mercoledì 1 dicembre 2010

Tra Monicelli e Cioran

Il primo intervento di questo mese non poteva che essere ispirato dalla tragica scomparsa di un grande artista ed intellettuale italiano, Mario Monicelli. E cercheremo di farlo usando il linguaggio che ha caratterizzato tutti i suoi film: quello della sincerità, della schiettezza e della velata amarezza che ciascuno di noi sente non appena si ferma un attimo a riflettere su di sé e sul nostro Paese. La necessità di un simile ricordo è resa ancor più urgente soprattutto per il modo con cui Monicelli ha scelto di porre fine alla sua esistenza, diventato, purtroppo, oggetto delle becere discussioni dei nostri politicanti, che sono riusciti a fare anche di questo tragico lutto un campo di scontro per le loro vomitevoli ideologie. Ma adesso non è il caso di discutere sull'eutanasia: vogliamo prendere spunto dall'ultimo gesto compiuto dal maestro di Monicelli per riflettere su qualcosa che rappresenta un tabù per la nostra civiltà, ovvero il nostro strutturale tendere verso la morte; la stretta relazione fra vita e morte e su come basti un nonnulla per spegnere per sempre un'esistenza.

Il filosofo che voglio farvi ascoltare ha fatto di questo pensiero il cardine di tutta la sua riflessione. Si tratta di Emil Cioran che per lungo tempo si è concentrato sul senso di questo estremo quanto coraggioso gesto. Ma il suicidio non può e non deve essere considerato come la facile soluzione a tutti i nostri mali, né come una meta piacevole da prefiggersi, bensì come enigmatico atto-limite per la nostra già paradossale esistenza, in quanto ci rimanda ineludibilmente alla nostra finitezza, alla nostra debolezza, alla nostra impotenza strutturale che invece cerchiamo di dimenticare appresso a progetti, impegni, preoccupazioni ed ansie con cui ci affaccendiamo nella quotidianità. Cerchiamo allora di sospendere per un attimo questo tempo "pieno" e lasciamo parlare a noi Cioran, dedicando questi pensieri al Maestro Mario Monicelli.


- Incontri col suicidio -


Esiste in noi, più che una volontà, una tentazione di morire. Se infatti ci fosse concesso di volere la morte, chi, alla prima contrarietà, non ne approfitterebbe? Un altro impedimento entra nel gioco: l'idea di uccidersi appare incredibilmente nuova a chi ne è posseduto; costui dunque si figura di eseguire un atto senza precedenti: questa illusione lo occupa e lo lusinga, e gli fa perdere del tempo prezioso.


Quando ci afferra l'idea di farla finita, uno spazio si stende davanti a noi, una vasta possibilità fuori dal tempo e dall'eternità stessa, un'apertura vertiginosa, una speranza di morire al di là della morte.
Invero, uccidersi è rivaleggiare con la morte, dimostrare che si può fare meglio di lei, giocarle un brutto tiro e, successo non da poco, riabilitarsi ai propri occhi. Ci si rassicura, ci si persuade di così di non essere l'ultimo venuto, di meritare un poco di considerazione. Si pensa: fino ad oggi, incapace di prendere un'iniziativa, non avevo nessuna stima di me; ora tutto cambia: distruggendomi, distruggo a un tempo tutte le ragioni che avevo per disprezzarmi, ritrovo la fiducia, sono per sempre qualcuno...


Aspettare la morte è subirla, farla scadere al rango di processo, rassegnarsi a una conclusione di cui ignoriamo data, modalità e scenario. Si è ben lontani dall'atto assoluto. Non c'è niente in comune tra l'ossessione del suicidio e il sentimento della morte. [...] La morte non è necessariamente sentita come liberazione; il suicidio libera sempre: è culmine, è parossismo di salvezza.
Per decenza, dovremmo essere noi a scegliere il momento di scomparire. E' avvilente estinguersi come ci si estingue, è intollerabile essere esposti a una fine sulla quale non abbiamo alcun potere, che vi spia, vi atterra, vi precipita nell'innominabile.
[...] La millenaria cospirazione contro il suicidio è la causa dell'ingombro e della sclerosi nelle società. E' nostro diritto imparare a distruggerci al momento giusto, ad accorrere lietamente verso il nostro spettro. Finché non ci saremo risolti a questo, meriteremo tutte le nostre umiliazioni. Quando si è esaurita la propria ragione d'essere, ostinarsi è odioso. E invece ovunque si guardi, non si vede che l'indegnità della morte corporale.
Scrive Leopardi che quando dopo molti anni ritroviamo una persona conosciuta nell'infanzia, la prima impressione che ne ricaviamo è che sia stata colpita da qualche grande disgrazia. Durare è sminuirsi: l'esistenza è perdita d'essere. [...]


Non ci si uccide, come comunemente si pensa, in un accesso di demenza, ma in accesso di intollerabile lucidità, in un parossismo che, se vogliamo, può essere assimilato alla follia, se è vero che una chiaroveggenza eccessiva, spinta agli estremi e di cui ci si vorrebbe sbarazzare ad ogni costo, oltrepassa i limiti della ragione. Nonostante tutto, il momento culminante della decisione non testimonia un intenebramento: gli idioti non si uccidono praticamente mai, anche se ci si può uccidere per paura, o presentimento, dell'idiozia. L'atto si fonde allora con l'ultimo soprassalto dello spirito che riprende se stesso e che prima di annientarsi raccoglie tutte le sue forze, tutte le sue facoltà. Sulla soglia della disfatta estrema, prova a se stesso di non essere interamente perduto. E si perde- in piena, in istantanea padronanza di tutti i propri mezzi.


In quell'isoletta del Mediterraneo, assai prima dell'alba, sul sentiero che mi portava verso la parte più scoscesa della scogliera, facevo qualche riflessione da portinaio in vacanza: se quella villa fosse mia la dipingerei color ocra, farei mettere un altro steccato, ecc. Nonostante la mia idea, mi aggrappavo alle inezie: contemplavo le agavi, bighellonavo, eludevo con qualche digressione l'urgenza del mio proposito. Un cane si mise ad abbaiare, poi mi fece festa e mi seguì. Nessuno, che non l'abbia provato, può immaginare il conforto che vi dà un animale quando viene a tenervi compagnia, se gli dèi vi hanno voltato le spalle.


- Pensieri strangolati -


Perché non mi uccido? - Se conoscessi esattamente ciò che me lo impedisce, non avrei più domande da rivolgermi, avrei risposto a tutte.


Non abbiamo scrutato il fondo di una cosa, se non l'abbiamo considerata al lume dell'avvilimento.


"Niente merita d'essere preso a cuore" - si ripete colui che ce l'ha con se stesso ogni volta che soffre e che non perde l'occasione di soffrire.


Cercare un senso a qualcosa è non tanto da ingenuo quanto da masochista.


Bisognerebbe dirsi e ripetersi che tutto quanto ci allieta o affligge corrisponde a niente, che tutto è perfettamente derisorio e vano.
...Ebbene, ogni giorno me lo dico e me lo ripeto, eppure continuo ad allietarmi e ad affliggermi.

1 commento:

  1. Avrei concluso con quella che secondo me racchiude almeno uno dei non sensi della vita,(non c'è nulla che mi calmi piu' di leggere Cioran, non è curioso?)ossia la seguente frase:
    "Abbiamo perduto nascendo quanto perderemo morendo.
    Tutto".

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