbe potuto sfornare il sodalizio tra Cusa e Lenoci,
tristemente scomparso il 30 settembre 2019. A me resta il rimpianto
di non aver potuto conoscere di persona il pianista pugliese,
nonostante fosse venuto di recente a suonare a Venezia proprio con il
''Meister'' Cusa. Perciò non mi resta che congedarvi con alcune
bellissime parole dedicategli dal batterista catanese dalle pagine di
''Musica Jazz'' e da una poesia dello stesso Cusa, contenuta nella
raccolta ''Canti Strozzati''.
''Lo
scopo dell'artista è quello di generare costantemente nuove utopie.
Per i veri poeti, profeti e veggenti l'accesso alla mitologia non
passa attraverso le categorie della scienza. Gianni era uno di essi:
conservava dell'approccio razionale la necessità metodologica che
traduceva poi in téchne,
ossia in quel misto di sapienza, creatività e tecnica funzionali
alla sua (nietzschiana) volontà di potenza. In realtà egli
continuerà a risuonare perché,
paradossalmente, la deflagrazione muta della sua scomparsa si sta
rivelando immane vibrazione sonora, e il suo essere stato
''inaudito'' in vita, nel senso più profondo della parola, ossia di
''non ascoltato prima'', diviene densità e nucleo di valori
archetipici e, dunque, in larga parte invisibili''.
Fiori di Maggio
Me ne andrò
Come se ne vanno
tutti
Nel silenzio della
vita
Che ristagna nei
cuori
Di chi rimane.
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