Pur rendendomi conto che potrei tedìarvi con la mia piccola crociata per la giustizia, intesa non come un'astratta entità di cui riempirsi la bocca ma un vero e proprio modus vivendi, proseguo imperterrito lungo questa direzione. Ed una naturale tappa d'approdo per questa mia ricerca non poteva che essere la figura di Socrate: un uomo che ha accettato un'ingiusta morte per la sua fiducia nella giustizia terrena ed ultraterrena. Il testo a cui faremo riferimento sarà ovviamente l' "Apologia di Socrate" scritto da Platone, il più illustre e fedele seguace di Socrate.
Ma per comprendere fino in fondo la radicalità del comportamento di Socrate è necessario prima contestualizzare le vicende: siamo nel gennaio del 399 a.C. ad Atene. Socrate viene portato in tribunale da Melèto, Anito e Licòne, rispettivamente poeta, politico ed oratore che erano stati messi in ridicolo da Socrate per la loro vanità e per la dilagante corruzione dei loro costumi. Le ragioni degli accusanti erano del tutto generiche e pretestuose: Socrate veniva accusato di aver "indagato con animo empio le cose del cielo e della terra; di corrompere i giovani e di non credere negli dei ai quali credeva la città, ma in nuove divinità demoniache".
Ma le vere ragioni per cui Socrate venne accusato, e condannato, erano da rintracciare nella nascente democrazia ateniese (figlia di una classe dirigente già allora in preda alla corruzione e al malaffare), che aveva bisogno di sbarazzarsi di un individuo che per le sue capacità dialettiche ed oratorie e per il suo modello di vita improntato sulla giustizia, sulla povertà e sulla rettitudine rappresentava una minaccia, dato che poteva sommuovere l'opinione popolare ateniese. Ma, bando alle mie ciance, lasciamo che sia Socrate in persona a parlarci e ad insegnarci cos'è la giustizia, perchè egli ha accettato la sua condanna a morte e perchè un uomo giusto non deve temerla (come sempre, integrazioni e commenti sono posti tra parentesi quadre).
- La difesa di Socrate -
"Se qualcuno mi dicesse: - Ma non ti vergogni, o Socrate, d'esserti dato un'occupazione per la quale ora ti sei messo a rischio di morire? - io così risponderei a buon diritto: - Hai torto, amico, se stimi che un uomo di qualche valore debba tenere in conto la vita e la morte. Egli nelle sue azioni deve unicamente considerare se ciò che fa sia giusto o ingiusto e se si comporta da uomo onesto o da malvagio. Secondo il tuo ragionamento, sarebbero da stimare poco quei semidei e tutti gli altri che sono morti davanti a Troia. [...] Ed ora che Dio mi ha assegnato un posto di combattimento, così almeno io credo di dovere interpretare il suo volere, posto di combattimento che è quello di vivere filosofando [il "vivere filosofando" è il vivere secondo una disciplina che fa della filosofia non la ricerca di un sapere astratto, ma una pratica morale che è armonia di pensiero e di azione], esaminando me e gli altri, sarebbe veramente cosa grave se io, per paura della morte o d'altro, disertassi il campo [Socrate ha un senso profondamente religioso della vita, che gli faceva riguardare la personalità di ciascuno come inserita in fini etici superiori dell'umanità e la vita tutta come dovere, al quale non è lecito sottrarsi. Per questo non mirava a sovvertire le leggi o lo Stato, bensì a sollecitare i suoi concittadini a non prendersi cura delle ricchezze più che dell'anima e della virtù].
[...] Giacché, o Ateniesi, il temere la morte altro non è che essere sapienti senza esserlo, cioè a dire credere di sapere ciò che si ignora; poichè nessuno sa se la morte, che l'uomo teme come se conoscesse già che il maggiore di tutti i mali, non sia invece per essere il più gran bene. E non è la più vituperevole ignoranza quella che consiste nel credere di sapere ciò che non si sa? [...] Ma una cosa so di certo: che il fare ingiustizia e disobbedire a un nostro superiore, sia esso Dio o uomo, è cosa cattiva e vergognosa. Giammai dunque io temerò nè fuggirò quello che non so se sia un bene, ma piuttosto il male che so essere tale".
- Socrate è condannato a morte -
"Forse voi pensate, o Ateniesi, che sono stato condannato per mancanza di quei tali abili discorsi con i quali avrei potuto persuadervi se io avessi creduto che era necessario dire e far di tutto pur di scampare alla condanna. Niente affatto! Ciò che mi è venuto a mancare non sono stati gli argomenti, bensì l'audacia e l'impudenza e la volontà di non dire cose che vi sarebbero state gradevolissime a udire, piangendo e lamentandomi e facendo altre cose indegne di me, ma alle quali altri vi avevano abituati. Non mi pento di essermi difeso così; anzi preferisco assai più volentieri essermi così difeso, e morire, che difendermi in quell'altro modo, e vivere.
[...] Ma considerate bene, o Ateniesi, che il difficile non è evitare la morte quanto piuttosto evitare la malvagità, che ci viene incontro più veloce della morte [è più facile evitare la morte che la malvagità, poichè debole e vile è l'animo dell'uomo dinanzi agli istinti e le passioni terrene, fonte di conflitti e guerre]. Ed ora io, come tardo e vecchio, sono stato raggiunto da quella che è più tarda; i miei accusatori, invece, come più gagliardi e veloci, da quella che è più veloce, la malvagità. Ed ora io me ne vado da qui condannato da voi a morire; costoro invece condannati dalla verità ad essere malvagi e ingiusti [si dice che gli accusatori di Socrate siano morti di morte violenta. Era radicata nei Greci la convinzione che il male esige in questa vita una riparazione che può essere estesa anche alle discendenze di coloro che commisero la malvagità]. Io accetto la mia pena, questi la loro. Doveva essere così, e penso che così sia bene.
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