Pochi pensatori riescono ad arrivarti nel profondo, a farti sussultare, a darti la paradossale impressione di condividere con te esperienze, sofferenze e riflessioni come Arthur Schopenhauer. Perdonate la presentazione forse un pò troppo intimistica ma è questo quello che provo leggendo alcune sue opere. Cercherò di condividere con voi queste mie impressioni, proponendomi stavolta di riuscire ad approfondire maggiormente la riflessione, sperando, come sempre, di non annoiarvi. Lo scritto a cui faremo riferimento è il terzo libro de "Il mondo come volontà e rappresentazione". Questo intervento sarà focalizzato sull'ottima introduzione alla filosofia schopenahueriana di Rinaldo Manfredi (sulla quale mi sono permesso di fare qualche piccola modifica); nel prossimo entreremo invece nel vivo dell'opera discutendo su una forma d'arte particolarmente rivelatrice secondo Schopenhauer: la musica.
Schopenhauer ebbe fin dall’adolescenza una straordinaria sensibilità per l’aspetto doloroso della vita. Il suo pensiero doveva trovare una giustificazione di questa realtà e delle difficoltà che essa ci riserva. Punto di partenza della sua riflessione è la distinzione kantiana fra realtà fenomenica e cosa in sé o noumeno. Per Schopenhauer, Kant non poteva legittimare questa distinzione poiché il mondo è sempre e comunque oggetto per un soggetto. Tuttavia, l'uomo non può essere considerato soltanto come pura conoscenza: è qualcosa di ben più profondo. C'è infatti dell'altro oltre alle categorie attraverso le quali conosciamo la realtà: l'azione e la volontà. E' in essa che noi sentiamo di essere non solo soggetti di conoscenza, ma anche centri di attività, capaci di patire, di desiderare e tendere al volere.
Secondo Schopenhauer, questa volontà non è propria solo dell'uomo ma è in tutte le cose. Volontà è nel cristallo che si forma, nella pietra che cade, nel fiore che nasce e negli animali. La volontà è l’in-sé del mondo, che si presenta come un principio irrazionale sul quale si apre successivamente la conoscenza. La volontà è un tendere continuo, bisogno sempre rinascente. Essa genera però nell'uomo il dolore, dato che soltanto noi, essendo dotati di ragione, possiamo renderci conto di essa e del circolo vizioso in cui stringe inesorabilmente la nostra esistenza. La felicità per Schopenhauer [che abbiamo già preso in considerazione qualche tempo fa], non può che essere sfuggente e momentanea, consistendo in quel rapido senso di soddisfazione di un desiderio prima che possano nascerne in noi degli altri. Se la volontà non riprende la sua via nasce la noia. Nessuno potrebbe durare a lungo nella descrizione di uno stato soddisfatto e felice senza riuscire noioso. La vita oscilla fra il dolore e la noia. Di qui il senso di oppressione e di fatica che ci accompagna nella vita. E’ sempre l’unica volontà che strazia se stessa. L’esistenza è un peccato che tutti dobbiamo scontare. Se tale è la natura del destino di ogni vivente, è necessario trovare la via che porti alla liberazione. Per questo la filosofia non dovrebbe mai formulare dei precetti astratti ma rivolgersi sempre alla realtà.
A nulla serve il suicidio. Esso libera forse l’individuo, ma lascia intatta la volontà, la quale anzi determina anche questo estremo gesto. La liberazione può essere raggiunta solo quando la volontà, divenuta consapevole di sé e del proprio destino, non vuol più essere volontà di vita o, meglio, vuole sottrarsi al suo dominio irrequieto. E’ precisamente nell’asceta, in cui il dolore universale ha parlato, che avviene il miracolo. Dunque la rinuncia, l’inazione, il nirvana è la suprema saggezza, che non solo redime l’individuo in cui si attua, ma l’intera volontà. L’ascesi è la più perfetta ma non la sola forma di liberazione: accanto ad essa abbiamo la giustizia e la compassione, nei quali si tende al superamento dell’egoismo, fonte di ogni dolore, e l’arte.
Questa è contemplazione dell’idea da parte di un soggetto che ha perduto ogni contatto col mondo. Non si tratta dunque tanto di superamento quanto di evasione, di oblio momentaneo del male. Nell'espressione così come nella contemplazione estetica dell'idea della bellezza il soggetto perde la sua individualità, si scioglie da ogni legame col mondo. Sebbene le idee siano il sostegno della vita, questa non ha più alcun effetto su di lui, perché ciò che egli contempla non è questa o quella manifestazione di vita, né egli è più un particolare individuo di fronte ad essa. L’artista non coglie l’idea in forma confusa, ma in limpida intuizione: questa, come ogni altra forma di intuizione, appartiene all’intelletto, ma si ha quando esso è superiore ai bisogni della volontà. Alla ragione come facoltà discorsiva appartiene solo il dominio dei concetti astratti; la ragione, basandosi sui dati dell’intuizione empirica dà la comune esperienza e in grado più eminente la scienza, mentre l’intuizione artistica penetra nel mondo della realtà essenziale.
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